IL VENERDÌ di Repubblica
STORIE CATTIVI MAESTRI
Perché la Francia non lava i suoi panni nell’acqua di Vichy
Gli archivi del regime filonazista sono stati aperti. Ma del fascismo precedente a Petain nessuno parla. E neppure del suo ideologo, lo scrittore Drieu La Rochelle (che si uccise sessant’anni fa). Motivo? Non infrangere uno dei miti nazionali. Quello degli intellettuali
dal
nostro inviato Marco Cicala
Parigi.
Notte fra 15 e 16 marzo 1945. sessant’anni fa. In un appartamento non lontano
da Place de l’Etoile, c’è un uomo elegante, famoso e discusso, abbandonato
su una poltrona. Sulla testa pende un mandato d’arresto che potrebbe tradursi
in pena capitale. Ma lui s’è già condannato da solo: dopo aver fumato un
pacchetto di Camel, inghiotte una sfilza si sonniferi e s’attacca al tubo del
gas. È al terzo tentativo di suicidio in pochi mesi. Stavolta sarà quello
definitivo. L’indomani, la governante scopre il cadavere di Pierre Drieu La
Rochelle, 52 anni, il più illustre e controverso intellettuale
collaborazionista francese, dopo Luois-Ferdinand Céline. Ma se quest’ultimo,
allo sbarco degli Alleati in Normandia, ha deciso di riparare in Germania, Drieu
ha invece scelto di rimanere in patria. Perfettamente consapevole che nella
Parigi liberata lo attendono giorni gravi dei processi a chi, come lui, ha
sponsorizzato l’ideologia hitleriana. Lascerà scritto: «Spero di trovare una
morte conforme al mio sogno di sempre, una morte degna del rivoluzionario e del
reazionario che sono». Morte che oggi, a sessant’anni di distanza, la Francia
non intende, comprensibilmente celebrare. Ma nemmeno ricordare: su Drieu nemmeno
una pubblicazione. Mentre in Italia SE manda in libreria l’interessante
inedito Racconto segreto seguito dal Diario 1944-45. Eppure la rimozione
collettiva del «tabù collaborazionista» si allenta. Per merito di storici e
ricercatori, ma non solo: proprio in questi giorni, dopo aspre polemiche,
passano sulla tv francese i filmati del processo che, nel ’98, vide l’ex
funzionario petainista Maurice Popon, condannato a dieci anni per il ruolo
svolto nella deportazione degli ebrei. Quaranta puntate che hanno il peso di una
lunga seduta di autocoscienza storica. Ma allora, in questo clima di riesame
critico perché dimenticare Drieu La Rochelle? Forse perché ripercorrere il suo
itinerario politico e intellettuale è quasi più imbarazzante che frugare tra
le innumerevoli vergogne del regime di Vichy: significa andare alle radici di
quel fenomeno esteso e profondo, ma ancora troppo poco indagato, che fu il
fascismo à la française. Operazione imbarazzante, nella Patria dei
Diritti dell’Uomo. Un Paese che, a lungo, ha ritenuto il virus totalitario
estraneo al proprio Dna culturale. «Vichy, in fondo, non dà più fastidio a
nessuno. Mentre anche in Francia, i democratici dell’estrema destra restano
vivi e vegeti», conferma Dominique Desanti, scrittrice e storica, che al
personaggio ha dedicato la più importante delle biografie: Drieu La Rochelle.
Da dandy a nazista (Flammarion, pp. 476, euro 23). Ottantasei anni, un padre
ucciso dai nazisti, ex partigiana e comunista, sodale di Jean-Paul Sartre (di
cui quest’anno si commemora il centenario): perché una donna del percorso
politico tutto à gauche avrebbe dedicato anni di ricerche a uno come Drieu?
Risposta: «Perché volevo sapere chi è davvero un “fascista”, non ne avevo
mai conosciuti, mi avevano sempre insegnato che i fachos vanno evitati o
bastonati. Ma soprattutto perché Drieu rappresenta ancora un enigma
affascinante, sintesi drammatica delle lacerazioni di un’epoca e di una
generazione. Ormai, d’altronde, l’hanno capito meglio a sinistra che a
destra». Personalmente, lei, lo incontrò una volta sola, nel ’41, quando lo
scrittore occupava la direzione della Novelle Reveu Française, «bibbia»
dell’intellighenzia parigina pubblicata da Gallimard e, all’epoca, sotto
stretta sorveglianza della censura. «Drieu la dirigeva svogliatamente»,
ricorda Desanti. «Sapeva bene che nella casa editrice continuavano a tenersi
riunioni letterarie “non ortodosse”, come quelle a cui stavo andando quando
lo vidi sul pianerottolo. “È Drieu …” sussurrò qualcuno all’apparizione d’un
bell’uomo calvo ed elegante. Mi voltai dall’altra parte. Non volevo
incrociare il suo sguardo. Per me era il demonio». Quelli sono gli anni in cui
buona parte del beau monde parigino flirta allegramente coi gerarchi
nazisti.fianco a fianco, quando non a braccetto, signore in lungo e divise
uncinate. L’Opéra e le Folies Bergère: Coco Chanel abita al
Titz con un ufficiale tedesco. La star del cinema Arletty fa lo stesso («Il mio
cuore è francese ma il mio culo è internazionale!» si difenderà, alla
Liberazione). Drieu , il dandy, il «Grande Gatsby con la svastica
all’occhiello», snobba le mondanità più vistose. Crede nel Reich, «ma
disprezza i grigi politicanti di Vichy» spiega la biografa: «Per lui
incarnavano il passato, la vieille France piccolo borghese, tutta “Patria-lavoro-famiglia”».
Preferisce gli intellettuali. Specie quelli non allineati. È amico di André
Malraux (che diverrà icona gaullista) e di Louis Argon (ex surrealista, poi
comunista fin troppo ortodosso). Nel ’41 fa perfino scarcerare dalla Gestapo
Jean Paulhan, grande stratega editoriale di Gallimard, attivo nella Resistenza.
Le contraddizioni del personaggio non finiscono qui. Razzista paranoico («Questi
ebrei di cui troviamo ovunque lo sperma, quando non sono gli intrighi o le idee»)
ma anche paradossale («Se tornassero a casa loro, gli ebrei sarebbero un gran
popolo. Io sono razzista per tutte le razze, il mio internazionalismo si fonda
sul culto delle razze»). Lui, l’antisemita che, però, nel ’17 aveva
sposato in prime nozze una facoltosa ragazza ebrea, Colette Jeramec. «Giurava
di non esserci mai andato a letto. Chissà …» dice Desanti. Nel ’43,
comunque, Drieu salverà Colette dai lager. Mentre sarà lei la sola a dargli
asilo e conforto negli ultimi, disperati, giorni della clandestinità.
Filonazista anglofilo nel look: tweed, flanelle, calzature direttamente da
Londra, Pierre piace alle donne e a lui piacciono soprattutto straniere.
Oppiomane estenuante (come il protagonista del suo romanzo più famoso: Fuoco
fatuo, diventato, nel ’64, un film di Louis Malle) frequenta i bordelli ma
seduce anche le grandes dames: compresa Christiane Renault, moglie di uno
degli industriali più ricchi di Francia. È però un machista sui
generis: come gli eroi dei suoi libri non si vergogna della propria impotenza.
Anzi: la enfatizza leggendovi il marchio di una generazione «bella e dannata».
La generazione della Grande guerra. È in trincea che Drieu sviluppa quella
venerazione per l’autorità che in seguito lo porterà al culto degli
aristocratici, grandi capitani d’industria e, soprattutto, grandi dittatori.
Dapprima Hitler («Incarna il mio ideale politico: fierezza fisica, ricerca del
portamento … Eroismo guerriero e anche bisogno romantico di sfibrarsi,
distruggersi in uno slancio non calcolato, non misurato, eccessivo, fatale»)
poi, alla décâble del Reich, tutte
le speranze vengono riposte in Stalin («Morirei di gioia selvaggia all’idea
che sarà il padrone del mondo. Finalmente un padrone». Socialfascista, quale
si definiva, Drieu non aveva le idee confuse ma tragicamente chiare sulla
perversa affinità fra opposti totalitarismi, che – anche per colpa di gente
come lui – avrebbero reso il Novecento un secolo, insieme, ipnotico e
inguardabile. Intellettuale totalitario, tout-court, inseguiva l’idea
allucinata di un’Europa imperiale e verticistica, bonificata dalle singole
patrie, del capitalismo antieroico e bottegaio, dalla decadenza delle «anemiche»
democrazie parlamentari. «Ancor di più, però» sottolinea Dominique Desanti
«rincorreva il mito dell’intellettuale che strega e smuove le masse». Il
coctkail di pensiero e di attivismo che, con qualche insidia e senso
d’inferiorità, riconosceva nei carismatici Malraux e Arargon. «André
Malraux l’avrebbe certamente salvato dal patibolo» assicura la storica, «mentre,
dopo la guerra, sentendomi definire “Drieu un “farabutto”, Argon mi redarguiva: “Per
noialtri comunisti, materialisti, la vita è il valore supremo. Drieu ha pagato
i suoi errori sacrificando la propria. Che doveva fare di più?».
Da Il Venerdì di Repubblica, 21 marzo 2005