IL VENERDÌ di Repubblica

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Ho rotto un tabù tedesco: interpretare Hitler

Arriva in Italia La caduta, controverso film sulla fine del Fuhrer. Bruno Ganz spiega come ha affrontato il ruolo. E l'incubo.

dal nostro inviato Paola Zanuttini

Berlino. Dopo aver visto due ore e mezzo di macerie cinematografiche del Terzo Reich è quasi doloroso ritrovarsi fra i palazzi arditi e stranianti di Potsdamer Platz, il simbolo della Berlino bombardata, divisa, riunificata e riedificata che, fra tanto postmodern, conserva sotto vetro le rovine del glorioso Grand Hotel. Ma l’appuntamento con Bruno Ganz, che a 64 anni mantiene l’aria da eroe romantico, dolente e istrionico che l’ha consacrato maestro del teatro e del cinema europeo, è qui: in un albergo nuovissimo deciso a ricreare il lusso di un passato raso al suolo. Si parlerà del passato e delle sue vergogne perché, anticipato da accesi dibattiti in patria, il 29 aprile esce in Italia La caduta, film sui giorni finali di Hitler, tratto dall’omonimo libro dello storico Joachim Fest e dal diario dell’ultima segretaria del Führer, Traudl Junge. Con la regia di Oliver Hirschbiegel, che esordì dirigendo Il commissario Rex, Ganz interpreta il male fatto uomo, Adolf Hitler. Il film, visto da 4,5 milioni di tedeschi, ha indignato molti intellettuali e, in particolare, Wim Wenders, sodale e regista di Ganz in tre film (L’amico americano, Il cielo sopra Berlino, Così lontano, così vicino), ma anche del produttore della Caduta Bernd Eichinger, demiurgo del nuovo cinema tedesco, anche wendersiano, passato poi a prodotti più spettacolari. La tesi del regista è che questo film umanizza il Führer, non prende posizione, mostra pietà per la città distrutta, ma non per i sei milioni di ebrei della Shoah, inquadra migliaia di morti ma gira pudicamente la macchina da presa quando Hitler e Goebbels si suicidano.

L’hanno turbata queste critiche?

«Non molto. Ho incontrato Wenders all’aeroporto di Zurigo e gli ho spiegato perché non sono d’accordo: ho grande rispetto per le sue ragioni emotive, ma sembra che lui e tutta la sua generazione abbiano il bisogno e la voglia di uccidere Hitler ancora una volta».

Lei fa parte di questa generazione.

«Sì, ma io sono svizzero. È una differenza non da poco, anche se vivo qui. Non ho dovuto litigare con i miei genitori chiedendo, senza ottenere risposte soddisfacenti, cosa avevano fatto dal ’33 al ’45. È una lacerazione fra padri e figli che, nella sinistra, ha prodotto un codice rigido su come porsi verso la storia tedesca: Wenders lo condivide».

Lo si potrebbe definire un edipo irrisolto: anche rispetto a Hitler?

«Sì, certo. Ma lasciamo perdere, non applicherei questa definizione a Wenders. Però l’accusa di aver utilizzato un linguaggio mainstream o di non mostrare come si uccide Hitler …».

Ma perché non si vede?

«Non ci sono testimonianze certe su come è successo, e neanche sulla discussione con Himmler sulle ultime fasi dello sterminio. Eppoi non l’ho scritta io la sceneggiatura».

Goebbels non guarda la moglie avvelenare i figli: questo è documentato?

«Sì. E la cosa più sconvolgente è la motivazione che la madre si dà per compiere questa cosa orrenda: per i suoi bambini non può immaginare una vita senza nazionalsocialismo».

Nel pressbook del film si insiste sul disagio degli attori, sull’ansia di prendere le distanze, di marcare la differenza fra personaggi e interpreti.

«Questa storia va maneggiata con cura, è bandita dal paese. Anche se qualcuno ha voglia e capacità di affrontarla, si costruisce inconsciamente un muro per dimostrare che non sta dalla parte sbagliata. C’è stata elaborazione, ma è dura per un popolo guardarsi dal di fuori».

Verissimo. E, da fuori, lei trova plausibile che in Italia si conceda lo status di combattenti alle milizie di Salò?

«Anche se mia madre era italiana non so cosa possa significare per voi».

Che repubblichini e partigiani hanno pari dignità.

«E allora poveri voi e poveri spagnoli. Tanti Paesi hanno questo problema».

Oltre a La caduta, in Germania stanno uscendo molti altri film sul nazismo: sta cambiando qualcosa?

«Non so. La sorpresa è che stavolta i tedeschi hanno osato mostrare Hitler in un film, non in un documentario».

Pabst lo fece con L’ultimo atto.

«Troppo presto, nel ’55: chi lo vide? Ma è stato il film che mi ha convinto: un attore di livello può fare Hitler».

Prima era perplesso?

«Chi mai vorrebbe essere Hitler?».

I brutti ruoli sono sempre esistiti.

«Sì, ma letterari, io non ho mai fatto personaggi reali. Il problema è che per prepararmi ho letto molta letteratura dei Lager: il poco che ho capito su quella condizione è sconvolgente».

Al cinema, con la Shoah si rischia di trascurare la Storia, deviando sull’impatto emotivo. Anche il nazismo è diventato un genere.

«Chi  parla con me del film vuole sempre la visione totale, lo capisco, ma abbiamo raccontato solo due settimane, dovevamo concentrarci su quei giorni. E finalmente è un film basato su testimonianze: se lo rivedo mi fa piangere, ma mi chiedo anche come ha fatto questo uomo così stupido, meschino, a suscitare l’adorazione dei tedeschi. Quel che avviene nel bunker è materiale scespiriano: è la tragedia di chi non ha il diritto di essere eroe tragico. Perché la tragedia è dall’altra parte, tra le vittime, non tra i carnefici».

Ha avuto paura quando si è visto per la prima volta truccato da Hitler?

 «Sì, ma mi sono detto: “Anche se non riesci a recitarlo, la faccia c’è”. Nei mesi di preparazione, leggendo e avanzando verso l’essenza del signore Hitler, ho capito che prima di girare dovevo trovare un equilibrio che mi permettesse  di essere Hitler finché avevo baffi e parrucca e di liberarmi di lui appena me li toglievo. Non volevo incubi. Pensando solo agli ebrei non ne sarei riuscito, ho indagato sul consenso tributato a quest’uomo perfino ridicolo: oggi non avrebbe possibilità. Nonostante i neonazisti, la Germania è immunizzata».

Allora perché ha dichiarato che, anche oggi, chi non fa scelte politiche rischia di ritrovarsi in film pericolosi?

«Questa storia la conosco da vicino e mi fa paura. Werner Krauss, che interpretò i sei differenti ebrei nel più famoso film di propaganda antisemita, Suss l’ebreo, era il migliore. Ricevette l’Hiffland Ring, l’anello che distingue il più grande attore di lingua tedesca. Non ci sono giurie, giornalisti, istituzioni ad attribuirlo: è un’eredità che passa da un attore all’altro. Nel 1954 Krauss lo diede all’austriaco Josef Meinrad. E lui, nel 1996, l’ha consegnato a me».

Da Il Venerdì di Repubblica, 15 aprile 2005

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