l'Unità
«Noi non perdoniamo» - Gli ebrei tornano nel fango di Auschwitz
AUSCHWITZ.
Come cinquant'anni fa, c'è sempre il fango alla ferrovia che porta dentro
Birkenau; la fabbrica della morte a due chilometri dal campo originario sul
piazzale tra il crematorio 2 e il crematorio 3: il freddo, il fango, la
disperazione che dappertutto invadeva. Il primo giorno delle celebrazioni
dei 50^ anniversario della liberazione è nelle parole di monito scandite da
Elie Wiesel: «Non avere pietà, o Signore, per coloro che non ebbero pietà per
i bimbi ebrei». E nella condanna delle responsabilità «in una parte della
Chiesa cattolica», Parlano i sopravvissuti rappresentanti d'Israele e delle
comunità ebraiche: ad ascoltarli, tra gli altri, c'è il capo dello Stato
tedesco Herzog. Il freddo tono dell'ufficialità nel discorso dei presidente
polacco Lech Walesa. Il cardinal Martini dice alla Radio Vaticana: «Persistono
ignoranza e pregiudizi» contro gli ebrei, i cristiani debbono riconoscere le
loro «colpe».
L'intervista - E. Wiesel: «Dimenticare? Ė un altro martirio»
di Umberto De Giovannangeli
«Non
possiamo, non dobbiamo dimenticare Auschwitz. Non dobbiamo dimenticare che al
fondo dell'Olocausto vi era il proposito di annientare gli ebrei, colpevoli, di
esistere: chi nega questo infligge alle vittime dei lager nazisti una seconda
morte». A parlare è Ėlie Wiesel, premio Nobel per la pace nel 1986.
«L'antisemitismo e l'odio razziale segnano ancora questo fine secolo. Non posso
perdonare gli aguzzini e coloro che ne esaltano le gesta».
Cinquant'anni
fa le truppe sovietiche entravano ad Auschwitz. Cosa ricorda di quei giorni?
Per
me, come per i miei compagni di sventura detenuti in quel lager a Buchenwald, le
truppe sovietiche arrivarono troppo tardi. I nazisti, infatti, avevano avuto il
tempo di evacuare il campo di concentramento. Pochi erano rimasti, e tra questi
c’ero anch'io. Mi chiesi a lungo il perché, sino al giorno in cui, a Mosca
nel 1979, ebbi l'occasione di rivolgere direttamente la domanda ad uno dei
generali sovietici che liberarono Auschwitz. «Perché siete arrivati così
tardi», gli chiesi, un po' brutalmente. La risposta fu purtroppo evasiva, il
motivo fu imputato a vaghi problemi logistici Quel «perché» l'ho rivolto
tante volte in questi 50 anni ai generali e ai politici che sconfissero i
nazifasciti. Nessuna delle loro risposte mi ha mai convinto, tanto meno la
versione ufficiale consegnata al libri di storia: «il miglior modo di aiutare
gli internati nei lager è vincere la guerra».
Cosa
ha rappresentato Auschwitz nella storia dei popolo ebraico?
Il
Male assoluto, ecco cosa ha rappresentato. Ciò che ha caratterizzato quel
periodo fu una determinazione assoluta nel pianificare e condurre a compimento
l'annientamento di un popolo. Questo è stato l'Olocausto, in questo consiste la
sua novità rispetto al passato: per la prima volta nella storia, si intendeva
eliminare completamente dalla faccia della terra un popolo. Gli ebrei non furono
perseguitati e sterminati per motivi specifici, perché credevano o non
credevano in Dio, perché erano ricchi o poveri, o perché professavano
ideologie nemiche: no gli ebrei venivano uccisi, umiliati, torturati per il
semplice fatto di essere tali. Perché erano colpevoli di esistere: questo è
l'orrore incancellabile della Shoà.
La
memoria dell'Olocausto sembra smarrirsi: c'è chi afferma che ciò è un bene,
che ricordare serve solco a perpetuare antiche divisioni.
No,
no, sono assolutamente contrario. Dimenticare le vittime significa null'altro
che infliggere loro una seconda morte! Una vera riconciliazione, inoltre, non
può avvenire che a partire dal ricordo, preservando la memoria di ciò che
furono quegli anni. Ė vero: oggi c'è chi esalta l'oblio, chi ritiene
giunto il momento di archiviare il passato. A questa operazione sento il dovere
morale di ribellarmi, ieri come oggi: perché per nessuna ragione al mondo è
possibile cancellare la distinzione tra il carnefice e la sua vittima.
«Con
l'Olocausto devono fare i conti solo i tedeschi»: è un'affermazione che si è
ripetuta nel corso degli anni. Ma è proprio così?
Tra
tutte le menzogne, questa è una delle più spregevoli. L'Olocausto riguarda
tutti, è un problema che coinvolge la teologia, la civiltà occidentale, le
religioni, la coscienza di ogni individuo. Certo, i boia sono stati i tedeschi,
e spetta innanzitutto a loro rivedere senza più alcuna ambiguità la loro
storia. Ma i tedeschi hanno goduto di diffuse complicità: l'odio verso gli
ebrei, ad esempio, si è nutrito anche di giustificazioni, e coperture, da parte
della Chiesa cattolica, come con grande coraggio e onestà intellettuale ha
sottolineato un recente documento del clero tedesco. L'Olocausto è un problema
dell'umanità intera ed è anche un pezzo di storia che appartiene al popolo
ebraico, le vittime.
I
suoi libri hanno trattato il tema della memoria, dei ricordo e dell'oblio, e di
come la tragedia dell'olocausto si è trasmessa da padre in figlio nel popolo
ebraico, in Israele e nella Diaspora.
Ė
il tema dell'identità ebraica, della sua specificità che non va smarrita ma
che non deve mai essere vissuta come «separazione» dal mondo dei
«Gentili». In uno dei miei libri, L’oblio, (Bompiani), il protagonista
sintetizza cosi il suo sentirsi ebreo: «Se sono ebreo, sono un uomo. Se non lo
sono, non sono nulla. Sola così potrò amare il mio popolo senza odiare gli
altri». Questo mi ripetevo allora, nei giorni di Buchenwald, quando i nostri
aguzzini volevano cancellare la nostra identità, prima di negarci la vita, per
ridurci solo a dei numeri, quelli marchiati a fuoco sulle nostre braccia. Ma non
ci sono riusciti: hanno ucciso sei milioni di ebrei ma non sono riusciti a
cancellare la nostra identità. Ed è per questo che oggi, posso dire con il mio
Malkiel (il personaggio principale dell'Oblio ndr): è proprio perché amo il
popolo ebraico che trovo in me la forza per amare quelli che seguono altre
tradizioni. Un ebreo che rinnega se stesso non fa che scegliere la menzogna.
Signor
Wiesel, per chi ha vissuto l'esperienza dei lager nazisti ha un senso la parola
«perdono»?
Ė
la domanda che ha accompagnato la mia esistenza di sopravvissuto. Ma parole come
«perdono» o «misericordia» non trovano posto nell'inferno di Auschwitz. No,
non è possibile perdonare gli aguzzini di un tempo e coloro che ancora oggi ne
esaltano le gesta. In questi cinquant'anni ho pregato più volte Dio, e la
preghiera è la stessa che recitavo quando ero rinchiuso nel lager- «Dio di
misericordia, non aver misericordia per gli assassini di bambini ebrei, non
avere misericordia per coloro che hanno creato Auschwitz, e Buchenwald, e Dachau
e Bergen-Belsen... Non perdonare coloro che qui hanno assassinato». Ma questo
non vuol dire condannare per sempre un intero popolo, quello tedesco, perché
noi ebrei, le vittime, non crediamo in una colpa collettiva. Solo il colpevole
è colpevole».
Questo
fine secolo è segnato dal ritorno dell'intolleranza xenofoba e antisemita, nel
nome della fede o della razza si compiono i peggiori crimini contro l'umanità:
è un'ondata inarrestabile?
Spero
di no, ma non ne sono sicuro. Perché alle soglie del Terzo millennio riemergono
i vecchi demoni: quelli dell'odio, del fanatismo, della demonizzazione del
«diverso», di cui l'ebreo resta ancora il simbolo. Questi lugubri fantasmi
ricompaiono in Polonia, dove è ancora fortemente radicato l'antisemitismo,
nella Russia post-sovietica, come pure nella «civile» Austria, dove è
cresciuto notevolmente il peso elettorale dell'estrema destra. E problemi di
memoria devono esserci anche in Italia se sino a qualche giorno fa i neofascisti
erano al governo. Contro tutto ciò vi è un imperativo morale, prima ancora che
politico: impedire al mondo di dimenticare. Perché solo così potremo evitare
delle nuove «Auschwitz».
(ha
collaborato Deanna Belluti)
Carta
d'identità
Elie
Wiesel ha ricevuto nel 1986 Il Premio Nobel per la pace. Scrittore ebreo di
lingua francese, è nato nel 1928 a Sighet, in Transilvania. Durante la seconda
guerra mondiale fu deportato ad Auschwitz e a Buchenwald. Dopo la liberazione
per alcuni anni ha lavorato in Francia, alternando l'insegnamento al
giornalismo, e nel 1956 si è trasferito negli Stati Uniti. Attualmente vive a
New York e insegna filosofia all'Università di Boston. Ė autore di
numerosi romanzi, racconti, saggi e opere teatrali. Tra i più noti: «Reinventare
la pace e la speranza», «L'ebreo errante», «Il Golem», «Il quinto
figlio».
Da l'Unità, 27 gennaio 1995, per gentile concessione