IL VENERDÌ di Repubblica

  In copertina    RIPASSO DI STORIA    

Da tenere a memoria

di Giorgio Bocca

Mi dicono, tu che c’eri perché non ci spieghi cosa è stato esattamente quel 25 aprile del ’45, perché non ti provi a raccontare a un diciottenne di oggi che cosa sono state l’insurrezione, la liberazione di quella «bella primavera»? Non è facile, si tratta di mettere assieme tante cose diverse, come la politica, la guerra, la gigantesca resa dei conti, la fine di una dittatura, la tragedia degli sconfitti, la gioia dei vincitori, fatti concomitanti, a volte contraddittori, difficilmente documentabili. Comunque ci provo, ricordando il 25 aprile, la mia insurrezione. Al giovanotto di oggi dirò, per cominciare, che quel 25 aprile era una splendida giornata, almeno nel Basso Piemonte, di certo sulla montagna di Dronero, fiorita e verde di erba novella. La radio trasmette l’ordine di insurrezione che non ricordo esattamente ma in cui un «Aldo» diceva che era l’ora di scendere a valle e, pur avendo scritto una storia della guerra partigiana, non ho mai saputo perché il comando avesse scelto quel nome. Scendiamo di corsa dalla Margherita e alle case del Vallone crepita una sparatoria, vediamo il vecchio Demarca (in quei giorni a cinquanta anni si è vecchi), quello che è tornato dal Canada allo scoppio della guerra che stringe alla gola uno dei «briganti neri», come noi chiamiamo i militi fascisti. Stavano nella prigione della borgata, sono fuggiti e si è aperta la caccia: uno è già steso sulla ripa, in mezzo ai fiori, un altro corre come una lepre, le pallottole gli zampillano ora a destra ora a sinistra, le donne del Vallone urlano quando va giù. A Rua del Pra c’è la prima banda che va alla centrale elettrica di San Damiano, e qui devo parlare di una delle molte cose che hanno composto l’insurrezione, la liberazione. Se ne parla da tempo di salvare gli impianti, come chiamiamo tutto ciò che attiene al bene pubblico: centrali, linee ferroviarie, fabbriche, banche. Bisogna impedire che i tedeschi in fuga facciano brillare le cariche esplosive che hanno collocato negli ultimi mesi e il modo più semplice è precederli, occupare gli impianti in pericolo. Questo compito dell’insurrezione è risolto in poche ore, salve tutte le centrali elettriche, che allora rappresentano l’unica fonte di energia del paese, salvi anche i porti di Genova, di Savona, di Livorno. Ma già il 25 aprile si apre la discussione su chi veramente ne abbia il merito, se noi partigiani o i fascisti «buoni», o i tedeschi, e non è una faccenda solo nostra, è una faccenda che coinvolto gran parte dell’Europa. È stato l’architetto Speer, ministro degli Armamenti, a opporsi all’ordine di Hitler per una terra bruciata, per una distruzione totale di tutto ciò che può servire al nemico. Speer trova ascolto presso i comandi militari e presso i Gauleiter, gli amministratori del partito: anche i nazisti sanno che la guerra è persa e che conviene salvare il salvabile. Cento, mille casi da discutere: i porti sono stati salvati dalle squadre partigiane che hanno individuato da tempo le mine o dal vescovo di Genova che ha trattato con un generale tedesco, o dall’accordo raggiunto nel frattempo in Svizzera fra il comitato di liberazione Alta Italia e il comandante delle SS generale  Wolff? Non importa, importa che il paese sia in grado di rimettersi in funzione. Noi andiamo a Dronero, alla periferia di Dronero, nella casa dei Lombardi, la grande famiglia potente e virtuosa che va per tutte le strade che portano al potere: uno generale degli alpini ha occupato la Francia del Sud, uno presidente degli industriali, uno prete, che diventerà il «microfono di Dio», il predicatore della campagna anticomunista, un’altra Lombardi segretaria nazionale delle donne cattoliche. Il parroco di Dronero sta trattando la resa dei tedeschi e dei fascisti trincerati nella città, noi aspettiamo notizie e scende la notte, noi di Giustizia e libertà e i garibaldini che sono presenti con il loro comandante Steve e con un vecchio comunista di nome Moretta: dio santo proprio il compagno Moretta doveva portarsi dietro Steve? Questo rompiballe che quando ci incontra dice «ehi, voi di Giustizia e libertà, sapete cosa siete per un comunista, cosa contate? Come due peli dei coglioni». E il compagno Moretta è deciso a togliersi le sue soddisfazioni: quando è notte incomincia uno spogliarello con lentezza studiata, sino a rimanere in mutande di lana. Ma ci sbagliamo a pensare che i Lombardi si scandalizzino, guardano impassibili e, quando lo spogliarello è finito, chiedono: possiamo fare un caffè? Quando è giorno il parroco ci accompagna a parlamentare con i fascisti in municipio. Gli ufficiali fascisti sono seduti sugli scranni dei consiglieri a semicerchio, il generale Molinari a un tavolo. C’è qualcosa di teatrale sia in loro che in noi, che abbiamo posato ostentatamente sui banchi i nostri mitra. E in quella vedo davanti a me due baffoni noti, ma sì, è proprio lui, Soria, il segretario del gruppo universitario fascista di Torino, quello che mi mandava a fare le gare di sci e che si fece fotografare con noi il giorno che vincemmo la staffetta ai Littoriali di Madonna di Campiglio, «ciau Soria», «ciau Bocca». Un mormorio, non sai se di stupore o di sollievo, passa fra gli ufficiali fascisti. Ma già dal basso sale una canzone, mi avvicino alla finestra con Soria. «Sono i vostri che cantano?». «Non direi» dice lui, «mi sembra che cantino Bandiera Rossa». L’insurrezione dilaga per tutta l’Italia del Nord, è l’ultima battaglia in cui si è dominati dall’idea angosciante: possibile che debba morire proprio adesso che è finita? Una strana battaglia di movimento, l’inseguimento di un nemico che fugge, che cerca di nascondersi da quando si sa che gli alleati anglo-americani hanno rotto il fronte sugli Appennini e stanno dilagando nella Pianura padana. Tutto avviene in caotica corsa, in una confusione incontenibile. Passo a casa mia a Cuneo e mi affidano un fascista che ha amoreggiato con una mia cugina e che bisogna portare in salvo a Torino. Lo corichiamo su un’autoambulanza e via fino a Porta Nuova, dove gli diamo il largo. Devo portare una lettera a Peccei, capo partigiano ma anche direttore generale Fiat in servizio, tanto è vero che ha piazzato il comando di Giustizia e libertà nella villa del senatore Agnelli, che della Fiat è padrone. L’atrio e piano terreno sono pieni di partigiani. La villa è vicina al Po, su cui ogni tanto passano i cadaveri dei cecchini fascisti. «Ce n’è uno alla Gran Madre» si sente urlare. «Ce  ne sono sui tetti di piazza Vittorio». Allora le auto partigiane partono sgommando per la sparatoria. Sono nell’atrio quando sento il fruscio delle corde dell’ascensore. Esce un signore anziano in abito scuro, e canna. È il senatore Agnelli. Mi viene incontro e chiede: «Posso uscire per fare due passi?». «Non le conviene, senatore, stanno ancora sparando». Ci pensa su, poi torna all’ascensore, risale nella sua stanza in un fruscio di corde metalliche. Il professor Valetta sta per tornare a Mirafiori, scortato da paracadutisti inglesi. E la politica? Quel giorno noi pensavamo di esserne al centro, di esserne padroni. Ma non era così, già da un mese una missione alleata era arrivata nel Nord per dire al Comitato di liberazione che avremmo avuto dieci giorni di tempo per la resa dei conti e poi avremmo dovuto consegnare le armi e metterci agli ordini dei vincitori. Comunque la notte di quel 25 aprile e per tutte le notti di quell’anno ci furono feste e balli di quell’anno ci furono feste e balli perché eravamo giovani e vivi liberi, anche per merito nostro.


Milano Tino Casali: la violenza ci fu, ma la città pensava a riorganizzare il suo futuro

Con sindaco e prefetto si stava già ricostruendo

Tino Casali è presidente vicario dell’Anpi, l’associazione nazionale dei partigiani. «Con la divisione Antonio Gramsci, di cui ero commissario politico, entrammo a Milano dall’Oltrepò pavese poco dopo il 25 aprile. In città dilagava l’insurrezione, i tranvieri in sciopero, fermi gli stabilimenti dell’Alfa, della Pirelli. Ma anche i balli di piazza. Era stata una rivolta popolare spontanea, coraggiosa e raccogliticcia. Ora, pero, si trattava di fare un passo avanti. Di avviare la ricostruzione. Nella migliore tradizione del pragmatismo lombardo. Noi eravamo preparati. Tanto al combattimento (“Arrendersi o perire” era l’intimazione per i nazifascisti) quanto alla riorganizzazione politica e istituzionale. C’era Sandro Pertini che, come Emilio Sereni, avevo conosciuto in Francia, regione di Tolone, nel maquis, la resistenza. A Milano arrivai con indosso una divisa americana. La resa dei tedeschi, per quanto mi ricordi, non fu problematica. A noi si consegnarono nella caserma dell’aeronautica in zona Manforte. I fascisti sapevano già da tempo che avevamo concesso libertà di scelta: se si fossero arresi avrebbero potuto unirsi alle nostre unità combattenti. Anche se, ovviamente, non c’era sempre da fidarsi di chi passava dalla nostra parte. Di violenze su di loro ce ne furono e sarebbe meglio non ce ne fossero state. Io fui tra quelli che portarono in Piazzale Loreto le salme di Benito Mussolini e Claretta Setacci, poi tornai sul posto verso sera quando tutto era finito. Ma Milano in complesso si vedeva già proiettata nel futuro, nella ricostruzione. Aveva già un sindaco, Antonio Greppi, e un prefetto, Riccardo Lombardi. E ricordo che nel 1947 il teatro Alla Scala – su cui oggi infuriano le polemiche – rimasto a lungo inattivo perché bombardato era stato già ricostruito. Arrivò a dirigere Arturo Toscanini e fu una grande festa».


Torino Massimo Rendina: i fascisti sparavano sui civili. Qualche camicia nera passò con noi, molti furono uccisi. Provai a evitare lo scempio del cadavere di un federale, ma non ci riuscii.

Fu una battaglia terribile, combattuta casa per casa

Massimo Rendina, presidente dell’Anpi di Roma. «Entrare a Torino non fu facile. Il generale tedesco Schlemmer puntava sulla città con due divisioni dotate di carri armati tigre. Noi eravamo attestati lungo il Po, mentre il comando partigiano era installato in collina, nella villa di Camerana, cugino degli Agnelli. Girava voce che gli Alleati del colonnello Stevens ci avrebbero dato la consegna di far saltare tutti i ponti. Per fortuna ignorammo l’ordine, che si rivelò essere falso. All’epoca, avevo 25 anni, oltrepassai il fiume traghettato in zona Barca e Bertolla: in città l’insurrezione era già scoppiata da diversi giorni. Le fabbriche erano ferme, bisognava impossessarsene. I tedeschi si ritiravano, gli ultimi restavano asserragliati a piazza Castello, i fascisti avevano lascito sui tetti qualche cecchino che sparava anche sui civili. Puro terrorismo. La violenza impazzava. E in quelle circostanze non è facile distinguere tra politica, rancori privati, regolamenti di conti personali: tutto si aggroviglia in una matassa. Ricordo l’impiccagione del federale Solaro in Corso Vinzaglio, zona porta Susa. Raccapricciante. La prima volta la corda si spezzò. Lo appesero di nuovo. Alla fine tentai di proteggere il cadavere dalla furia della folla ma non ci fu verso. Si combatteva strada per strada. Militarmente fu molto difficile prendere la Caserma della Guardia nazionale repubblicana di via Asti. Era ben munita e noi poco attrezzati: poi arrivò un cannone da campo molto maneggevole. Il problema era però che nessuno di noi sapeva usarlo. Si fecero avanti due artiglieri in borghese e lo misero in funzione. In realtà erano due ex della milizia fascista passati dalla nostra parte … Le divisioni tedesche del generale Schlemmer si limitarono a lambire Torino ma ripiegando si lasciarono dietro atrocità e massacri».


Venezia Primo De Lazzari: avevo 17 anni, lui 15. Gli inglesi dissero: vendicatevi

Quel giorno morì il mio miglior amico

Primo De Lazzari, vicepresidente dell’Anpi di Roma, il 25 aprile aveva 17 anni e si trovava nella zona di Venezia. Da oltre un anno combatteva nella brigata Garibaldi «Erminio Ferretto». «Venezia venne liberata il 28. verso le sette del mattino un gruppo di partigiani entrò nella sede dell’Eiar, a palazzo Vendramin. Un dirigente della radio annunciò: “Attenzione, attenzione. Qui radio Venezia libera, da questo momento sotto il controllo delle brigate partigiane. Viva la liberà”. Due ore dopo, la bandiera con la croce uncinata venne calata da piazza San Marco e sostituita con la bandiera italiana. I tedeschi rimasti, dopo una trattativa si ritirarono lasciandoci la città. Il 24 e il 25 combattemmo a Treviso. Ero un ragazzo, ma avevo imparato a usare le armi. Se uccisi qualcuno? Sì, non c’era altro modo per liberarci dal nazifascismo. Furono giorni di gioia, ma anche di grande dolore. La nostra brigata perse, proprio il 25 aprile, sette ragazzi. Uccisi dai fascisti. Uno era il mio amico del cuore. Non aveva neppure 16 anni, Adolfo Ortolan detto Dolfin. Lo ferirono e poi lo uccisero, credo soffrì moltissimo. Veniva a scuola con me, all’istituto professionale di Mestre. Quando tutto fu finito, un giorno e mezzo dopo la liberazione di Venezia, arrivarono gli inglesi, che comandavano truppe australiane e neozelandesi. C’erano anche dei maori, fra loro e a noi sembrò strano. L’ufficiale comandante inglese ci disse: ci rendiamo conto che avete dei conti da saldare. Fatelo, ma tra 48 ore dovete riconsegnare le armi. Ma da queste parti non ci furono molte vendette, piuttosto a Treviso, dove i fascisti erano stati crudeli. Impiccavano i partigiani con i ganci da macellaio. Alcuni fascisti finirono nel fiume, nel Sile».


Roma L’insegnamento negato, le torture naziste, l’«Avanti!». Poi il grande giorno

Vassali: la mia gioia frenata dai timori per Pertini

Giuliano Vassalli, uno dei leader socialisti della Resistenza, grande penalista, ex presidente della Corte costituzionale, incarcerato e torturato dai nazisti di via Tasso a Roma, visse il giorno della Liberazione nella capitale. Racconta: «Il 25 aprile 1945 compivo giusto trent’anni. Vivevo a Roma con la mia famiglia e avevo iniziato da qualche mese una modesta attività di avvocato, aspettando di poter riprendere, con l’attesa liberazione dell’Italia del Nord, la mia funzione di professore di diritto penale nell’Università di Genova. Da questa ero stato allontanato, come altri docenti (della mia facoltà ricordo Giorgio Bo e Mario Scerni) per essermi rifiutato di iniziare l’insegnamento nell’anno accademico 1943-’44, dopo l’armistizio dell’8 settembre e la presa di possesso della vita universitaria da parte della Repubblica sociale. Ricordo che tale allontanamento fu disposto con decreto del ministro dell’Educazione nazionale Carlo Alberto Bigini e mi fu comunicato con lettera del rettore. A Roma vivevamo da molti mesi la separazione dall’Italia occupata dai nazisti e cercavamo di avere notizia dei nostri compagni che sapevamo in pericolo o – alcuni – già deportati in Germania. Io ero sin dall’agosto 1943 membro della direzione nazionale del partito socialista, collaboravo all’Avanti! E avevo, forse, qualche notizia in più. Il 25 aprile si diffuse tra di noi la voce che a Milano v’erano combattimenti in corso e che in situazione di grave pericolo si trovava in particolare Sandro Pertini, comandante dei nostri partigiani, vicesegretario del partito per il Nord Italia e membro del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai). Poi sapemmo che non era del tutto così, ma in quelle ore si temette per la sua vita. Pietro Nenni, direttore dell’Avanti!, scrisse subito una serie di corsivetti su Pertini e sul suo valore. Si debbono trovare nella prima pagina dello stesso 25 aprile 1945, perché il 26 fu la giornata in cui i timori si dissiparono e sapemmo della sostanziale resa dei seguaci di Salò. Dopo quel giorno cominciò «la conta degli scomparsi» e quella dei salvati. Non fu facile. Intanto l’Italia lentamente risorgeva e si avvicinava l’8 maggio, che fu proclamata giornata della fine della guerra in Europa. I lutti, in quei giorni e dopo, non mancarono. Vi furono prevaricazioni gravi, dovute al clima d’odio e di vendetta che si era accumulato durante quei terribili venti mesi di occupazione nazista. Feci parte di una missione italiana promossa dagli Alleati, incaricata d’insediare le Corti d’assise straordinarie e la sezione speciale della Corte di cassazione in Milano, previste dalla legge e destinate anche a porre fine all’attività di sedicenti tribunali del popolo. Così trascorsi a Milano il maggio del 1945, raccogliendo a ogni passo l’eco della durezza dei giorni e dei mesi che avevano preceduto la liberazione di quella città».


Napoli Gennaro Di Paola: da noi gli Alleati erano arrivati nel 1944, ma c’era un clima strano. I liberatori facevano di tutto per non farsi amare

Ci sentivamo occupati dagli americani

Gennaro Di Paola, del Comitato direttivo provinciale dell’Anpi di Napoli. «Il 25 aprile ’45 avevo 23 anni. Ero arruolato nell’aeronautica e aggregato alle truppe inglesi a Castellamare di Stabia. Proteggevamo i Cantieri Coppola, che producevano motori per gli aerei. Napoli era stata liberata nel ’44 e ci arrivavano notizie di quanto succedeva al Nord attraverso le ex radio clandestine della Resistenza, tipo, l’emittente Stella Bianca. In città si respirava un clima strano. Da un lato l’euforia, il fermento popolare, i cortei operai, i comizi (ricordo bene quello di Togliatti nell’aprile ’44). Dall’altro la presenza degli americani che molti di noi, più che come liberatori, percepivano ormai come forza di occupazione. Certo, distribuivano cioccolata e sigarette. Ma era una facciata, una mascherata, una grossa buffonata. A parte il fatto che venivano a bussarci alle porte in cerca di donne, il peggio succedeva al porto. Se pizzicavano qualche napoletano a rubare nei magazzini alimentari erano dolori. Avevano grossi barili di carne o fagioli: per punire i «ladri» glieli facevano mangiare tutti interi in una sola volta fino a farli scoppiare. Erano arroganti, colonizzatori, giravano ubriachi. Andavano in mezzo alla gente solo perché a loro serviva manodopera. Gli inglesi, al contrario, restavano disciplinati, distaccati ma più comprensivi. Per uno che, come me, aveva combattuto i tedeschi nelle Quattro giornate del ’43, non era un bello spettacolo. Mi ero ribellato contro l’autorità, battendomi quartiere per quartiere, strada per strada, casa per casa. E adesso? Il risultato? Al fascismo subentrava un’altra occupazione. Noi napoletani alle occupazioni stranieri siamo abituati. Ma restava la miseria. Durante il ventennio a noi giovani non facevano che ripeterci: “Petto in fuori pancia in dentro”. Non ci voleva molto a tenerla in dentro, la pancia, perché era vuota».


Genova Cesare Campart: la gente non aveva neanche più forza per esultare

Più che euforia c’era stanchezza

Cesare Campart, 82 anni, ex sindaco repubblicano di Genova, città martire, dove la lotta per la Liberazione fu durissima. «Ero rientrato a Genova nel febbraio del 1945. prendendo qualche rischio, perché con me c’erano due partigiani, uno dei quali era ferito. Lo portai a Nervi. Lì abitava mio padre. Faceva il farmacista, ma era mutilato e solo, mia madre era già morta. Volevo rivederlo, rimanergli vicino. Nel ’43 ero riuscito a convincerlo di lasciarmi andare volontario a Pescara per un corso da allievo pilota. Non servì a granché, perché per gli aerei già scarseggiava il carburante. Avevo fatto un po’ di pratica sul Breda 25. Ma ero andato in aeronautica soprattutto per timore di essere spedito a combattere in Russia. Non ho mai avuto nessuna esperienza nell’uso delle armi. Personalmente, non ho ricordi «da protagonista». Anche perché da Nervi vecchia, dal porticciolo, non avevo un quadro chiaro di quanto stesse succedendo nel centro di Genova. Ero in un quartiere poco politicizzato e povero, anche se non come certe zone depresse della città. I miei ricordi personali dei tedeschi non sono feroci, ma in città vi furono rappresaglie terribili e crudeli. A Nervi non si respirava un’atmosfera di euforia, piuttosto di mestizia, sfinimento: si chiudeva una pagina terribile della storia nazionale. Alla notizia della morte di Mussolini non ci furono esplosioni di gioia. La gente era davvero troppo stanca».


Guida ai musei e ai sacrari della Resistenza

Dalla Risiera si San Sabba a Via Tasso dove il dolore è testimonianza

Sacrari e Musei. Molti sono in Italia i luoghi che ricordano la Resistenza e gli eccidi nazifascisti. Eccone alcuni.

A Boves (Cuneo), dove furono uccise 84 persone, oggi si trovano lapidi e monumenti.

A Fondotoce, una frazione di Verbania, il «Muro della gloria» e un sacrario nella Casa della Resistenza ricordano 42 partigiani fucilati nel giugno ’44, dopo che altre 300 persone erano state uccise nel rastrellamento della vicina Val Grande.

La Risiera di San Sabba, a Trieste, l’unico campo di concentramento nazista in Italia con forno crematorio, dove morirono cinquemila persone, ora è un museo storico.

Il Campo di concentramento di Fossoli, a Carpi (Modena), luogo di transito per i deportati nei Lager, è diventato un Museo, aperto il 25 aprile, la domenica, fino a luglio.

A Montefiorino, sempre in provincia di Modena, dove dal 18 giugno al 2 agosto 1944 resistette una piccola Repubblica partigiana, c’è un museo aperto fino ad agosto

A Sant’Anna di Stazzema, sulle colline di Lucca, il 12 agosto 1944 i nazisti assassinarono 560 persone: la strage è ricordata dalla mulattiera che porta al villaggio, dal Monumento ossario sul Col di Cava, da un Museo storico e dal Parco della Pace.

Il Parco Storico di Monte Sole di Marzabotto (Bologna), ricorda invece la strage di 1830 persone con trincee, rifugi  e ruderi di edifici distrutti dai nazisti, come il palazzo del Comune, dove una cinquantina di donne e bambini vennero radunati in una stanza e uccisi con bombe a mano.

A Gattatico (Reggio Emilia) un’ampia struttura colonica sui Campi Rossi, un podere di circa 16 ettari, ospita il Museo Cervi dedicato alla resistenza e alla storia del movimento contadino: è la casa dove vissero i sette fratelli Cervi, fucilati dai fascisti per rappresaglia il 28 dicembre 19 43.

Fosdinovo (Massa Carrara) ospita il Museo audiovisivo della Resistenza

A Roma il Sacrario delle Fosse Ardeatine, in via Ardeatina, è un complesso monumentale che abbraccia le cave nelle quali, il 24 marzo 1944, i nazisti uccisero 335 persone per rappresaglia.

Sempre a Roma, in via Tasso 145, il palazzo dove nei nove mesi dell’occupazione nazista della capitale, tra il ’43 e il ’44, furono rinchiusi e torturati centinaia di partigiani è sede del Museo della Liberazione.

Da Il Venerdì di Repubblica, 15 aprile 2005

sommario