l'Unità

«Ida a dodici anni il buio dentro»

di G. Marsilli

Ida Fensterszab-Grynszpan è un'energica signora che oggi conta 65 primavere. È stata ad Auschwitz quand'aveva 14-15. Catturata dai gendarmi francesi e poi consegnata ai tedeschi, ha perso ad Auschwitz i suoi genitori. Andando nel lager era convinta di ritrovare la madre e di poterle dare marmellata e paté, il tesoro che si era portata dietro dalla Francia. Dice di esser uscita dall'inferno con la forza della solidarietà e la volontà di conservare le proprie energie. Il 2 maggio del'45, quando i sovietici la liberarono a Ravensbruck, pesava trenta chili. Avverte il dovere di testimoniare, perché nessuno dimentichi. «lo non so cos'è l'odio», dice. Parigi. «Dall'inizio, d'accordo, cominciamo dall'inizio. Dal giugno del '40, quando avevo dieci anni appena. I tedeschi occupavano Parigi, i parigini fuggivano i tedeschi. Noi vivevamo nel XIX arrondissement e i miei pensarono bene che non era il caso che io restassi in città. Con la mia nurse mi spedirono in campagna, in un piccolo villaggio che si chiamava Jeune-Lié, nella regione delle Deux-Sèvres. Com'era bello. Me lo ricordo come un'oasi di pace. Le case, il campanile, la gente. Un paesello fatato per una bambina. Tutti sapevano che ero ebrea, e tutti mi avevano accolto con calore e semplicità. Andavo anche a messa la domenica, e nessuno trovava niente da ridire.

«Il cielo si oscurò» 

Il mio cielo così azzurro si oscurò il 16 luglio del '42. Quel giorno mia madre venne presa nella retata de Velodromo d’Inverno. Lei non credeva che avrebbero arrestato le donne. Era corsa questa voce, che donne e bambini sarebbero stati risparmia dai rastrellamenti. Lei ci aveva creduto, e non aveva preso precauzioni. Se ne andò così, in un convoglio verso Auschwitz. Mio padre invece sfuggì alla cattura. Viveva alla macchia nella banlieue parigina, e da lì mi scriveva. Nessuno sapeva che mia madre era in un campo della morte. Pensavamo che fosse in Germania per lavorare, come altri deportati. lo ero sicura di riabbracciarla, una volta finita la guerra... «Mi arrestarono il 30 gennaio dei '44. Mi ero fatta ragazzina, avevo 14 anni. Vennero in due, due gendarmi francesi. Con una macchina nera, le macchine della polizia. Mi ricordo che qualche vicino venne a vedere cosa succedeva, benché fosse mezzanotte. Sì, erano arrivati a notte fonda, il villaggio dormiva. Venne anche un consigliere comunale, che si mise a discutere con i gendarmi.  Ma non ci fu niente da fare. Ricordo bene che andai nella mia stanza a prendere le mie cose, e che vedendo la porta-finestra che dava sul giardino mi venne voglia di scappare. Ci pensai un attimo, e sa perché rinunciai? Perché ero convinta che avrei riabbracciato mia madre. E poi venne la nurse, e mi disse che l'avevano ricattata: o prendevano me o avrebbero preso suo marito Paul. Così misi in un sacchetto un po' di viveri, marmellata, miele, paté, quel buon paté di campagna, e andai. In macchina uno guidava, l'altro era seduto vicino a me. E ricordo bene, come fosse una foto, che quest'ultimo si tolse il berretto, si asciugò la fronte con un fazzoletto e disse: che sporco lavoro! ... "Un'ora dopo, eravamo davanti al capitano della gendarmeria. Quello sì, sapeva bene quel che faceva. M'interrogò subito su mio padre: dov'è? gli scrivi? e dove gli scrivi? Mi cucinò a dovere, ma non mi brutalizzò. lo resistetti, e non gli diedi alcuna informazione utile. Ma mi ricordo di aver realizzato di colpo l'enormità della cosa: c'era un legame diretto tra Parigi e quel buco perso nella campagna del sud-ovest. Sapevano che gli mancava un ebreo, il suo nome, l'esistenza di sua figlia. Mi accorsi di   questo, e restai sgomenta. Le racconto tutto questo per dire che furono i francesi ad arrestarmi, che a erano loro a organizzare le retate e li   a consegnarci ai tedeschi. Anch'io, che ero nata a Parigi e che ero francese a tutti gli effetti. Da lì mi trasportarono a Niort, dove eravamo una ventina. D la mia nurse tentò il tutto per tutto. Si fece fare da un curato un falso certificato di battesimo e con quello andò alla Kommandantour tedesca. C'è un errore, disse all'ufficiale che la ricevette, La bambina è cattolica, non ebrea. Ma scusi,  le replicò l'altro, chi l'ha arrestata? I francesi. E allora, cara signora, cosa ci posso fare io? Così andavano le cose ai tempi di Vichy...

Il giorno della partenza

 «Mi ritrovai dunque a Drancy, nel campo di raccolta. Eravamo in migliaia tra quei casermoni di cemento. lo avevo sempre con me la sporta con dentro marmellata e paté, che volevo dare a mia madre quando l'avrei ritrovata. Ne ero più che certa. Soprattutto perché questo avevano detto ai più piccoli: che eravamo lì per partire verso la Germania dove  avremmo ritrovato i nostri genitori. Venne il giorno  della partenza. I tedeschi ci presero in consegna. Da una corriera ci travasarono, precisi e organizzati, direttamente nei carri bestiame. Eravamo almeno sessanta in quel vagone Non c'era spazio per allungarsi, si respirava appena grazie ad una piccola grata. C'era una specie di tinozza per i nostri bisogni, ma si rovesciò presto. Un orrore. In quel vagone piombato viaggiammo tre giorni e tre notti. Una volta ci fermammo in piena campagna, c'era la neve e i soldati ci dissero che potevamo scendere per fare pipi. E quella fu la prima di tante umiliazioni. Ero un'adolescente convinta di ritrovare la mia mamma, e mi toccò di orinare sotto lo sguardo dei tedeschi, che non voltavano la testa... «Sa cosa le dico? Che quando arrivammo ad Auschwitz avvertimmo tutti un grande sollievo. E un'altra cosa ricordo: il treno che si ferma bruscamente e subito, senza aspettare un secondo, le guardie che sbloccano i chiavistelli e spalancano i portelloni. Un rumore terribile, un rumore di violenza mentre i cani abbaiavano e gli ufficiali urlavano. Da quella volta non posso più sentire un chiavistello che cigola, un porta che sbatte. Mi vengono i brividi ... C'era un metro di neve. Noi eravamo tutti scombussolati, istupiditi dal viaggio. Un'anziana signora  - aveva i capelli bianchi - con la quale avevo a  condiviso un metro quadrato di vagone mi gridò: Ida, aspettami! Ma io non l'aspettai, Saltai giù nella neve assieme a due ragazze e con loro rimasi. Non so perché. Per istinto volevo stare con qualcuno della mia età. 0 forse un sesto senso. Abbandonai la signora e ancora oggi ho un senso di colpa. Non avrei potuto far niente, beninteso. Anzi, per me probabilmente sarebbe stato peggio. Ma non so che farei, sto male quando ci penso...  Chi è stanco vada sul camion, gli altri restino qui. Questa era stata la prima selezione. Anzi, la seconda perché subito ci avevano diviso tra uomini e donne. E poi tra elementi validi e non validi. lo ero in piedi, e stetti tra quelli "sani". Feci bene. Sa, quello era un convoglio di 1500 persone, di cui 814 donne. Di queste, solo 61 vennero ammesse al lavoro. E io con loro. Ero la più giovane. Mi presero perché sembravo più anziana grazie ad un'acconciatura che mi aveva fatto mia madre due anni prima. I capelli tirati su mi davano un'aria da sedicenne.  E questo bastò. Quand'eravamo scesi dal treno ci avevano tolto tutto quello che avevamo. E io avevo dovuto consegnare il pacchetto con la marmellata e il paté che volevo regalare alla mamma. Quando ho capito che non avrei rivisto mia madre? Non mi ci volle molto. Avevo visto come avevano gettato la gente inabile al lavoro sui camion, come fossero stracci. Avevo visto, quando marciavamo per cinque via dalla stazione, le prime, baracche e quelle donne che non avevano più niente di umano: due occhi grandi e vuoti, una casacca a righe sopra uno scheletro di ossa, un foulard sulla testa rapata. E qualcuno ci aveva mostrato lì in fondo quel fumo che usciva dal camino: è lì che vanno a finire quelli dei camion, ci avevano detto. Nel forno crematorio. «La mia destinazione fu Auschwitz-Birkenau. Fu tutto molto veloce. Uno stanzone grandissimo per disinfestarci tutte nude. Era degradante. L'umiliazione, come posso dire? E poi subito tutte rasate, dalla testa ai piedi. I capelli, le ascelle, il pube. Eravamo irriconoscibili. C'erano sorelle che non si riconoscevano, sfigurate, sfregiate, annichilite. Poi il marchio indelebile. Eccolo qui, guardi: 75360. Nel registro del campo eravamo tutte Sarah. Spersonalizzate, senza più identità, eravamo solo dei numeri. L'appello lo facevano gridando i numeri in tedesco, e guai a chi non capiva. Erano botte, bastonate, fino a che non restavi a terra. Le kapò tedesche erano detenute per reati comuni, e anche le polacche. Avevo la fortuna di aver parlato yiddish in famiglia, quindi capivo il tedesco. Quante bastonate ho evitato così, accorrendo subito quando la kapò urlava il mio numero. Esprimere spirito di rivolta voleva dire indebolirsi. La forza  stava, nell'adattarsi, nel conservare le proprie energie. Per nutrirci di davano una gamella di zuppa che era come colla e niente cucchiai. Sorbivamo e leccavamo, come cani. E quel fumo che usciva dal camino. Ogni tanto il vento ce lo mandava addosso, e puzzava. Non erano foglie secche né legno. Era carne che bruciava.

Le sorelline italiane. 

«C'erano due sorelline italiane con noi. Me le ricordo bene perché erano belle e raffinate, una aveva gli occhi azzurri e l'altra era una brunetta. Ci raccontarono della meravigliosa casa che avevano in Italia, della vita che conducevano Era come il giardino dei Finzi Contini. Una si chiamava Lucia, l'altra non ricordo. Chissà che fine hanno fatto. lo lavoravo. Portavo delle pietre con una carriola dal qui a lì e il giorno dopo le riportavo da lì a qui. Per lavarsi c'era un filo d'acqua. La sveglia era alle cinque, e all'appello dovevano esserci tutti, i vivi e i morti. Sì, il cadavere di chi era morto nella notte doveva figurare lì, nel cortile. Questione di ordine. Assistevamo alle impiccagioni, ai 25 colpi di bastone che uccidevano. Nel settembre del '44 ci spostarono ad Auschwitz e fu meglio. Mi pareva un paradiso. Lavoravamo in una fabbrichetta, confezionavamo granate. li 18 gennaio del '45 - già da qualche giorno si sentiva il cannone tuonare - ci misero in marcia. Mangiavamo la neve, ci trascinavamo. Poi ci buttarono su un treno, ma lì non ricordo quasi nulla. Mi si erano congelati i piedi, avevo il tifo, pesavo trenta chili. Mi salvò un'infermiera polacca, sciogliendo del permanganato dì potassio in una ciotola di acqua tiepida, quando arrivammo a Ravensbrück. Mi liberarono i russi il 2 maggio e mi curarono per un mese. Poi, il 30 giugno, un aereo mi riportò a Parigi. Anche mio padre era stato arrestato. E anche lui, come mia madre, era stato inghiottito da Auschwitz».

Da l'Unità, 27  gennaio 1995, per gentile concessione

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