IL VENERDÌ di Repubblica

Miei cari registi se parlate di Shoah fatelo al presente

Il collaborazionismo. La crudeltà del cittadino qualunque. Li racconta un film francese (oggi in Italia). Una critica eccellente lo ha visto per noi. Duro? Lei lo è molto di più

di Paola Zanuttini

Tullia Zevi, la prima donna al mondo eletta presidente di una comunità ebraica nazionale (quella italiana, che ha governato per 16 anni), sbuffa. Anzi, ansima. Stiamo guardando la cassetta di Monsieur Batignole, un film che in Francia ha incassato oltre tre milioni di euro parlando di argomenti sgraditi: l'occupazione tedesca, il collaborazionismo, il maresciallo Pétain, l'indifferenza verso le deportazioni. Lo ha diretto e interpretato Gérard Jugnot, cineasta poco conosciuto da noi ma molto amato a casa sua. Il film, che esce oggi in Italia, narra la storia di un macellaio parigino, Batignole appunto, che si trova a causare involontariamente l'arresto degli inquilini del piano di sopra: un chirurgo ebreo e la sua famiglia. Sempre involontariamente, il macellaio finisce per trasferirsi nel loro appartamento, grande e invidiato. E, ancor più involontariamente, diventa un eroe salvando il figlio e le nipoti di quel vicino per cui ha sempre provato un latente fastidio, forse antisemita. Una commedia sulla tragedia, insomma.

Perché sbuffa, Signora Zevi?

«Perché ne ho viste e sentite tante. Però, al processo Eichmann, più che sbuffare, non dormivo più. Erano testimonianze ben più sconvolgenti e agghiaccianti degli interrogatori ai criminali nazisti dei processi di Norimberga. A Gerusalemme, avevano chiamato i testimoni dai quattro angoli della Terra, gente che si era data la consegna di tacere per sempre sul male subìto. Ma poi parlarono. Quei racconti sembravano sacre rappresentazioni, vomitavano, talvolta urlando, talvolta in un sussurro, ricordi terrificanti. Come se tirando fuori queste memorie si compisse una catarsi liberatrice. E io non dormivo più. Nemmeno gli altri giornalisti: ci trovavamo di notte a camminare per i corridoi dell’albergo. Anche se questo è un film ed è ricostruito, si vedono i meccanismi del coraggio e della viltà, della generosità e dell’ingordigia: seguirlo è abbastanza penoso».

Le è piaciuto, al di là della fatica?

«Non è certo il primo film sulla Shoah diretto da un regista non ebreo, ma pare che sinora ci sia stato un ritegno nel raccontare le contraddizioni e la crudeltà dell’alta parte. Qui invece ci sono i buoni e i cattivi oppure i malvagi che diventano buoni; si vedono cattivi capaci di qualche bontà e persone per bene capaci di immense vigliaccherie. È una radiografia spietata dell'animo umano».

Pare che Gérard Jugnot sia molto portato in questo genere di analisi.

«Deve essere così, c'è lo sforzo di decifrare le contraddizioni e le viltà della Francia profonda che io ho conosciuto quando espatriammo nel ‘38. Eravamo quattro fratelli e il minore, Eugenio, un ragazzino mitissimo con 9 diottrie di miopia, fu messo a convitto al Lycée Michelet, periferia piccolo-borghese di Parigi. lo che venivo dall'Italia, un Paese fascista, non pensavo si potesse essere così razzisti e antisemiti. Eugenio, che ora è professore di Matematica all'Università della Pennsylvania, lo andavo a trovare tutte le settimane. Lui mi raccontava cosa gli facevano i suoi compagni dopo aver scoperto che era ebreo: lo stendevano su un tavolo, lo spogliavano, gli giravano intorno deridendolo perché era circonciso e gli disegnavano in faccia i baffetti di Hitler. Lui nel giorno di visita, mangiava la frutta e i dolci che io gli portavo. Raccontava e piangeva».

In Italia non era la stessa cosa?

«Fino alle leggi razziali gli ebrei erano generalmente rispettati. Dopo 2000 anni di presenza, la più antica comunità ebraica della diaspora si era integrata, mantenendo un’identità specifica pur sviluppando un rapporto simbiotico con la vita circostante».

Cosa ricorda delle leggi razziali?

«Per molti ebrei, fascisti compresi, furono uno shock. Molti altri, come mio padre - un avvocato antifascista, e repubblicano, al corrente di quanto stava accadendo in Germania e in Austria - non si meravigliarono più di tanto».

Si parlava del duce, a casa sua!

«Mio padre non faceva propaganda. Ci faceva capire cosa fosse il fascismo usando le armi sottili dell’ironia e del disprezzo. Una volta Eugenio, più piccolo e quindi più indottrinato a scuola, gli chiese: “Non trovi che Mussolini sia un grand’uomo?”. Lui rispose: “Per ora ha fatto solo fesserie”. Quando arrestarono e poi rilasciarono una mia compagna, sorella di un antifascista, le telefonai. I telefoni, allora, erano controllati. Mio padre, passando e udendo, mi carezzò i capelli».

Perché la Francia ha avuto questa storia?

«La Francia è un Paese aperto e generoso, ma è anche la patria di Chauvin e dell'affare Dreyfuss. Certo, l'appartenenza di tanti intellettuali ebrei alla sinistra aizzava la reazione della destra. È successo lo stesso nell'Europa Centro ­orientale con l'avvento del comunismo: miseria e paura non incoraggiano la benevolenza verso il diverso».

Ancora gli ebrei usati come capro espiatorio?

«In fondo sì. Lungo i secoli gli ebrei sono stati additati all'odio e al disprezzo perché eternamente colpevoli per la morte di Gesù. È l'antico meccanismo biblico del capro espiatorio su cui venivano scaricate le colpe, le miserie e la rabbia del popolo, che si è andato perpetuando praticamente fino al concilio Vaticano II, con il documento Nostra aetate. Il meccanismo del capro espiatorio è perenne, cambia solo il capro. Noi eravamo la minoranza da demonizzare nell'Europa cristiana, perché eravamo il popolo deicida e sono convinta che 2000 anni di predicazione contro il popolo deicida hanno allentato i freni inibitori dell'inconscio collettivo cristiano, quando si scatenò il grande eccidio. Ma ora, a parte qualche sacca di antisemitismo, gli ebrei fanno parte della maggioranza bianca, quindi altri sono oggi i capri espiatori. Anche per questo ho sbuffato».

Qual è la debolezza del film?

«Quando mi capita di parlare nelle scuole di Shoah, antisemitismo e razzismo e di raccontare la mia esperienza di testimone di quegli orrori, so che l'attenzione non regge più di 10 minuti. Allora dico: "Guardate che non vi racconto fatti di sessant’anni fa per dirvi com’erano cattivi i nazisti e i fascisti, ma per mettervi sull'avviso, perché impariate a captare i segnali di pericolo. Quel che è accaduto può ancora accadere. Attenzione: che differenza c'è fra soluzione finale del problema ebraico e pulizia etnica nella vicina Jugoslavia? Nessuna, entrambe si riferiscono al tentato sterminio di una minoranza da parte di una maggioranza". Allora quei giovani sguardi si riaccendono».

Secondo la teoria dell'eterno capro espiatorio, gli immigrati sono gli ebrei di oggi.

«È arrivato il momento di parlare di scafisti e clandestini; di Bossi che sbraita contro gli immigrati e degli imprenditori del Nordest che ne reclamano in gran fretta 200 mila. La paura e il sospetto verso “i diversi di oggi” e il bisogno di manodopera straniera si intrecciano nella stessa regione. È ora di fare riflessioni e film in cui il passato che abbiamo vissuto si intrecci ai problemi di oggi. Occorre mettere a fuoco gli incontri e gli scontri di popoli e culture, di vu cumprà e di scafisti, di società multi culturali e di crocifissi in ogni classe... Soprattutto, dobbiamo chiederci cos'è l'Europa: non siamo più il continente bianco e omogeneo che per secoli si è odiato e diviso con passione. Con la globalizzazione, in fondo ciascuno è minoranza di qualcun altro. E per evitare che un cambiamento così epocale produca tragedie bisogna stare con gli occhi aperti, prendere atto di queste mutazioni ed esprimerle con la stessa efficacia con cui Jean Renoir, diciamo, raccontò la Prima guerra mondiale nella Grande illusione».

E Monsieur Batignole, invece?

«A forti tinte, tenta di spiegare i dilemmi terribili che travolgono l'animo umano in tempi di guerra, ma è ancora un déjà vu che rimane confinato in quattro anni di storia francese rimossa. Sono passate tre generazioni, ma per fare in modo che anche i giovani capiscano bisogna andare oltre».

da Il Venerdì di Repubblica, 27 settembre 2002

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