l'Unità
Prigioniera di due mondi. Memoria. Margarete Buber-Neumann: il racconto di una vittima di Stalin e di Hitler. Una straordinaria testimonianza (finalmente tradotta) sui totalitarismi che segnarono gli anni trenta e quaranta e una verità che avrebbe avvantaggiato tante coscienze (soprattutto a sinistra)
di Marcello Flores
Il titolo di questo straordinario libro di memorie non era
certo l'ideale per poter essere letto,
non diciamo apprezzato, da un pubblico di sinistra fino a poco tempo fa. E
immagino che ancora adesso l'accostamento tra i due più famosi dittatori di
questo secolo lasci un senso di fastidio e di irritazione a parecchi. Eppure
Margarete Buber -Neumann, che lo scrisse nell'ormai lontano 1948, a circa metà
della sua lunga e avventurosa vita, voleva solo, forse con un po' di candore ma
certo non ingenuamente, raccontare la verità. A questo lo
spingeva l’essere doppiamente una sopravvissuta: dei campi siberiani e kazaki
del gulag staliniano e dei lager nazista di Ravensbrück. Proprio in
quest'ultimo aveva incontrato, stringendo con lei un'amicizia profonda, Milena
Jesenskà, una delle più note giornaliste boeme, rimasta famosa soprattutto per
il legame sentimentale che, dal 1920 al 1922, l'aveva stretta a Franz Kafka. Fu
proprio Milena a incoraggiarla a scrivere, immaginando un libro, scritto a due
mani, «sui campi di concentramento di entrambe le dittature, con il
quotidiano rito dell'appello, le squadre di lavoro che marciavano incolonnate e
milioni di uomini degradati a schiavi in nome dei socialismo da una parte, e ad
onore e gloria della razza superiore dall'altra».
(p. 242). La morte, purtroppo, privò Margarete dell'amica a pochi mesi dalla
liberazione, ma le consegnò anche il lascito morale di raccontare e
descrivere a nome di Milena e dei milioni di donne e uomini che avevano subito
la sua tragica sorte. Non fu solo l’ovvio motivo biografico e cioè l'unità
della sua vita a spingere Margarete a scrivere insieme dell'esperienza nei campi
sovietici e tedeschi. Le somiglianze, pur in mezzo a molte differenze che lei fu
capace prima e meglio di altri di individuare, tra l'universo concentrazionario
staliniano e quello nazista, tra i due totalitarismi che segnarono tragicamente
soprattutto gli anni Trenta e Quaranta di questo secolo, apparivano una dolente
verità a chi aveva dedicato gli anni della giovinezza al comunismo. Una verità
immediata e lampante, che tuttavia rendeva più lacerante e a tratti
incomprensibile l'esperienza di chi, come Margarete, del comunismo aveva
conosciuto anche gli aspetti eroici della lotta rivoluzionaria in Germania. Una
verità, soprattutto, che non riusciva a far breccia e neppure a scuotere la
solida e stolida ferrea ideologia che rivestiva i comunisti come una seconda
pelle, rendendoli impermeabili all'evidenza e alla testimonianza diretta. Alcune
delle pagine più belle e più tragiche dei racconto di Margarete sono quelle
che riguardano i suoi rapporti con le comuniste di Ravensbrück, da cui venne
immediatamente isolata ed emarginata perché considerata, come «prigioniera»
dello stato sovietico, una pericolosa trockista: «ancor prima di entrare a far
parte della popolazione internata dei campo, ero già stata messa al bando»
(p. 196). Come al bando verrà presto messa anche Milena, fino ad allora
corteggiata dalle comuniste benché uscita già nel 1936 dal partito comunista
cecoslovacco, perché non aveva voluto interrompere i rapporti con Margarete. Se
la maggioranza delle cornuniste tedesche rinchiuse a Ravensbrück fece di tutto
per rendere più difficile la vita, o meglio la sopravvivenza, della
Buber-Neumann, vi fu anche chi accettò, con disperato realismo, di riconoscere
la verità che Margarete cercava di far conoscere. Come Lotte Henschel che le
confidò: «Durante
tutti questi anni di carcere mi sono disperatamente aggrappata ai racconti delle
comuniste sull'Unione Sovietica. Altrimenti come avrei fatto ad andate avanti?
Era la mia unica speranza! Se potessi dubitare delle tue parole!». Neppure i nazisti, dei resto, le avevano creduto quando aveva raccontato di
essere stata arrestata a Mosca e deportata in Siberia, considerandola ancora
un'agente dei Comintern malgrado fosse stata proprio la Gpu a consegnarla agli
uomini delle SS sul ponte sul fiume Bug, vicino a Brest Litovsk. Un momento,
quello, in cui Margarete e i suoi compagni di sventura avevano conosciuto forse
la più atroce e ultima delle delusioni, che avrebbe definitivamente spazzato le
antiche convinzioni: «I nostri visi erano sfigurati da un'identica espressione
di impietrito terrore. Ci fermammo tenendo lo sguardo puntato sulla sponda
opposta del ponte ferroviario che delimitava la frontiera tra la zona polacca
occupata dai tedeschi e quella presidiata dai russi. Dall’altra parte un
militare stava dirigendosi a passi lenti verso di noi. Quando si fece più
vicino riconobbi il berretto delle SS. L'ufficiale della Nkvd e l'uomo delle SS
si scambiarono il saluto militare. Il suo viso butterato sembrava una maschera,
come si suol dire nei romanzi dell'orrore». I compagni di sventura di
Margarete erano quasi tutti membri dei partiti comunisti della Germania e
dell'Austria, finiti senza motivo nei lager staliniani e adesso, dopo un viaggio
compiuto con l’illusione di venir finalmente liberati, venivano consegnati
cinicamente ai loro persecutori di un tempo, per sfuggire i quali erano andati
in Urss ad aiutare la costruzione dei socialismo. Nel racconto di Margarete
prevalgono, come quantità, le pagine dedicate al periodo «trascorso
a Ravensbrück, ma la vicenda si snoda con una impressionante e ripetitiva
uniformità anche se diverse, nei campi sovietici e nazisti, sono le regole,
l'ordine, le forme che assumeva la brutalità e la sopraffazione degli aguzzini,
la solidarietà e la speranza dei reclusi. Tra la fredda e crudele meticolosità
burocratica prussiana che le toccò di sperimentare nel lager nazista e la
caotica, insensata e disorganizzata cattiveria semicontadina dei campo russo, vi
era comunque un ineliminabile tratto comune: la volontà di reintrodurre la
schiavitù per milioni di uomini e di fiaccarne con ogni mezzo la resistenza e
soprattutto la dignità.
«Da Milena a Ravenbrück ai processi»
di
M. F.
Nata a Postdam nel 1901, Margarete Thuring nel 1921 aderisce
alla gioventù comunista insieme al marito Rafael Buber, figlio del filosofo
ebreo Martin, da cui ebbe due figlie che seguirono più tardi il padre in
Palestina. Dal 1926 Margarete è membra del partito comunista tedesco e dal 1928
lavora al periodico del Comintern Inprekorr. Nel 1929 sposa Heinz Neumann, uno
dei massimi dirigenti della Kpd: alcuni anni prima la sorella Babette aveva
sposato Willi Munzenberg, alla testa della propaganda dell’Internazionale
comunista. Nel 1932 viene richiamato a Mosca e qui vive, dopo soggiorni a Zurigo,
Parigi e in Spagna. Isolato ed emarginato politicamente. Nell’aprile 1937
Neumann è arrestato e scompare per sempre. Margarete viene condannata a cinque
anni di campo di lavoro. Nel 1940, in base agli accordi del patto tedesco
sovietico dell’agosto 1939, Margarete è riconsegnata ai nazisti insieme a
centinaia di militanti comunisti tedeschi e austriaci. Fino al termine della
guerra resterà internata a Ravensbruck. Dopo la guerra Margarete è a
Stoccolma, dove scrive «Prigioniera di Stalin e Hitler», apparso nel 1948 e
tradotto in molte lingue (e ora pubblicato dal Mulino, p.422, lire 45.000). Più
tardi completerà le sue memorie col volume«Da Postdam a Mosca» (1957), che
narra le vicende fino al momento dell’arresto, e con «Milena, l’amica di
Kafka», dedicato alla compagna di prigionia (edito in Italia da Adelphi).
Margarete muore il 6 novembre 1989. Pochi mesi dopo la pubblicazione del suo
libro. Margarete fu protagonista, come testimone, di due processi clamorosi che
si svolsero a Parigi. Nel gennaio 1949 il tribunale della Senna dovette
giudicare la causa di diffamazione intentata da Victor Kravchenko contro il
giornale comunista Les Lettres francaises. Kravchenko era un alto funzionario
dei servizi sovietici. Fuggito nel 1944 negli Stati Uniti dove aveva pubblicato
nel 1946 uno dei libri sull’URSS rimasti più famosi. «Ho scelto la libertà».
Il periodico francese aveva sostenuto che il libro era falso ed era stato
scritto dai servizi segreti americani. In un processo che divenne quasi un atto
di accusa al sistema sovietico, l’unica testimonianza che provocò disagio e
non venne accolta con favore o sfavore pregiudiziale da parte degli opposti
schieramenti fu appunto quella di Margarete. Così ricordò più tardi una delle
più famose giornaliste comuniste dell’epoca: «La testimonianza di Margarete
fu sconvolgente, e io ne uscii angosciata … Era l’eterno problema.
L’eterna ingiunzione: “no gettare via il bimbo con l’acqua sporca”:
questo motto comunista ci veniva continuamente ricordato quando un problema
individuale ci nascondeva l’orizzonte del cammino futuro». Ed Hermann Broch,
in una lettera a Hannah Arendt, aggiungeva: «Anche se soltanto un quarto di ciò
che ha detto Kravchenko è esatto è sufficiente». Un anno dopo Margarete tornò
a testimoniare nella stessa aula. Questa volta il processo per diffamazione era
stato intentato da David Rousset, ex internato in un lager tedesco e fondatore
con Sartre del Rassemblement démocratique révolutionnaire, sempre contro Les
Lettres francaises. A seguito di un appello che Rousset aveva lanciato ai
sopravvissuti dei campi tedeschi perché aiutassero a formare una commissione
d’inchiesta sui campi sovietici, sul giornale comunista Pierre Daix, scampato
a Mauthausen e molto più tardi comunista pentito, aveva accusato Rousset di
aver fatto passare testimonianze dei campi nazisti come realtà dell’URSS.
Anche in questo caso Margarete si mise al servizio della verità, ma il clima
ormai incombente della guerra fredda rese inascoltato il suo grido. Anche sui
giornali comunisti «fratelli» dell’Italia repubblicana.
Da l'Unità, per gentile concessione