l'Unità
Giorno della Memoria
Gli
smemorati di Auschwitz
di Furio
Colombo
Estraneo per convinzione alla storia - che mostra di riconoscere solo in certe sue immaginette di Salò - l'ex onorevole Domenico Gramazio dice da Israele, dove si trova in visita, chissà perché, che «la destra italiana non ha avuto responsabilità nello sterminio degli ebrei, l'Italia fascista non condivise le leggi razziali e Almirante salvava gli ebrei». Fa particolare impressione - e avrà fatto il suo effetto di sgradevole sorpresa in Israele - che Gramazio abbia detto quello che ha detto sulla porta del Museo della Shoah a Tel Aviv, dopo aver visto quello che ha visto, compresi i nomi degli ebrei italiani sterminati. Fa ancora più impressione che Gramazio evochi come prova il nome di Almirante. Dopo la svolta di Fiuggi del partito di Gramazio, poteva essere giusto smettere di ricordare che Almirante è stato segretario di redazione della rivista «La difesa della razza». Gramazio, come Fini, è nato dopo e non è colpevole di niente. Ma poiché avrà visto un po' di televisione, avrà sentito, anche per sbaglio o non volendo, storie e testimonianze di ebrei italiani denunciati, arrestati e deportati dai fascisti, non può non sapere che sta mentendo. O meglio, si permette di assolvere il partito che è stato uno dei due protagonisti mondiali del progetto di sterminio più spaventoso, accurato e sanguinoso che abbia mai attraversato l'Europa. Raccomandiamo a Gramazio di leggere subito il libro su Perlasca di Enrico Deaglio e il Diario dello stesso Giorgio Perlasca, proprio perché i due libri raccontano la repulsione morale per le leggi razziali di un uomo vicino al partito amato e ingiustamente assolto da Gramazio. Ecco perché esiste «Il Giorno della Memoria» approvato dalla Camera quando Gramazio era ancora deputato e che, come si vede, ha ancora molto da insegnare. Per questo stupisce anche più che un altro personaggio, che non è né privo di memoria, non è ex fascista, ed è storico di professione, (affiliato anche, in passato, all'Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione del Friuli-Venezia Giulia) abbia scritto ieri, in prima pagina, sul quotidiano «Il Piccolo» di Trieste un articolo dal titolo «Giorno della Memoria? No grazie». Lo storico è Giampaolo Valdevit che - per fortuna - scrive quello che scrive nelle stesse ore in cui Gramazio parla. Ovvero proprio mentre un pezzo di apparato politico italiano di maggioranza e di governo annuncia di non sapere nulla di tutto ciò che è accaduto in Italia dalla espulsione dei bambini ebrei dalle scuole del regno alla cacciata da cattedre, professioni, carriere e lavori di qualunque tipo, anche isolato e autonomo, di tutti gli italiani ebrei, dalla destinazione ai lavori manuali e stradali di quei concittadini alla razzia del 16 ottobre a Roma, alla strage di Meina, alla deportazione nel campo di Fossoli e poi di Auschwitz, con la fervida collaborazione dei fascisti italiani. Scrive il prof. Valdevit, negando in poche frasi non solo la Storia, ma anche la sua professione di storico (che ovviamente considera inutile) «ricordare per non ripetere gli errori del passato è un monito vuotamente retorico e inutile». La frase contraddice il senso stesso della cultura, dell'insegnare, del cercare di tramandare ai più giovani il senso delle esperienze e di ciò che è già accaduto. E lo scrive proprio mentre si cerca, nel mondo, di istituire luoghi, tribunali, occasioni per costringere i colpevoli a rendere conto, per mostrare anche a coloro che sono guidati dai peggiori sentimenti che nella Storia c'è un dopo in cui, come Eichman, si può essere chiamati a rispondere. L'articolo di Valdevit finisce con la frase insensata (soprattutto per uno storico): «Della Giornata della Memoria possiamo quindi tranquillamente farne a meno». Forse si deve essere grati all'ex onorevole Gramazio (che ora è - pensate - responsabile della Sanità nella regione Lazio) per avere dimostrato a suo modo in buona fede, cioè con sincera cecità verso il passato (visto solo dall'interno di un contenitore ex fascista) quando sia stato avventato il disprezzo di Giampaolo Valdevit, di professione storico, per l'impegno di ricordare.
Che cosa vuol
dire Ricordare
di Michele
Sarfatti
Cerco
degli aggettivi per la memoria della shoah. Innanzitutto
è bene che la memoria sia volontaria. Proprio per questo ho appena scritto le
parole “è bene che sia”, e non “deve essere”. Auspico che nessun
insegnante vada oltre i propri compiti educativi, costringendo gli studenti ad
adottare una memoria che essi non vogliono sentire. Auspico che nessun capo
obblighi dipendenti riottosi a dedicare sessanta secondi a una cosa che essi
rifiutano o addirittura disprezzano. La shoah fu il prodotto supremo della
coercizione del totalitarismo. I modi e le forme del suo ricordo debbono
mantenersene distanti. La memoria della shoah è intensa, non lieve. Quando
venne finalmente bloccato, il piano di sterminio aveva già totalizzato sei
milioni di uccisioni (spesso collettive), sei milioni di singole vite
interrotte. Sei milioni di attimi di ricordo esulano dalle nostre capacità
medie; per questo essi, pur restando individualmente lievi, assommandosi e
fondendosi, si addensano e si intensificano.La memoria della shoah è
rispettosa. Chiede che i suoi memori rispettino la memoria delle altre tragedie
del Novecento. E chiede di essere essa stessa rispettata da chi si autodefinisce
suo memore. Chi prova l'insopprimibile bisogno di “metterla in serie” con il
trattamento omicida attuato dallo Stato sovietico contro gli oppositori politici
o dal nazionalismo jugoslavo contro gli “italiani” alla fine della guerra,
si vergogni. E altrettanto faccia chi sente l'insopprimibile bisogno di definire
seccamente “nazista”, “sterminatrice”, Israele o la sua popolazione
ebraica. E se non riescono a vergognarsi, provino cortesemente per un giorno a
tacere; grazie. Come ogni memoria di un evento triste, dovrebbe essere discreta.
Ciò in effetti è reso difficile dalla stessa esistenza della legge che ne
riconosce l'importanza. Diciamo quindi che non deve essere sfacciata: il dolore
e il compianto per le vittime, e la riflessione sul pensare e sull'agire
dell'uomo necessitano un contesto non esagerato, non gridato. Infine, la memoria
della shoah non può non essere onesta. Come è noto, la deportazione degli
ebrei d'Italia fu attuata dapprima per decisione autonoma dell'occupante
tedesco, e successivamente in forza di un accordo - scritto o tacito - tra il
Terzo Reich di Adolf Hitler e la Repubblica Sociale Italiana di Benito
Mussolini: ebbene, i tanti italiani che oggi plaudono all'adesione propria o
altrui alla RSI (come il ministro Mirko Tremaglia, o i senatori in procinto di
votare una legge in onore dei militari repubblichini) sono esentati d'ufficio
dal prendere parte al nostro impegno di memoria. La loro, sarà una presenza
ipocrita, falsa, intollerabile per una memoria della shoah necessitante sincerità,
civiltà, umanità.
Da l'Unità, 25 gennaio 2005, per gentile concessione
Ricordare
Auschwitz, la Lega vota contro
I
leghisti non firmano la risoluzione dell’Europarlamento: non vogliono che si
parli di antisemitismo
di
Sergio Sergi
BRUXELLES
La Lega non ha firmato la risoluzione
del Parlamento Europeo nel 60° dell'olocausto. È il dato politico che risalta
in Europa nel «giorno della memoria» mentre l'aula di Bruxelles si appresta
a discutere (dibattito questa sera, voto domani mattina) un documento unitario
sottoscritto da tutti gli altri gruppi (Pse, Ppe, Alde, Verdi, Gue e la destra
dell' Uen). E, dopo il voto, tutti i capigruppo accompagneranno il presidente
Josep Borrell alla cerimonia di Auschwitz. I leghisti sono fuori: reduci da una
gazzarra contro la Costituzione, con Borghezio in prima fila che accusava l'Ue
di essere come un Soviet, gettano nell'imbarazzo i loro alleati di governo in
Italia. C'è di più: come denuncia Nicola Zingaretti, presidente della
Delegazione italiana nel Pse, la Lega blocca da due anni la «Decisione quadro
per la lotta contro il razzismo e la xenofobia». «Ci indigna ma non ci
sorprende la decisione della Lega di non firmare - dice Zingaretti - ma le forze
politiche della maggioranza dovrebbero dissociarsi e dare istruzioni al
ministro Castelli di annullare il boicottaggio in sede europea». Il
provvedimento europeo giace nei cassetti da svariati mesi, nonostante l'impegno
dell'ex commissario Antonio Vitorino. Un provvedimento invano evocato,
sollecitato dalle denunce contenute nei rapporti annuali dell'Osservatorio
europeo di Vienna. Per il governo italiano il problema si fa ancora più
imbarazzante: l'Italia rischia di apparire, come dichiara Lapo Pistelli della
Margherita, la «pecora nera dell'Europa», di fronte al vice presidente
della Commissione, Franco Frattini, già ministro degli Esteri, che si pronuncia
per un immediato sblocco del negoziato sulla «Decisione quadro» contro il
razzismo. Frattini, che è il responsabile del settore Giustizia, Libertà e
Sicurezza dell'esecutivo Barroso, esalta il ruolo dell'Europa in questa
battaglia e annunzia tempi celeri per l'istituzione dell'Agenzia dei diritti
fondamentali. «Si
tratta - sottolinea
- di uno strumento per difendere ma anche per promuovere i diritti
fondamentali». Il commissario censura con forza anche gli atteggiamenti che
inneggiano al fascismo e al nazismo affermando, per esempio, che il saluto
romano del giocatore della Lazio, Paolo Di Canio, è tra quelli che «dovrebbero
essere banditi nell'Unione europea». Nell'Ue sta anche prendendo corpo
l'ipotesi di interdire tutti i simboli che richiamino il nazismo o,
quantomeno, tutte le manifestazioni che inneggiano alla barbarie. La risoluzione sul 60° dell' olocausto sarà, dunque,
approvata dalla
stragrande maggioranza del Parlamento e si preoccupa di sollecitare tutti i
Paesi dell'Unione e le istituzioni a tenere alta la guardia contro i tentativi
di un ritorno dell'antisemitismo. Nella stessa risoluzione c'è un aperto
riferimento
alla vicenda della «Decisione» europea sul razzismo e la xenofobia. Il
Parlamento sostiene l'impegno della presidenza di turno Ue, retta dal
Lussemburgo, per una ripresa del confronto, bloccato da due anni, sul testo
del provvedimento. Una serie di governi ha manifestato, in passato, alcune
critiche al provvedimento ma la posizione più irremovibile, che ha condotto
alla sospensione dell'iter legislativo, è stata quella del leghista Castelli,
il quale ha sostenuto che la «Decisione» europea potrebbe essere un'arma per i
nemici politici della Lega. In un testo presentato mesi orsono al Consiglio
dei ministri Ue, il Guardasigilli Castelli chiedeva che le manifestazioni
individuate nel provvedimento come espressione di sentimenti razzisti e
xenofobi, non fossero sottoposte a sanzione se avessero costituito la «legittima
manifestazione della libertà di opinione e di espressione». Il confronto in
sede di Consiglio si è, di conseguenza, arenato proprio sullo scoglio
"delle possibili sanzioni da comminare per il reato di razzismo e
xenofobia. Sanzioni che avrebbero fatto parte del provvedimento che gli Stati,
una volta varata la
Decisione, si sarebbero impegnati a recepire nei rispettivi ordinamenti.
Bufera su Fini: non smentisce il fascista Gramazio
Il ministro tace sull’assoluzione del regime per le leggi razziali. Centrosinistra e Comunità attaccano
di
Mariagrazia Gerina
ROMA
- Una telefonata a tarda notte,
dalla comunità ebraica di Roma a Fini: «È cambiato qualcosa dal novembre
del 2003?». Seguita da una intera giornata, in cui il presidente di An,
l'autore della svolta di Fiuggi e dello "strappo" con il fascismo, ha
ritenuto di non dover correggere il suo iscritto, Domenico Gramazio, ex
parlamentare
e tutt'ora politico di An, né le parole da lui pronunciate lunedì allo Yad
Vashem: «Il fascismo non ha avuto responsabilità nello sterminio di massa
degli ebrei, gli italiani tentarono di salvare molti ebrei, il regime fascista
fece leggi razziste trascinato dall'accordo della Germania, l'Italia anche
fascista non condivise queste leggi». Dichiarazioni rilasciate ai giornalisti
dall'ex onorevole Gramazio, in Israele con una delegazione della Regione Lazio,
appena terminata la visita al memoriale israeliano delle vittime della Shoah. Lo
stesso luogo in cui Fini aveva parlato del fascismo come «male assoluto»,
di leggi razziali «volute dal fascismo», del «dovere di condannare le
pagine vergognose che ci sono nella storia del nostro passato». E il dovere di
condannare le pagine vergognose che continuano ad essere scritte ai nostri
giorni?
Su quelle, il presidente di An, specie se scritte da un membro del suo partito
alla vigilia delle celebrazioni peri dieci anni dalla svolta di Fiuggi,
preferisce tacere. «Non è necessario che Fini intervenga in questo caso»,
spiega il suo addetto stampa, Salvo Sottile: «Gramazio non ha un ruolo politico
nazionale. È sufficiente
Storace, che lo ha nominato, per replicare... Se fosse stato un deputato
avremmo avuto mano pesante». E invece, trovata la scusa, meglio
minimizzare. Salvo poi, affrontare la faccenda «responsabilità del fascismo»
come una questione di correnti e scontri interni al partito. Di cui
discutere in un faccia a faccia in Transatlantico con il suo vice, Altero
Matteoli. O di cui chiedere conto al presidente del Lazio, Francesco Storace, in
una telefonata dai toni accesi. E liquidatori: «Insomma, con
Gramazio te la devi vedere tu...». «Attendendo una presa di distanza da parte
del presidente Storace», attacca intato il candidato del centrosinistra alla
presidenza del Lazio Piero Marrazzo: «Ritengo inaccettabile che, ancora oggi,
esponenti politici esprimano giudizi del genere. Anche se, francamente,
da una certa destra questi tipo di affermazioni me le aspettavo...». Alle
16.25, il leader della Destra sociale, esegue l'ordine di Fini: «Non
sarà Gramazio a farmi cambiare idea: che l'Italia negli anni del fascismo
abbia conosciuto la vergogna delle leggi razziali e delle deportazioni è
indubitabile», dichiara Storace alle agenzie. Tutta qui la smentita affidata
dal presidente di An proprio all'organizzatore della convention antistrappo,
quando all’indomani del viaggio in Israele, il presidente del Lazio convocò
all'Hotel Hilton di Roma gli scontenti di Fini e gli ironici sul suo viaggio («con
quella kippà in testa sembrava uno di loro»). In prima fila, Domenico
Gramazio, che si riconobbe perfettamente nelle rivendicazioni di Storace.
Adesso invece si ritrova accomunato a Fini nel silenzio: nemmeno da lui nessuna
smentita di quanto dichiarato. «La faccenda però non si può chiudere così»,
replica il rabbino di Roma Riccardo Di Segni, anche lui di ritorno da Israele
con la stessa delegazione di Gramazio. «Chiederemo le dimissioni di Gramazio».
Per Carlo Leoni, deputato Ds, le tesi di Gramazio sono «l’ennesima prova del
fatto che la famosa svolta di Fiuggi non fu altro che una opportunistica
mascherata che lasciò intatta la subcultura totalitaria e nostalgica del
vecchio Msi».
Gli
ebrei italiani in Israele: «Se Fini non parla è complice»
Sconcerto
e indignazione tra i seimila appartenenti alla Comunità per le dichiarazioni di
Gramazio. Tutti chiedono al ministro degli Esteri di prendere posizione.
u.d.c.
Quel
silenzio assordante scuote Gerusalemme e provoca sconcerto e indignazione fra
i seimila ebrei italiani in Israele. Un anno fa la comunità si divise
sull’opportunità di ricevere il presidente di An, Gianfranco Fini, in
visita in Israele. Un dibattito sofferto, a tratti lacerante, che portò la
Comunità a incontrare il leader di An non nella antica Sinagoga di
Gerusalemme ma in un luogo meno solenne e impegnativo. Quel dibattito si chiuse con un sospiro di sollievo
da parte dei seimila italiani («perché - racconta il presidente della Comunità
David Cassuto - il suo strappo apparve sincero, ma alla luce di affermazioni
come quelle di Gramazio, oggi ci chiediamo se la voce di Fini è solitaria in un
partito che non ha capito nulla». Parole gravi, quelle di Cassuto, scampato ad
Auschwitz insieme alla famiglia. Domande, le sue, che restano senza risposta.
Le affermazioni dell' ex parlamentare di An riaprono nella comunità di ebrei
italiani, la maggior parte giunta in Israele tra il 1938 e il 1940 per
sfuggire al fascismo, una ferita che si stava rimarginando. E la presa di
posizione
è durissima. «Nessuno di noi - sostiene decisa Angela Polacco, la stessa guida
turistica che un anno fa accompagnò Fini, e l'altro ieri Gramazio, a Yad
Vashem, il memoriale della Shoah di Gerusalemme, il Luogo della Memoria di un
popolo che non vuole, non può dimenticare - si era illuso che
quella frangia di An, nostalgici di Salò, come Storace, Tremaglia e Gramazio,
avrebbe cambiato idea sul collaborazionismo dell'Italia nella Shoah. Quello
che mi indigna è
che Fini, che ha rivisto il percorso della storia e del suo partito, ammetta
nostalgici di Salò dentro An». A Gramazio, per il quale «l'Italia fascista
non condivise le leggi razziali», Angela Polacco replica citando storici e
ricerche di archivio. «Le dichiarazioni dei nostalgici sono smentite da
storici come De Felice e Sarfatti, che hanno documentato ampiamente il
collaborazionismo dell'Italia. E poi basta citare l'ordine di polizia numero
5, che divenne legge il 30 novembre del 1943, la cosiddetta carta di Verona,
che afferma che gli ebrei sono considerati nemici dello Stato da perseguire ed
arrestare, e che in un altro punto impone la confisca di proprietà e di beni».
«Tutto questo conclude
Angela Polacco - è
avvenuto e chi
sostiene il contrario dice il falso». Le affermazioni di Gramazio sono una
vergogna
- incalza Cassuto, che è stato vice sindaco di Gerusalemme - e sta a Fini
richiamare all'ordine queste persone. Altrimenti perde valore non quello che
l'uomo Fini ha detto, ma quello che ha detto come leader di An». Chi non si fa
illusioni è Zeev Sternhell, docente all'Università Ebraica di Gerusalemme,
studioso di fama mondiale della destra fascista in Europa: «Sul piano
culturale, nella sua parte militante, An era e resta l'erede del Movimento
sociale italiano, il partito che rivendicava la propria continuità con la
Repubblica sociale di Salò», dice a l'Unità Sternhell. A Tel Aviv
vive anche il fratello del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. «Quando
Fini venne in Israele - ricorda Samuele Di Segni, cardiologo e da 30 anni in
Israele - ci fu un lungo e tormentato dibattito interno e io sono tra quelli che
andò ad accoglierlo. Fini ha fatto un percorso, la comunità lo ha accolto,
ma affermazioni come quelle di Gramazio creano molta emozione e imbarazzo
dentro la nostra comunità».
Non
dimenticare. Mai
di Francesco
Rosi
La
tregua è lo straordinario racconto dell’odissea del ritorno alla vita di un
gruppo di esseri umani scampati all’inconcepibile disegno nazista dello
sterminio preordinato, scientifico, di ebrei, zingari, omosessuali, malati,
politici - contro, e di quanti da essi nazisti, ritenuti «diversi» dalla purezza
della razza ariana. Fui tentato
di farne un film fin dal primo apparire del libro, nel 1963, ma era forse troppo
presto. Ci ripensai ancora, questa volta più decisamente, nel 1987, quando di
Olocausto si parlava poco e nessuno faceva film sull’argomento. Telefonai a
Primo Levi, gli chiesi il libro, ne fu felice, la cosa mi riempì d’orgoglio e
di responsabilità. Mi disse testualmente che la mia proposta «gli portava un
po’ di luce in un momento molto buio della sua esistenza». Una settimana dopo
moriva nella maniera tragica che sappiamo. La morte di Levi, la difficoltà di
trovare adesioni a un tema che allora suscitava perplessità, mi obbligarono a
rimandare. Realizzai intanto due film, ma non abbandonai l’idea, spinto da una
sorta di muta parola scambiata tra me e Levi, che mi rendeva più giustificata
la mia persistenza nel progetto. Nel 1989 cadde il muro di Berlino: la speranza
di una ritrovata fraternità e gli avvenimenti che hanno poi sconvolto la ex
Jugoslavia mi fecero apparire il mio progetto ancora più attuale e utile.
Philip Roth, il grande scrittore americano, in un’intervista a Primo Levi sul
New York Times dell’ottobre del 1986 scrive: «Ciò che sorprende nella Tregua
- che avrebbe potuto, e comprensibilmente, essere stata improntata a lutto, a
una inconsolabile disperazione - è l’esuberanza, la tua riconciliazione con
la vita si compie in un mondo che a tratti pareva simile al caos primordiale.
Eppure, tu vi appari straordinariamente interessato a tutto, pronto a ricavare
da tutto divertimento e cultura, al punto che mi sono domandato se, nonostante i
ricordi, davvero tu abbia vissuto mesi migliori di quelli che definisci “una
parentesi di disponibilità illimitata, un provvidenziale ma irripetibile regalo
del destino”». Ecco, io ho voluto mantenere nel film la memoria dell’orrore
di Auschwitz assieme alla speranza e alla naturale vitalità del ritorno alla
vita. E ho voluto raccogliere il monito di Primo Levi rivolto a tutti e in
special modo ai giovani, di non dimenticare. MAI. Il mio film si chiude con
l’esortazione di Primo Levi: «Meditate che questo è stato».
Da l'Unità, 26 gennaio 2005, per gentile concessione
Noi
ricordiamo
di
Furio Colombo
Oggi,
Giorno della Memoria, i lettori dell'Unità trovano compiegate con questo
quotidiano le pagine di due giornali italiani dell'estate del 1938, ovvero
alcuni mesi prima della promulgazione delle leggi anti ebraiche e della
espulsione degli italiani ebrei da tutte le attività e la vita del Paese.
Abbiamo riprodotto la prima pagina del «Popolo d'Italia», il giornale fondato
da Mussolini, che ha questo titolo, che è anche una rivendicazione e un vanto:
«Il razzismo italiano data dall'anno 1919 ed è base fondamentale dello stato
fascista. Assoluta continuità della concezione mussoliniana» (6 agosto 1938).
Ci è sembrato importante anche riprodurre la prima pagina de «La
Stampa» (31 luglio 1938) in cui il titolo a prima pagina è «Anche nella
questione della razza noi tireremo diritto». Si
legge nel breve testo che segue intitolato «Testuali parole»: «Dire che il
fascismo ha imitato qualcuno o qualcosa
è semplicemente assurdo». In queste due pagine il regime fascista, nella sua
peggiore incarnazione di persecutore di cittadini italiani, smentisce con
decenni di anticipo coloro che penosamente sostengono, ai nostri giorni, che
il fascismo non è stato uno dei due grandi protagonisti della Shoah, insieme
alla Germania nazista. La Shoah - come si può vedere e capire in una grande
mostra aperta in questi giorni a Roma, presso il Vittoriano (e da cui abbiamo tratto
«La Stampa» e «li Popolo
d'Italia» del 1938) - non avrebbe mai potuto cominciare se leggi razziali
ossessive, totali e durissime, come
quelle approvate all'unanimità da
Camera e Senato italiani, non si fossero saldate con quelle tedesche, diventando
orrendo modello di persecuzione in tutta l'Europa occupata. Con questo numero
de «l'Unità» c'è anche il volume «Voci della memoria», una antologia di
documenti e testimonianze che potrà essere utile agli insegnanti costretti ad
affrontare da soli, senza sostegni della scuola e senza sussidi, i ricordi di
questa giornata. Le pagine così
crudelmente esplicite di due giornali fascisti, in pieno dominio del regime, e
il volume ci servono per ripetere qui, a coloro che fingono di non sapere o di
non sentire che, quando si parla di Shoah, richiamare altri crimini e orrori
esecrabili accaduti altrove nella Storia (le Foibe, i Gulag) è solo un
espediente per allontanare il discorso dal fascismo. La Shoah infatti è un
delitto italiano, un delitto che, senza la fervida collaborazione fascista,
non avrebbe potuto raggiungere un tale livello di sterminio in Europa. È
questo delitto italiano - acclamato
all'unanimità nel Parlamento e dai cosiddetti grandi statisti di allora - che
oggi si ricorda con dolore inguaribile nelle scuole e nelle istituzioni
italiane. Lo si ricorda insieme al delitto di perseguitare ed eliminare gli
avversari politici, nel periodo più buio della Storia contemporanea italiana.
Per questo, e per impedire che malattie mortali come il fascismo possano
riprodursi, anche attraverso lo stravolgimento della verità e la negazione
dei fatti, che esiste il "Giorno della Memoria", 27 gennaio, il giorno
in cui sono stati abbattuti i cancelli di Auschwitz e il mondo ha cominciato a
scoprire l'orrore della persecuzione nazista e fascista, tedesca e italiana.
“Anche
nella questione della razza noi tireremo diritto”
Testuali
parole
Stamane,
alle ore 8, il Duce è sceso dalla Rocca delle Caminate a Forlì per visitarvi
il Campo dei Graduati Avanguardisti. Erano ad attenderLo all’ingresso del
Campo il Ministro Segretario del P.N.F., il Prefetto e il Federale di Forlì, il
Comandante del Campo, altre autorità cittadine e un folto gruppo di Federali
dell’Alta Italia. Dopo essersi intrattenuto coi Federali di Trieste, Gorizia,
Udine, Modena e Bolzano, il Duce ha assistito allo sfilamento dei reparti al
passo romano di parata perfettamente eseguito. Prima di lasciare il Campo, il
Duce ha riunito attorno a Sé il gruppo dei Federali e ha detto loro queste
testuali parole:
«Sappiate
ed ognuno sappia che anche nella questione della razza noi tireremo diritto.
Dire che il Fascismo ha imitato qualcuno o qualcosa è semplicemente assurdo».
Il
Duce si è quindi recato al vicino Campo di aviazione e, pilotando il Suo
trimotore, ha sorvolato il litorale adriatico.
Il
razzismo italiano data dall’anno 1919 ed è base fondamentale dello Stato
fascista
Una
nota della “Informazione Diplomatica”
Azione
coordinata e risoluta di tutti gli organi del Regime
Roma, 5 agosto
L’«Informazione
Diplomatica», nella sua nota odierna n. 18, pubblica quanto segue:
Negli
ambienti responsabili romani si fa notare che molte delle impressioni e
deduzioni estere sul razzismo italiano sono dettate da una superficiale
cognizione dei fatti e in qualche caso da evidente malafede. In realtà il
razzismo italiano data dal 1919, come potrebbe essere documentato. Mussolini nel
discorso al Congresso del Partito tenutosi a Roma nel novembre del 1921 –
ripetiamo 1921 – dichiarò esplicitamente: «Intendo dire che il Fascismo si
preoccupi del problema della razza: i fascisti devono preoccuparsi della salute
della razza, con la quale si fa la storia». Se il problema rimase per alcuni
anni allo stato latente, ciò accadde perché altri problemi urgevano e dovevano
essere risolti. Ma la conquista dell’Impero ha posto in primissimo piano i
problemi chiamati complessivamente razziali, la cui conoscenza ha avuto
drammatiche, sanguinose ripercussioni, sulle quali non è – oggi – il
momento di scendere in particolari. Altri popoli mandano nelle terre dei loro
Imperi pochi e sceltissimi funzionari; noi manderemo in Libia e in Africa
Orientale Italiana – coll’andare del tempo e per assolute necessità di vita
– milioni di uomini. Ora, a evitare la catastrofica piaga del meticciato, la
creazione cioè di una razza bastarda, né europea né africana, che fomenterà
la disintegrazione e la rivolte, non bastano le leggi severe promulgate e
applicate dal Fascismo; occorre anche un forte sentimento, un forte orgoglio,
una chiara onnipresente coscienza di razza. Discriminare non significa
perseguitare: questo va detto ai troppi Ebrei d’Italia e di altri Paesi, i
quali Ebrei lanciano al cielo inutili lamentazioni, passando con la nota rapidità
dall’invadenza e dalla superbia all’abbattimento e al panico insensato. Come
fu detto chiaramente nella nota n. 14 dell’«Informazione Diplomatica» e come
si ripete oggi, il Governo fascista non ha alcun speciale piano persecutorio
contro gli Ebrei in quanto tali. Si tratta di altro. Gli Ebrei in Italia, nel
territorio metropolitano sono 44 mila
secondo i dati statistici ebraici, che dovranno però essere controllati da un
prossimo speciale censimento. La proporzione sarebbe quindi di un Ebreo su mille
Italiani. È chiaro che, d’ora innanzi, la partecipazione degli Ebrei alla
vita globale dello Stato dovrà essere adeguata a tale rapporto. Nessuno vorrà
contestare allo Stato fascista questo diritto, e meno di tutti gli Ebrei, i
quali – come risulta in modo solenne anche dal recente manifesto dei rabbini
d’Italia – sono stati sempre e ovunque gli apostoli del più integrale,
intransigente, feroce e, sotto un certo punto di vista ammirevole, razzismo; si
sono sempre ritenuti appartenenti a un altro sangue, a un’altra razza, e si
sono autoproclamati «popolo
eletto» e hanno sempre fornito prove della loro solidarietà razziale, al
disopra di ogni frontiera. E qui non vogliamo parlare dell’equazione,
storicamente accertata in questi ultimi venti anni di vita europea, fra
ebraismo, bolscevismo e massoneria. Nessun dubbio quindi che il clima è maturo
per il razzismo italiano, e meno ancora si può dubitare che esso no diventi –
attraverso l’azione coordinata e risoluta di tutti gli organi del Regime –
patrimonio spirituale del nostro popolo, base fondamentale del nostro Stato,
elemento di sicurezza per il nostro Impero.
Documento
definitivo
L’odierna
nota dell’Informazione Diplomatica ha il valore di un documento
fondamentale e definitivo alle precisazioni del razzismo italiano. Anzitutto
l’opportuno richiamo alle dichiarazioni di Mussolini nel congresso del Partito
tenutosi a Roma nel 1919 conferma l’assoluta originalità del pensiero
fascista sul problema della razza. Nessuna imitazione quindi e nessuna
improvvisazione. Alle dichiarazioni del 1921 altre seguirono negli anni
successivi dello stesso Mussolini sull’argomento; e con le dichiarazioni vi
furono previdenze concrete, che rivelano in sedici anni di Regime il proposito
costante e fermissimo di difendere e potenziare le virtù essenziali della razza
italiana. Si può dunque affermare che, anche in questo campo, l’azione
fascista ha preceduto la formulazione dottrinale sulla quale più decisamente
oggi punta il Regime coll’intento di «tirare
diritto» anche in questa questione. Se oggi il problema viene posto in primo
pian o e agitato davanti alla coscienza degli Italiani è perché un fatto nuovo
si è verificato nella storia della Nazione: la creazione dell’Impero,
avvenimento di portata grandiosa, per il quale l’Italia, non con una minoranza
di funzionari, ma con masse imponenti del suo popolo lavoratore, viene a diretto
contatto con altre razze. Misure energiche sono state adottate tempestivamente
per evitare che questi contatti portino alla «catastrofica piaga del meticciato».
Ma le misure non bastano se non sono assecondate nella coscienza del popolo da
un chiaro e fermo orgoglio di razza. D’altra parte la prima consegna che ci
viene dall’alto subito dopo il glorioso epilogo della campagna etiopica fu: «agire
sul piano dell’Impero» e «creare una coscienza imperiale». Una siffatta
coscienza si forma soltanto se si ha un consapevole orgoglio della propria
razza. La storia dimostra che gli imperialisti furono anzitutto degli
implacabili razzisti perché l’imperialismo è espansione spirituale più che
politica e mercantile, cioè affermazione di una civiltà su un’altra o fra le
due. Per quanto riguarda gli Ebrei, esclusa ogni intenzione persecutoria da
parte del Fascismo, resta e si afferma un elementare problema di proporzione.
Essi sono – secondo i dati statistici da loro stessi forniti – 44.000, cifra
che l’annunziato censimento potrà modificare, ma non mai elevare a tal segno
da alterare sostanzialmente il rapporto coi 44 milioni di cittadini di razza
italiana. Gli Ebrei residenti in Italia dovranno pertanto adattarsi a una
partecipazione materiale e spirituale alla vita del Paese che non ecceda in
nessun caso quel rapporto. Minoranza esigua, essi dovranno restare minoranza in
tutti i campi dell’attività nazionale e non mai soverchiare numericamente i
cittadini di razza italiana. L’uno per mille nella statistica della
popolazione dovrà restare l’uno per mille ovunque gli Italiani esercitino una
qualsiasi attività. Così impostato il problema è immune, come si vede, da
qualsiasi influenza esterna. Siamo testualmente all’impostazione delineata in
una precedente nota dell’Informazione Diplomatica, sintesi a sua volta di un
pensiero – quello mussoliniano – che, in questa come in ogni altra materia,
è di una coerenza lineare mai smentita. L’assenza di qualsiasi influenza
straniera nelle direttive razzistiche del regime è, del resto, palese – come
dicevamo – non soltanto nella parte che riguarda gli Ebrei. Anche per gli
altri problemi connessi alla valorizzazione e alla difesa della razza italiana
la parola di Mussolini si è levata alta e forte sin dal lontano 1917 e solo gli
immemori per quieto vivere hanno potuto fingere di essere stati colti di
sorpresa dalle recenti dichiarazioni. È la conquista dell’Impero che ha
imposto di accelerare i tempi. Sino alla vigilia della partenza delle nostre
truppe per l’A.O. l’affermazione di un’unità etnica oltreché spirituale
del popolo italiano poteva bastare; ma dal momento in cui le truppe e i coloni
italiani venivano a contatto con altri elementi razziali occorreva una difesa più
concreta che, basandosi su quella incontrovertibile realtà proclamata,
preservasse la razza italiana da contatti che avrebbero dato luogo a mescolanze
di sangue che nessuno oserebbe in buona fede auspicare ai fini della civiltà.
È dunque da sud e non da nord che è venuto il richiamo a un’intensificazione
della politica fascista della razza, inconfondibile nei suoi tratti
caratteristici come nelle sue ragioni determinanti.
La
raccolta degli scritti e dei discorsi del Duce costituisce una documentazione
precisa del pensiero mussoliniano a riguardo del problema della razza. Per
rendersene conto basta anche una rapida e breve citazione di passi. Lo facciamo
mantenendo l’ordine cronologico perché ne risulti con maggior evidenza la
continuità della concezione mussoliniana.
La
prima affermazione di orgoglio di razza il Duce la fa sin dal 1917, in un’ora
grave per il Paese impegnato nella guerra. Egli dice:
… il dolore ci percuote, ma non ci abbatte. Ci forgia. Qui si rivela la nobiltà della nostra stirpe. Tutta l’Italia oggi è un cuore solo. Tutto si riduce alla nostra qualità fondamentale e gloriosa di Italiani.
Nel
1921 Mussolini precisa il suo pensiero sui valori della stirpe ariana, quando
parlando della genesi del Fascismo dice tra l’altro:
… è nata da un profondo, perenne bisogno di questa nostra stirpe ariana e mediterranea, che a un dato momento si è sentita minacciata nelle ragioni essenziali dell’esistenza da una tragica follia e da una favola mitica che oggi crolla a pezzi nel luogo stesso ove è nata.
E
nel 1922, nella ricorrenza del 21 aprile:
…
celebrare
il Natale di Roma significa celebrare il nostro tipo di civiltà, significa
esaltare la nostra storia e la nostra razza, significa poggiare fermamente sul
passato per meglio slanciarsi verso l’avvenire.
L’anno
seguente Mussolini ribadisce il concetto dell’orgoglio di razza quando
riguarda:
Noi eravamo grandi nel 1300, quando gli altri popoli erano mal vivi o non erano ancora nati alla storia. Seguono i secoli superbi: il Rinascimento. L’Italia dice ancora una volta la parola della civiltà a tutte le razze, a tutti i popoli.
E
questo orgoglio riafferma solennemente nel 1924, parlando al popolo di Catania:
Nel
1926, il Duce rivolge al popolo italiano un severo monito perché la razza non
venga a perdere la sua purezza. Egli dice:
Sono
le classi più alte della società, le prime a infrancesarsi, inglesizzarsi, a
americanizzarsi, a prendere i costumi degli altri popoli, spesso la psicologia,
molto spesso i difetti. Le classi umili, quelle che sono radicate alla terra,
quelle che sono sufficientemente barbare per non apprezzare tutti i vantaggi del
cosiddetto comfort moderno, sono quelle che restano attaccate disperatamente
alla loro patria di origine.
Un
anno dopo egli così afferma il dovere dello Stato a provvedere all’educazione
fisica del popolo:
Qualcuno
in altri tempi ha affermato che lo Stato non doveva preoccuparsi della salute
fisica del popolo. Anche qui doveva valere il manchesteriano «lasciar
fare, lasciar correre». Questa è una teoria suicida. È evidente che in uno
Stato bene ordinato la cura della salute fisica del popolo deve essere al primo
posto.
Ancor
più nettamente il Duce esprime il suo pensiero nel 1934:
L’Italia
ha il privilegio di essere la Nazione più nettamente individuata dal punto di
vista geografico: la più compattamente omogenea dal punto di vista etnico,
linguistico, morale …La potenza militare dello Stato, l’avvenire e la
sicurezza della Nazione sono legati al problema demografico, assillante in tutti
i Paesi di razza bianca e anche nel nostro. Bisogna riaffermare ancora una volta
e nella maniera più perentoria, e non sarà l’ultima, che condizione
insostituibile del primato è il numero.
E
ancora nello stesso anno, parlando in occasione dell’apertura di via dei
Trionfi:
…
voi atleti avete avuto il meritato onore di inaugurato una delle più belle
strade di Roma e quindi del mondo. Chi vi ha visti sfilare ha avuto la profonda
e quasi plastica impressione della nuova razza che il Fascismo sta virilmente
foggiando e temprando per ogni competizione.
Nel
1935, parlando brevemente ai bonificatori, Mussolini dice:
…
siete voi che rappresentate la razza, nel suo significato più profondo e
immutabile. Voi non fate i matrimoni misti: i vostri amori non escono dalla
cerchia del villaggio o, tutt’al più, dalla provincia. E quindi, quando
arrivano le grandi crisi dei popoli, voi non avete dei problemi familiari da
risolvere. È anche per questo, non soltanto per questo, che io vi addito alla
profonda gratitudine di tutta la Nazione.
L’anno
seguente (1936) Mussolini torna a riaffermare, col principio della razza
italiana, la sua inscindibilità dalla terra. Rivolto ai rurali d’Italia dice:
Questo
saluto va a tutti i rurali italiani, a tutti i contadini d’Italia, a tutti
coloro che lavorano la terra, e che per questo fatto mi sono particolarmente
vicini. Poiché la terra e la razza sono inscindibili e attraverso la terra si
fa la storia della razza e la razza domina e sviluppa e feconda la terra.
Il
problema della razza appare ora, con la conquista dell’Impero, sempre più
attuale e inderogabile. Dice Mussolini:
Hanno
diritto all’Impero i popoli fecondi, quelli che hanno l’orgoglio e la volontà
di propagare la loro razza sulla faccia della terra, i popoli virili nel senso
più strettamente letterale della parola.
E
al concetto della razza il Duce accomuna la missione civilizzatrice di Roma. Sin
dal 1922 egli afferma:
…
Roma è sempre, e domani e nei millenni, il cuore potente della nostra razza. È
il simbolo imperituro della nostra vitalità di popolo.
AUSCHWITZ
IL NOSTRO ORRORE
Auschwitz,
nei campi anche per gli smemorati – Mezzo milione di persone viene qui ogni
anno perché non vuole dimenticare
di
Gianni Marsilli
AUSCHWITZ «...E poi, ogni tanto, arriva qui "some very special people", gente Un po' particolare». Esita un momento, la nostra guida. Come se non volesse aprire un capitolo imbarazzante, delicato. Ma continua: «Sono quelli che non ci credono. Non credono che lo sterminio ci sia stato». Negazionista, insomma. Ma non intellettuali, non topi di biblioteca con l'ossessione di riscrivere la storia. No, visitatori normali. Lucas, la guida, si ricorda di un autista di bus londinese, di un commerciante svizzero. Gente così, all'inizio chiacchierona e con l'aria di saperla lunga: «No, spesso non direi, ma un paio di volte l'anno mi capita qualcuno del genere. Cosa dicono? Mah, direi che si dividono in due categorie. Quelli che pensano che tutto ciò sia stato messo in piedi per fame un richiamo turistico, una specie di Disneyland della seconda guerra. Non credono a nulla, per loro tutto ciò è artificiale, falso. Altri invece ammettono che ci sia stato un campo di prigionia, magari anche duro, ma che si sia esagerato nella ricostruzione della storia. I forni crematori? Una necessità pratica, quasi una misura d'igiene. Ci si capisce al volo, quando arrivano. Due battute, una frase e da quel momento non si comunica più. Si mescolano agli altri con lo sguardo scettico, le mani dietro la schiena. Ascoltano silenziosamente irridenti». Siamo ad Auschwitz l, tra l'edificio in mattoni rossi numero 10 e quello numero 11. In mezzo, il muro dei fucilati. Almeno fino al '42, quando i nazisti decisero che lo Zyklon B costava meno delle pallottole. In attesa del gas provvidenziale, si è calcolato che circa 20mila persone siano state giustiziate in questa specie di cortile, dove si affaccia quella che era «la prigione» nella prigione chiamata Auschwitz, la baracca 11: soprattutto prigionieri russi, resistenti polacchi. Per gli ebrei non c'era bisogno di processo. Nello stanzone all'ingresso a sinistra sedeva la corte, con tanto di giudice (Lucas assicura che vive ancora, che ha 98 anni, che era un fine giurista già negli anni ’30, che chiama Himmler, che non è mai stato disturbato) che sparava sentenze a raffica. A fianco gli spogliatoi dei condannati, rimasti intatti, e la porticina dalla quale si accedeva al cortile, due passi e si era faccia al muro, pratico e rapido. Sotto, le celle per torturare, i gabbiotti per punire: in piedi per giorni, senz'aria né cibo né acqua. A due passi, la baracca che ospitava il dottor Carl Clauberg, ginecologo. Sperimentava metodi di sterilizzazione femminile. Aveva anche uno studio a una 50 km da qui, nella zona c'è ancora chi se lo ricorda. Ad Auschwitz operava con il dottor Mengele, al quale qualche centinaio di bambini deve la vita: erano gemelli, e Mengele li voleva per le sue alchimie di laboratorio. Tanto peggio per gli altri 200mila, passati per il camino. Oggi ad Auschwitz nevica, i passi dei pochi visitatori non si sentono, il campo si stacca netto in tutti i suoi dettagli dal biancore silente nel quale è immerso. Non occorre chiudere gli occhi per immaginare. Non credono, quei pochi che Lucas individua subito, neanche davanti alle due tonnellate di capelli ancora lì, esposti in una vetrina che corre per trenta interminabili metri, e neanche davanti ai tappeti lunghi e stretti che i tedeschi ne ricavavano. Lavabili e resistenti, pare. Non credono neanche davanti alla montagna di scarponi - aperte eleganti col tacco, sandali, scarpine per bambini. Non credono neanche davanti al cumulo di valigie con le quali in tanti erano venuti, quasi tutti ebrei, convinti della provvisorietà di quel viaggio. Duemila e passa chilometri per arrivare ad Auschwitz, scendere sulla rampa ormai famosa, passare la selezione e, se scartati dall'abilità al lavoro, andare dritti nelle docce dove invece dell'acqua veniva fuori lo Zyklon B e poi da lì nel forno crematorio. Come Hana Klaubauf, il cui nome qualcuno aveva scritto sulla valigia assieme alla data di nascita: 13 dicembre 1941. Non credono neanche davanti ai contenitori di Zyklon B: cinque marchi l'uno costavano, era un gas a poco prezzo. Tanto che negli angoli delle docce, lì dove ne arrivava solo qualche frammento, c'era un sacco gente che non moriva subito. Non credono. E chissà, magari hanno un fremito di disappunto ,davanti al patibolo di Rudoloh Hoess, il comandante del campo, che qui fu impiccato il 7 aprile del ’47 dopo essere stato processato a Varsavia da un tribunale polacco (non a Norimberga da una corte internazionale, quindi come se i suoi crimini fossero stati consumati solo contro il popolo polacco) magari vorrebbero fare come quelle mani ignote che per anni qui deposero dei fiori in sua memoria, tutto attorno alla corda alla quale finì appeso. Hoess viveva con la famiglia in una bella casa un po’ più in là, dietro il filo spinato elettrificato. A fianco del patibolo, il primo edificio che fu adibito alla gasificazione collettiva: ci stavano fino a settecento, nudi in quella stanza con quattro aperture nel soffitto per infilarci il gas. Poi finivano subito nei forni attinenti, che però ne cremavano non più di trecento al giorno. Per questo, dopo Wansee, fu necessario costruirne di più larghi e potenti, a tre chilometri da lì: Auschwitz Birkenau. Cielo di piombo, neve a perdita d’occhio. L’occhio si perde guardando Auschwitz Birkenau. Si perde il senso del tempo, perché quei binari che portano laggiù verso quel filare di pioppi sono gli stessi che hai visto in tante fotografie. Si perde l’ultimo senso del decoro, davanti a tutti quei buglioli uno accanto all’altro nella baracca di legno, una delle mille, dove si aveva accesso due volte al giorno per i bisogni anche di duemila persone, e ti viene in mente l'estate di questa pianura schiacciata dal sole, la merda, le mosche, i tafani, e infatti ne morirono a decine di migliaia di tifo e dissenteria. Si perde il senso di ogni ragione, nell'efferata scientificità del tutto. Lucas, che è una guida eccellente - la giusta rispettosa distanza dal dolore di tanti, la giusta conoscenza tecnica, i giusti silenzi - spiega senza dovizia di particolari ma individuando i nodi strategici. Auschwitz che comincia come campo per prigionieri russi, che s'ingrandisce fino a 40 chilometri quadrati, che può isolarsi facilmente essendo in un triangolo tra due fiumi, che è un punto di convergenza per portarci gli ebrei da tutta Europa, stessa distanza da Oslo e da Salonicco, da Varsavia e da Vienna, che diventa il luogo scelto per compiere l'inimmaginabile: eliminare dalla faccia della terra gli ebrei e i gitani, gli unici qui uccisi in quanto tali, per pura scelta razzista. Ma quelli, quei pochi che capitano ogni tanto, non ci credono. E altri - più numerosi e rappresentativi: all'Onu, in Gran Bretagna, anche in Italia - ne rifiutano l'unicità storica, il martirio programmato. E altri ancora, come Domenico Gramazio, assolvono i complici politici di Himmler e Eichmann. Circa mezzo milione di persone all'anno viene in visita ad Auschwitz. I più numerosi sono i polacchi: fu qui che si compì il sacrificio di Maximilian Kolbe. Poi i tedeschi, gli americani, gli israeliani, i francesi. Le guide, quando arrivano gli ex deportati, avvertono di quel che si va a vedere. Non sono rare le crisi di pianto, i mancamenti davanti alle valige con i nomi stampati sopra, o alla distesa di capelli, o alla piazzetta dove avvenivano le esecuzioni «esemplari». Non solo tra i vecchi sopravvissuti, sono sopraffatti anche i più giovani, e capita che sia un'anziana con il numero tatuato a confortare una studentessa. C'è chi sostiene che l'idea di fare di Auschwitz un museo a imperitura memoria fu degli stessi deportati, già quand'erano dentro l'inferno. Fu dapprima il luogo della martirologìa polacca «e degli altri popoli», come stabilì la Dieta il 21uglio del 1947. Poi divenne un simbolo più internazionale e «antifascista» nel corso degli anni '50. Nell'aprile del '67 s'inaugura il monumento e per un'ora parla Josef Cyrankiewitz, ex deportato ed ex primo ministro polacco, senza mai nominare gli ebrei, implicitamente reclutati tra le vittime polacche: anche i 400mila ungheresi, gli olandesi, i tedeschi, gli italiani, i cechi e gli slovacchi, i belgi, i francesi, i greci, norvegesi. Si era alla vigilia della campagna antisemita del '68, seguita alla Guerra dei Sei Giorni. E ancora negli anni '80 dopo la memoria costruita dal regime comunista - si affrontarono la memoria cattolica polacca e quella mondiale ebraica: dall'84 un gruppo di carmelitane rompeva il silenzio dei luoghi con la loro preghiera, che agli occhi degli ebrei assumeva i tratti di una «cristianizzazione della Shoah». La memoria di Auschwitz si stava dolorosamente precisando. Oggi, 27 gennaio 2005, parleranno solo tre tra i cinquanta capi di Stato di governo qui convenuti: nell'ordine, il presidente polacco Kwasniewski, quello russo Putin, quello israeliano Moshe Katsav. Fu per i resistenti polacchi che Auschwitz fu costruito, fu per sterminare gli ebrei che venne prescelto, fu dai russi che fu liberato. La battaglia della memoria, almeno per un momento, pare sopita.
Berlusconi
parla dell’Olocausto e si dimentica di nazismo e fascismo
Giorno
della memoria, confusione a destra. Fini corre ai ripari dopo le frasi di
Gramazio: «Le leggi razziali? Si
vergogni chi minimizza»
Mariagrazia Gerina
ROMA
«Nazismo», «fascismo»,
sono parole che Berlusconi non ama pronunciare nemmeno alla vigilia della
giornata della memoria. Nella dichiarazione rilasciata prima della partenza
per la solenne cerimonia che oggi si terrà ad Auschwitz per celebrare la
liberazione, il 27 gennaio 1945, del più grande campo di concentramento
nazista,
dove furono deportati anche una parte dei 6.806 ebrei italiani discriminati,
perseguitati, arrestati dai fascisti, Berlusconi «orgoglioso di
rappresentare l'Italia ad Auschwitz», consegna alle agenzie la sua memoria
"depurata". Lo sterminio nazista, compiuto - per
quanto riguarda l'Italia con la collaborazione attiva del fascismo, lo
definisce «piano di sterminio elaborato scientificamente dall'uomo contro altri
uomini», la liberazione ad opera dell'Armata Rossa diventa «l'apertura dei
cancelli...; per il resto abbonda il ricorso alle forme impersonali. «È per
me motivo di grande orgoglio rappresentare domani l'Italia ad Auschwitz e
rendere onore a tutti coloro che vi hanno perso la vita e a tutti coloro che
hanno conosciuto l'orrore e hanno avuto la fortuna e la forza per raccontarlo»,
recita il suo memoriale: «Quest'anno il 27 gennaio, giorno della memoria,
viene celebrato con particolare solennità a livello internazionale. Il governo
polacco vuole infatti ricordare a
tutto il mondo libero il 60° anniversario della apertura dei cancelli di
Auschwitz commemorando, proprio ad Auschwitz, la fine del più efferato piano di
sterminio elaborato scientificamente dall’uomo contro altri uomini». Segue
vanto ingiustificato per quanto fatto dal governo Berlusconi per ricordare la
Shoah e contrastare l'antisemitismo. E mentre il premier, che proprio in
queste ore in vista delle elezioni sta cercando di stringere i rapporti con
Alessandra Mussolini e i nostalgici del fascismo, si prepara così alla sua
prima visita ad Auschwitz, il vicepresidente Gianfranco Fini cerca di salvare il risultato
raggiunto nel suo primo viaggio in Israele, nel 2003, dalla bufera sollevata
dai nostalgici interni ad An. Diversamente da Berlusconi, Fini
ha definito, proprio durante la
visita al memoriale della Shoah di Gerusalemme, il «fascismo, male assoluto».
Quello su cui preferisce tacere sono i mugugni dei suoi, le dichiarazioni che
ricuciono lo "strappo". L'ultima quella dell'ex deputato di An,
Domenico Gramazio, ora presidente dell' Agenzia sanitaria regionale, nominato
da Storace e sempre iscritto al partito di Fini:
«Il fascismo non ha avuto responsabilità nello sterminio di massa degli
ebrei», ha detto Gramazio, lunedì scorso, recandosi
in visita, come Fini nel 2003, allo
Yad Vashem, durante la missione
in Israele di una delegazione della Regione Lazio. Indignazione della comunità
ebraica, condanne da ogni parte, seguite da numerose richieste di dimissioni
di Gramazio dal ruolo assegnatogli da Storace (oggi il centrosinistra le ha
chieste in una mozione a prima firma Alessio D'Amato - Pdci - che dovrà essere
votata dal consiglio regionale). No comment di Fini, nonostante la telefonata
ricevuta a tarda notte dalla comunità ebraica di Roma. «Non spetta a lui
occuparsi di Gramazio», spiega il suo addetto stampa. (E se non a lui a chi?).
Il presidente di An ha rimbalzato la palla a Storace, che, dopo una
"obbligata" presa di distanza («non sarà Gramazio a farmi cambiare
idea sulle leggi razziali»), adesso vorrebbe archiviare il caso senza più
fastidi. Alla richiesta di dimissioni obbligate per Gramazio, ieri, ha risposto, anche lui, con un
no comment. Una battuta per rilanciare il messaggio dello "strappo",
però, Fini, dopo due giorni di imbarazzato silenzio, la concede in prima serata
al Tg2. È il direttore Mauro Mazza (quota An) a intervistarlo. Gli
chiede,
al termine di un'intervista per celebrare la svolta di Fiuggi, cosa
rappresenti l'Olocausto per la destra. «Lo dico con dolore sia pure in
ristrettissima schiera, c'è ancora qualcuno in Italia che, per ignoranza o
malafede, tende a minimizzare, dicendo che le leggi del '39 non ebbero, come
al contrario
è stato, un ruolo importante, tragico
per la persecuzione e poi lo sterminio degli ebrei», risponde Fini. Intende
Gramazio? E cosa intende fare a riguardo? Purtroppo, l'intervistatore non
glielo domanda. «Non ho motivo di pensare che Fini non abbia cambiato idea»,
commenta il presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche d'Italia, Amos
Luzzatto, che nel novembre del 2003 accompagnò Fini a Gerusalemme, «diverso
è parlare dei membri del suo
partito, giudicare se Fini sia in grado
di garantire per loro»: «lI caso
Gramazio dimostra che esistono
ancora persone che credono di
poter conciliare atteggiamenti di avvocati difensori del fascismo con la
militanza in un partito che per bocca del suo massimo dirigente ha condannato
il fascismo come male assoluto e la persecuzione degli ebrei. La compatibilità
di queste persone con tale partito non la devo giudicare io, ma è molto
opinabile». «La vicenda Gramazio», sintetizza il rabbino Riccardo Di Segni,
«non è ancora chiusa».
Bush assente dalla cerimonia nel lager
Chirac ai docenti: tramandate la memoria
ROMA
- Il sessantesimo anniversario
della liberazione di Auschwitz-Birkenau verrà ricordato con
una cerimonia sul luogo in cui si trova l'ex campo di sterminio nazista. Vi
prenderanno parte 50 capi di Stato e di governo, rappresentanti delle
associazioni di ex deportati, delle comunità
ebraiche e degli ex soldati russi, che furono i primi il 27 gennaio 1945 ad entrare
nel
lager e liberare i prigionieri scampati alla morte. Assente invece Bush, che al
suo posto ha deciso di inviare il suo vice Cheney. L'assenza del presidente
americano ha già sollevato critiche. Il presidente Usa ha fatto sapere che
«non sarà in Polonia», visto che «è stato lì proprio l'anno scorso».
Hanno assicurato invece la loro presenza ad Auschwitz il presidente russo
Vladimir Putin, il presidente israeliano Moshe Katzav, il presidente francese
Jacques Chirac, il presidente tedesco Horst Koehler. Per l’Italia parteciperà
il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e tra gli altri premier europei
quello belga Guy Verhofstadt. L'Unione europea sarà rappresentata dal
presidente della Commissione Josè Manuel Barroso e dal presidente del
Parlamento Joseph Borrell. La Santa Sede invierà il cardinale Jean-Marie
Lustiger, arcivescovo di Parigi. In preparazione dell'appuntamento di oggi si
sono svolte iniziative in tutta Europa. Chirac, inaugurando l'altro ieri a
Parigi il Memoriale dell'Olocausto oltre a ribadire che «l'antisemitismo non
ha posto in Francia», ha chiesto «a tutti gli insegnanti della Francia», un
impegno particolare, affinché «gli studenti capiscano e non dimentichino
mai»: l'appello è stato ripreso in prima pagina da «Le Monde».
San
Sabba: una lapide per lo sterminio dei gay - An:
«Quale sterminio?»
TRIESTE
- Una targa commemorativa
dedicata alle vittime omosessuali del nazifascismo è stata scoperta ieri sera
a Trieste all'interno del Monumento nazionale della Risiera di San Sabba
(unico campo di sterminio nazista in Italia provvisto di forno crematorio) alla
presenza del presidente nazionale di ArciGay Sergio Lo Giudice e di Francesca
Polo della segreteria nazionale di Arcilesbica. «Con questa lapide - ha detto
il presidente del Circolo Arcobaleno di Trieste, Marco Reglia - le persecuzioni
del nazifascismo contro gli omosessuali entrano ufficialmente nella storia del
ventesimo secolo». La cerimonia non è andata giù al deputato di An Menia -
quello che nel 2003 disse
«Siamo arrivati al punto che per essere politicamente corretti bisogna essere
culi per forza» - : «È una speculazione fuori posto, perché alla Risiera
non è stato ucciso nessuno in quanto omosessuale». Contro la deposizione
della targa alla Risiera si è espresso Enrico Oliari, presidente di GayLib (gay
liberali e di centrodestra): «Non vi furono vittime gay del fascismo, né
condannate alla deportazione nei lager nazisti, né sterminate dalle camicie
nere».
Del
Bambino rimase solo un cane di pezza
Mamma
e figlio portati nel lager: la storia di una tragedia tenuta segreta in famiglia
nel romanzo di Philippe Grimbert
È
oggi in libreria «Un segreto» di Philippe Grimbert (Bompiani, pagine 156, euro
13), storia vera di un bambino che scopre, già grandicello, di aver avuto un
fratello, morto insieme a sua madre, in un campo di concentramento. Del libro,
anticipiamo, per gentile concessione dell'editore, un brano.
Philippe
Grimbert
Esther
e Louise sono sedute a un tavolino, accanto al bar. Hannah e Simon si trovano un
po' più lontano, vicino alla finestra. La sala è vuota, sono gli unici clienti
del caffè, si ode il tic tac di un grosso orologio da muro, il padrone pulisce
il banco chiacchierando con il passatore. Tutto sembra così calmo,
un'anticipazione della libertà che li attende a pochi chilometri di distanza.
L'uomo ha consigliato loro di stare separati per non attirare l'attenzione. Dopo
averne sistemato i bagagli fuori, in una rimessa, è andato a prendere qualcosa
da bere per ristorarli. Conosce gli orari dei turni di guardia, sa quando
l'attenzione delle sentinelle si allenterà. Ha detto che bisognerebbe fare in
fretta, recuperare le borse e correre nell'oscurità di un sentiero di cui
conosce ogni pietra. Avvertito che si sarebbe incamminato di notte in mezzo alla
campagna, Simon si stringe al petto il cagnolino e beve la limonata che l'uomo
gli ha servita. Hannah non porta alle labbra la sua tazza, fissa il cielo
stellato fuori della finestra. Ogni tanto, come assente, accarezza i capelli del
figlio. Esther e Louise la guardano da lontano, con ansia. Simon chiede di
andare al gabinetto, gli indicano la strada; Hannah vuole alzarsi per
accompagnarlo, ma con un gesto il bambino le fa capire che è abbastanza grande
per cavarsela da solo. Passando, affida il cane a Louise che sorride guardando
l'ometto autoritario e incantatore che va verso il fondo della sala.
All'improvviso si odono stridere i freni di un'automobile. Dei passi echeggiano
nella notte e la porta del locale si apre davanti a tre ufficiali in uniforme.
Louise e Esther si sentono sbiancare, istintivamente Louise nasconde il
cagnolino sotto il tavolo, poi si porta la mano al petto per assicurarsi che non
vi sia rimasto appeso alcun filo della stella scucita. Hannah non reagisce
all'entrata degli uomini. La schiena del passatore si contrae. Appoggiato con i
gomiti al bar, si porta il bicchiere alle labbra fissando le file di bottiglie.
Due degli uomini restano di sentinella accanto alla porta, il terzo si dirige
verso Louise ed Esther e chiede loro i documenti. Le due donne, dominando il
tremito delle mani, estraggono dalla borsa le carte d'identità. Nel momento in
cui Louise si alza, la grossa suola della sua scarpa ortopedica urta il piede
della sedia. L'uomo dice qualcosa in tedesco ai due colleghi che gli rispondono
ridendo. Il padrone del caffè azzarda una battuta, il passatore si sforza di
sorridere. L'ufficiale non reagisce e fissa negli occhi le due donne dopo averne
osservato le fotografie. Restituisce loro i documenti, controlla quelli del
passatore e poi si dirige verso Hannah che non ha distolto lo sguardo dalla
finestra. Una volta accanto a lei, tende una mano autoritaria e la giovane donna
lo guarda negli occhi. Louise e Esthler trattengono il fiato, vedono che fruga
nella borsetta, osserva i suoi documenti li posa in evidenza sul tavolino prima
di estrarne altri che porge all'uomo, senza smettere di fissarlo. Sconcertato,
l'ufficiale alza le sopracciglia. Appena data un'occhiata al documento, abbaia
un ordine. Esther e Louise, paralizzate, capiscono che cos'è successo. In quel
momento si ode un trotterellare sul parquet della sala, Simon è uscito dal
gabinetto e si precipita verso la madre. Louise vorrebbe fargli cenno di tacere,
di dirigersi verso di lei, ma è troppo tardi. L'uomo interroga Hannah con lo
sguardo. Senza esitare, con voce calma, lei risponde: «È mio figlio». Hannah
e Simon lasciano il caffè, scortati dai tre uomini. Tutto è avvenuto in pochi
secondi. Hannah è già lontana con lo sguardo perso nel vuoto. Simon segue la
madre e passa accanto al tavolino delle due donne senza rivolgere loro la
parola. Allora Louise si alza, ma una mano ferma posata sulla sua spalla la
costringe e rimettersi a sedere: quella del passatore, che la fulmina con lo
sguardo. Gli ufficiali non hanno visto nulla, la porta si richiude sulla notte
nera, si ode l'auto che si avvia e cala di nuovo il silenzio. Esther e Louise
crollano, ma il passatore non lascia loro il tempo di riflettere, è pallido,
con la fronte madida: ora o mai più. Bisogna andarsene, raccogliere i bagagli
nella rimessa e prendere il sentiero che conduce verso la libertà; le due donne
porteranno anche le borse della madre e del bambino. Alzandosi, Louise urta un
oggetto sotto il tavolino: il cane di Simon. Il ragazzino se n'è andato senza
il suo compagno, restituirglielo le avrebbe condannate, a ogni modo non ci ha
neppure pensato. Se lo preme contro il viso, bagnandolo di lacrime. L'uomo le
spinge, le fa uscire in fretta. Esther ha un aspetto spaventoso, il tratto di
matita che le sottolinea gli occhi è colato disegnando aloni verdastri. La
folta chioma rossa ne accentua il pallore. La notte è fresca malgrado la
stagione, il cielo disseminato di stelle. Louise, stringendo il cagnolino al
petto, pensa che Simon ha avuto ragione a proteggerlo con il lavoro a maglia di
Hannah.
C’era
la neve, il fumo saliva lento
Intervista
a Guccini
Toni
Jop
«Cos'è
che lega Auschwitz a Gramazio? L'assurdità. Gramazio non sarà nazista,
magari non è in grado di far del male a nessuno ma così come non riesco a
spiegarmi l'assurdità di quella
violenza, e di quel progetto mostruoso, allo stesso modo non so darmi pace
di fronte a chi, come l'esponente di An, tenta di sottrarre il fascismo alle
sue responsabilità nell'aver contribuito alla realizzazione di quel progetto.
Assurdo lui, assurda la Lega che si rifiuta di sottoscrivere la risoluzione
europea
sull'antisemitismo: mi sembrano logiche pericolosamente lontane dal senso di
umanità che ci protegge dai fantasmi più crudeli». Guccini sta chiuso in una
coperta, un termometro sotto il braccio e sigarette razionate, assediato dalla
neve, dal freddo e dall'influenza. Legge, come sempre, un mare di quotidiani e
proprio leggendone uno pochi giorni fa ... Francesco non è uno che cerca cabale
ma gli va ogni tanto di compiacersi delle banali sincronie del destino come
quella che, ha scoperto, lega la sua vita al campo di sterminio nazista più
ferocemente paradigmatico, quello di Auschwitz. «Se l'informazione che ho
letto non è fasulla, sono nato proprio il giorno in cui si sono aperti i
cancelli di Auschwitz, il 14 giugno del 1940. Che vorrà dire?»; forse niente,
vuol dire niente se non quello che dice: che il più abominevole lager nazista
è nato lo stesso giorno in cui ha visto la luce l'autore della più bella,
toccante ballata su quell'inferno gestito dagli uomini che la popular music
europea possa contare tra le sue pagine. Correva l'anno 1964, fate i conti e
capirete quanto ragazzo fosse allora questo strano montanaro che già
scriveva capolavori e poi li passava ad altri.
Francesco,
come ti è venuto in mente di scrivere «Auschwitz»?
Intanto
era autunno. Questo è certo e stavo preparando un esame di latino. Avevo
letto un paio di libri che mi avevano impressionato: «Il flagello della
svastica» e «Tu passerai per il camino». Credo che mi sia uscita dal cuore
con gran semplicità. Quelle circostanze, quei temi li avevo già dentro per
contatto diretto...
Eppure
erano anni in cui non si ricordava volentieri quel che era successo. La Shoah
era ancora una vicenda che il silenzio di massa sembrava affidare volentieri al
destino molto sventurato, ma molto privato degli ebrei...
Una
nostra amica di famiglia, la signorina Sinigallia, - te lo ripeto da anni - di
cui sei sicuramente pronipote, era ebrea come te. È un personaggio della mia
infanzia, era lei che mi faceva le iniezioni, lei che non di rado giocava a
carte a casa mia. Lei che aveva perso un bel po' di familiari a Buchenwald,
credo. Raccontava, e io sapevo. Poi mio zio. Aveva una corrispondente estera,
negli anni '50 e nei primi anni '60 che aveva quel triste numero sul polso. Poi
vidi quelle foto sui libri. Soprattutto quelle dei bambini, laceranti: hai
voglia a cercare di capire, non ce la fai perché non c'è niente da capire, è
tutto così esplicito, così spaventosamente esplicito. Volevano far fuori
quella che per loro era una razza, dovevano abolire dal mondo la pietà ...
E
cosi ti mettesti a scrivere e a incollare note e accordi. Ma in quel brano che
stava nascendo c'era qualche cosa d'altro: la canzone italiana, grazie a te,
stava facendo un bel salto, usciva dai tinelli e si affacciava alla grande
storia dalla terrazza di una nuova coscienza, più ampia, più responsabile
...
Colpa
anche di Dylan. Lo avevo ascoltato da poco e mi pareva che non si potesse
restare indifferenti a quell'aria nuova, a quel modo di cantare le cose. Nel
giro di un mese o giù di lì, ho scritto e composto anche «Noi non ci saremo»
e «È dall'amore che nasce l'uomo», che pochi conoscono, credo.
Cosi
come pochi sapevano che eri tu l'autore di quei pezzi: «Auschwitz» la cantò
l'Equipe 84 di Vandelli, «È dall'amore che nasce l'uomo» la portarono a
spasso sempre loro, «Noi non ci saremo» divenne una bella hit dei Nomadi ...
L'Equipe mostrò coraggio a farsi carico di un brano così difficile, così poco consolatorio. Anzi, modificarono la mia versione originale dove diceva «lo chiedo quando sarà che l'uomo...». Tolsero questa domanda angosciata e la sostituirono con una risposta ben più dura cantando «io non credo che l'uomo...». Un po' atroce, poco nelle mie corde, non che fossi animato da chissà quale speranza ma chiudere il discorso in modo così netto ...
Sembra
la storia di un padre al quale tolgono i bambini appena nati...
I
miei amici più stretti sapevano che ero
io l'autore di «Auschwitz», a loro era piaciuta molto. Fuori da questa
cerchia, il primo a stringermi la mano e a dirmi «complimenti»
fu Arnoldo Foà, ma dopo un bel po'
di tempo. Insisto a dire che dal punto di vista tecnico non era un pezzo di
bravura: è molto efficace, arriva dritta allo scopo, sa evocare, ma insomma ...
Sono
quasi mai d'accordo con i tuoi giudizi sulle tue creature. Ma torniamo al
tema, la Shoah...
Mi
fa orrore il negazionismo. Non sopporto quelli che dicono: non è successo
niente, non è vero niente, non c'entro niente. I tedeschi
sono stati bravi, in generale, a non partecipare a questo vergognoso
gioco. Quanto all'antisemitismo,
basta verificare la cronaca di questi anni recenti: esiste, serpeggia, si
annida qui e lì anche se alcune condizioni. Per esempio, la Chiesa, cattolica
ha fatto ciò che doveva fare
eliminando ogni residuo della
vecchia, agghiacciante condanna di deicidio che agli ebrei è costata tanto e
tanto è costata all'Europa. Ma non basta. Guarda cosa sta accadendo nell'ex
Germania Est, dove si raccolgono i più agguerriti gruppi neonazisti. Il
pregiudizio sopravvive a tutto, purtroppo: che gli ebrei siano ricchi, avari,
avidi è una favola cattiva che trova casa piuttosto facilmente.
Non
pensi che nella Lega ci siano gli elementi necessari per alimentare rigurgiti
di cultura filonazista?
Non
penso che la Lega sia neonazista. Mi sembra piuttosto un luogo in cui la piccola
borghesia riesce a condensare tutti i suoi vizi peggiori, a cominciare dalla
paura del diverso e dall'egoismo, in una linea politica ...
Sarà,
mi sembrano ingredienti perfetti per una strategia in cui l'antisemitismo
ritrovi uno spazio istituzionalizzato: ogni volta che la paura è diventata
strumento di governo o quantomeno di politica gli ebrei hanno pagato, prima
o poi ...
Diciamo
che al momento la Lega sembra più preoccupata di criminalizzare gli
extracomunitari, gli omosessuali, i diversi in generale. Sembra abbastanza
esplicita nell'indicare i suoi bersagli. Anche se devo arrendermi al
potere della menzogna. Mi fanno molta paura quelli che minimizzano la Shoah
protestando ragionevolezza e poi in cuor loro oltre a sapere che è stata
quella cosa spaentosa e unica che è stata pensano che i nazisti hanno fatto
bene a fare quello che
hanno fatto.
In
altre parole, vorresti avere fu possibilità
di riconoscere senza ombra di
dubbio i nuovi nemici dell'umanità ...
Forse
sì, forse no. Se questi non hanno la possibilità di dichiararsi ciò significa
che la morale del nostro mondo, almeno in questo caso, è abbastanza forte da
costringerli a camuffare la loro biecaggine, perché altrimenti non avrebbero
scampo. È un brutto momento quello in cui un nazista si sente libero di dire
che è un nazista. Già, ma mentre parlo mi viene in mente che proprio in
Italia fascisti e nazisti ora si sentono liberi di dichiararsi, non se ne
vergognano...
Giorno
della memoria, è tempo di un bilancio
Gloria
Buffo
Oggi
è un giorno importante, è la giornata in cui le istituzioni, e noi tutti,
abbiamo deciso di ricordare i crimini del nazismo e del fascismo. In
quest'occasione ci spetta anche fare un bilancio su come la memoria e la
giustizia verso le vittime vengono trattate nel nostro Paese. Il bilancio non è
certamente positivo. Era dovuta e scontata l'istituzione in questa legislatura
di una Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause dell'occultamento di
fascicoli relativi a crimini nazifascisti (meglio conosciuta come Commissione
sull'Armadio della vergogna), ma si è dovuto faticare non poco per riuscire ad
ottenerla nel 2003. Oggi quella Commissione sta facendo un buon lavoro, e ciò
che ne esce non finisce di stupire. Un ulteriore occultamento di materiale è
avvenuto, infatti, negli ultimi anni, dopo la scoperta delle carte dell'armadio:
i 273 fascicoli riguardanti crimini in cui sono stati coinvolti fascisti
italiani, arrivati alla Commissione solo nel marzo scorso. Come è possibile che
ancora più d'uno tenti di occultare le carte, nel caso specifico magistrati
della Procura militare che al contrario dovrebbero adoperarsi per fare
giustizia? Forse perché questi fascicoli scottano più di altri, poiché
contengono carte su criminali italiani. Perché, si sa, il teorema su gli
"italiani brava gente", che scarica tutte le colpe solo sulle truppe
naziste, ritorna sempre ed è difficile da scalfire. Come è accaduto in Senato
con l'approvazione da parte della Commissione Difesa del progetto di legge di
Alleanza Nazionale per il riconoscimento di belligeranti legittimi a coloro che
hanno fatto parte dell'esercito della Repubblica di Salò. A questi fatti se ne
aggiungono numerosi altri, altrettanto gravi. Da ultimo le dichiarazioni di
Gramazio che assolvono il fascismo dalla responsabilità delle leggi razziali e
dello sterminio degli ebrei. Gli esponenti della maggioranza di centro-destra in
questi anni si sono prodigati in affermazioni sul 25 aprile e più in generale
sull'antifascismo gravi perché lesive della verità nonché della storia
italiana. Vi è stato, a seguire, il taglio di fondi all'Anpi operato in più
momenti e il mancato stanziamento per le celebrazioni del 60° anniversario
della Resistenza. È chiaro, dunque, il disegno culturale-politico della
maggioranza: la revisione ad uso politico della storia nazionale per tappe
successive fino alla cancellazione delle radici democratiche. A tale disegno
certo è giovato il tanto parlare - anche col supporto di certa brutta
televisione - di conciliazione nazionale e superamento di memorie divise. E
sicuramente supporto essenziale è stata tanta pubblicistica revisionista, di
qualche storico, ma soprattutto di chi, senza alcuna professionalità in merito,
si è arrogato pubblicamente il ruolo di disquisitore della storia nazionale e
dei suoi significati. Anche questo ha aiutato il governo Berlusconi, per la
strutturazione di una società autoritaria, in cui solo pochi possono godere di
potere e benessere. La campagna del governo e della destra contro la memoria e
la storia più in generale è stata in questi anni tenace, e condotta con
arroganza e modalità imprevedibili: ricordiamo l'ingerenza del Ministro dei
Beni culturali nella gestione amministrativa dell'Archivio centrale dello stato,
da cui ha rimosso l'autorevole direttrice, ricordiamo il taglio di fondi agli
Archivi storici di tutta Italia, che mette in grave pericolo la produzione di
cultura e l'elaborazione della memoria storica del Paese. E ancora, il tentativo
di revisione dei testi di storia e dei programmi scolastici. La risposta
dell'Italia democratica al tentativo di cancellazione della Resistenza come
origine dell'Italia contemporanea deve essere risoluta e chiara. Sostegno alle
attività scolastiche, finanziamento della ricerca storica cosi poco retribuita
in Italia, finanziamento delle opere documentarie e artistiche, supporto alle
iniziative locali, in particolare all'istituzione dei Parchi della memoria. In
Parlamento deve essere portata avanti con decisione l'iniziativa per approvare
alcune significative proposte di legge. Innanzitutto quelle relative al
finanziamento delle celebrazioni sul Sessantennale della Resistenza,
approvazione ormai urgentissima; quella per il risarcimento alle vittime delle
stragi di cui si sono rinvenuti i documenti nell'Armadio della vergogna. E
infine la proposta, presentata lo scorso 8 marzo insieme al Presidente della
Camera Casini, di istituire una giornata delle donne della Resistenza, che oltre
a contribuire a tenere viva la memoria di quei fatti, riconosca solennemente,
alle donne il ruolo svolto nella costruzione della democrazia e delle libertà
nel nostro Paese. Voglio aggiungere, infine, che tutte queste ragioni ci
spingono anche a chiedere al Presidente della Repubblica che per il seggio di
senatore a vita ancora vacante sia scelta una donna della Resistenza. Sceglierlo
significherebbe un visibile riconoscimento istituzionale al lungo e durissimo
percorso di emancipazione femminile, così importante nella costruzione di
un'Italia divenuta libera e moderna anche grazie all'impegno antifascista.
Da l'Unità, 27 gennaio 2005, per gentile concessione
C’è
chi vuole cancellare
di
Nicola Tranfaglia
C’è
un paradosso che percorre l'Italia nel momento in cui per il quinto anno in
molte città italiane ricorre quella giornata della memoria che una legge dello
Stato ha istituito il 20 luglio del 2000 e vale la pena segnalarlo proprio nel
momento in cui in tutto il mondo, a cominciare dall'Onu, si ricorda il giorno
della liberazione della più grande fabbrica della morte costruita dai nazisti
al centro dell'Europa, il lager di Auschwitz. Il paradosso consiste in questo.
Le forze politiche e culturali che furono protagoniste della resistenza e della
Costituzione repubblicana sono, per la massima parte, all'opposizione e al
potere c'è, da quattro anni, una coalizione di forze che non partecipò alla
guerra di liberazione, non contribuì a scrivere la Costituzione ancora vigente
e, al contrario, lungo l'intero sessantennio è sempre stata dall'altra parte di
questi valori e ideali che hanno guidato gli uomini più eminenti della vita
repubblicana, da De Gasperi a Moro, da Togliatti a Pertini e a Berlinguer, per
far solo qualche esempio. Governano quelli che hanno costituito, ha scritto
qualcuno, “il sommerso della Repubblica”. Qualcuno dirà che nel partito di
maggioranza relativa, in Forza Italia, c'è fior di ex democristiani e di ex
socialisti che vengono dunque da forze pienamente partecipanti alla genesi della
repubblica ma resta il fatto che anche loro hanno accantonato quei valori e
quegli ideali e quando parlano pendono dalle labbra del leader carismatico così
nostalgico di Mussolini e così dimentico di quel dice la nostra Costituzione
sulla divisione dei poteri, sull'uguaglianza dei cittadini e sulle principali
libertà, a cominciare da quella di informazione e di quella conferita ai
magistrati di applicare le leggi in piena autonomia e indipendenza dal potere
politico ed economico. Altri ricorderanno che la Lega Nord di Umberto Bossi non
è sempre stata, come è adesso, razzista e xenofoba, in prima linea nella lotta
contro gli immigrati e i giudici indipendenti. L'una e l'altra osservazione
valgono, purtroppo, solo per il passato e il presente ci consegna un panorama
assai diverso nel quale il revisionismo storico praticato sui mezzi di
comunicazione di massa (televisioni e giornali, soprattutto) piuttosto che negli
archivi e nelle biblioteche avanza a grandi passi, favorito dall’asservimento
crescente di chi dovrebbe invece informare correttamente gli italiani. Quanto
alla destra, presente in tutte le formazioni della maggioranza, assistiamo a
processi e a episodi che manifestano un tentativo costante di rivalutare il
fascismo e i suoi esponenti a prezzo della verità storica e della
documentazione esistente. È uscito qualche tempo fa un libro di Francesco
Perfetti sull'assassinio di Giovanni Gentile nel '44, edito dalla casa editrice
Le Lettere di Firenze in cui si sostiene con sicurezza che fu Togliatti ad
ordinarne la morte senza uno straccio di prova che permetta di arrivare a una
simile conclusione. Senza contare i grossolani errori che infiorano il libro
come quelli di scambiare la sigla GAP che vuoI dire "Gruppi di azione
patriottica" con l'indicazione di "Gruppi armati partigiani". Un
pamphlet di questo genere ha avuto il destino di numerose interviste televisive
e radiofoniche senza che si trovasse un giornalista capace di chiedere su quali
documenti l'autore si sia basato e il presidente del Senato Marcello Pera abbia
affidato proprio a Perfetti la ricostruzione della morte del filosofo,
guardandosi bene dall’invitare gli storici che hanno scritto le più
documentate biografie di Gentile (come Gabriele Turi o Sergio Romano). Ma gli
episodi si moltiplicano e basta visitare i siti telematici o i manifesti della
destra per averne la prova. Nel Vocabolario di Alessandro Cochi della sezione
Testaccio di Alleanza Nazionale, per fare solo un esempio, c'è un brano che
dice con chiarezza come il giorno della memoria non abbia ragione di esser
ricordato, a meno che si mettano anzitutto in fila i martiri fascisti e
neofascisti che hanno perduto la vita nel sessantennio repubblicano, al di là
delle violenze che quei martiri hanno compiuto nella sanguinosa stagione delle
stragi compiute in collusione più o meno aperta con apparati dello Stato. Né
ci si può fermare a questi esempi. A Torino è comparso nei giorni scorsi un
manifesto di Alleanza Nazionale, di cui hanno parlato i giornali, che disegna
una galleria di eroi della modernità e, accanto ai fascisti che ci aspettiamo
di trovare, compare il nome di Piero Gobetti, il fondatore di Rivoluzione
Liberale, che proprio dagli squadristi venne picchiato a morte dopo il delitto
Matteotti. Quanto al Museo Nazionale del Risorgimento, sempre a Torino, che si
prepara a diventare il Museo dell'Europa, si sta decidendo, a quanto pare, di
eliminare la sala che contiene le bandiere del movimento operaio e alcuni
reperti legati all'antifascismo e alla resistenza. Ora è vero che nell'ex
capitale subalpina esiste poco lontano un museo della resistenza ma se il nuovo
Museo ripercorre la storia d'Italia nelle sue tappe essenziali, è forse il caso
di non cancellare una pagina di così cruciale importanza per la nostra
identità nazionale. Potrei continuare con molti esempi che riguardano molte
città e regioni italiane. Ma mi interessa di più ritornare al paradosso
iniziale e chiedere al governo Berlusconi e alla sua maggioranza se l'offensiva
revisionista non intenda espellere dalla nostra storia le radici della
repubblica, il ricordo di quelli che caddero per abbattere i nazisti e i
fascisti e sostennero i valori che ancora ci reggono e porre al loro posto quel
"sommerso della repubblica" che oggi è sulla scena politica.
«Le
leggi razziali fasciste, tradimento della Nazione»
La
netta condanna di Ciampi. Fassino: «Non dimenticheremo da dove viene la nostra
libertà»
Roberto
Monteforte
ROMA
- L'Italia non vuole e non deve dimenticare. Il dramma della Shoah devo essere
un monito per le nuove generazioni. E soprattutto bisogna fare seriamente i
conti con le responsabilità del passato pensando ai rischi del presente, visti
i preoccupanti fenomeni di intolleranza e d discriminazione. È stata anche
questo la Giornata della Memoria celebrata ieri in tutta Italia. La condanna
delle leggi razziali «fasciste» contro i cittadini di religione israelitica è
stata netta: per tutti ha parlato al Vittoriano il presidente della Repubblica,
Carlo Azeglio Ciampi. «Le leggi razziali fasciste del 1938 sono state il più
grave tradimento di quegli anni», ha affermato. Il regime fascista tradì gli
ideali del Risorgimento e l'idea stessa della nazione italiana ha scandito
Ciampi. Un giudizio di condanna senza appello o attenuanti rivolto a chi tenta
di attenuare la condanna verso il fascismo, scaricando il peso delle
responsabilità sull'alleato nazista. L'unica distinzione che il capo dello
Stato accetta è quella tra quegli uomini del regime che «applicarono quelle
infami discriminazioni» e «i numerosi Italiani che, invece, seppero anteporre
le ragioni della loro coscienza alla violenza morale e fisica della dittatura e
del razzismo, che ebbero il coraggio di riaffermare la loro fede nella
libertà». Non dimenticare, quindi, per aiutare i giovani a «combattere
l’indifferenza», a «ripudiare ogni forma di integralismo e di estremismo» e
a contrastare «rinascenti fenomeni di discriminazione razziale, religiosa e
etnica»: è stato questo l'invito pressante rivolto da Ciampi. Sono parole che
sono piaciute al presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, Amos
Luzzatto, che ha ringraziato il presidente, «difensore dei principi della
nostra Costituzione, nata dalla Resistenza antifascista» e sicura «garanzia
per la formazione e l'affermazione dei giovani». Luzzatto, però, è
preoccupato. Ripropone la frase di Primo Levi: «E accaduto, quindi può
accadere di nuovo», «Mai come oggi si rivela attuale - commenta -. La
violenza, l'incitamento all'odio fra popoli; culture, religioni diverse,
l'omologazione, per quanto riguarda il passato, dei carnefici e delle loro
vittime: tutto questo è tragicamente nella cronaca quotidiana». Si domanda
Luzzatto: «Saremo capaci di insegnare ai nostri ragazzi la libertà di
scegliere consapevolmente fra il bene e il male, fra la lotta di sopraffazione
e la convivenza civile, nel rispetto dell'altro?», Non è meno preoccupato il
rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni. «Se si nega la
Shoah, non ci può essere riconciliazione», ha affermato durante la cerimonia
tenutasi alla Camera dei deputati. «Per la nostra comunità, questa giornata -
ha scandito il rabbino - mette a nudo una sofferenza, la nostra non è una
partecipazione formale e serena. C'è però l'impegno forte per una
riconciliazione. Ma non ci può essere conciliazione con chi nega ciò che è
accaduto, con chi si autoassolve, con chi si giustifica ed ha un atteggiamento
aggressivo e di odio», Ad ascoltare questi moniti c'erano il ministro degli
Esteri, Gianfranco Fini, e il presidente della Regione Lazio, Francesco Storace.
«Bisogna combattere l'ignoranza, l'ignavia e l'indifferenza per evitare che
l'odio razziale e l'antisemitismo, anche sotto altre forme, non si ripetano mai
più» ha risposto Gianfranco Fini. «L'Italia fascista non è esente da
vergogna» ha dovuto riconoscere Storace. Anche Emanuele Filiberto di
Savoia, ha ammesso ieri le responsabilità del bisnonno, Vittorio Emanuele III,
che tradì i suoi sudditi di religione ebraica firmando le leggi razziali. Un
invito a «non dimenticare da dove viene la nostra libertà, a non dimenticare
che se l'Europa, da più di 60 anni, conosce pace e prosperità è perché ci
sono stati donne e uomini che hanno lottato per sconfiggere il nazifascismo, per
liberare l'Europa dall'orrore della Shoah» è venuto dal segretario dei Ds,
Piero Fassino che ieri ha visitato il museo storico della Liberazione, in via
Tasso a Roma. Il segretario della Quercia ha invitato a non abbassare la guardia
sull'antisemitismo, «malapianta che, per quanto la si estirpi, può sempre
continuare a crescere e a riprodursi». Le leggi razziali sono state definite
«un'ignominia che pesa sulla storia del nostro Paese» dal presidente della
Camera, Pier Ferdinando Casini, «Questa è una responsabilità che non può
essere né sminuita né ignorata davanti alla Storia» ha ribadito. Il ministro
degli Interni, Giuseppe Pisanu, invece, ha accostato l'attuale terrorismo al
nazismo: «ideologia di morte, contro la vita e la gioventù». Il responsabile
del Viminale chiede «rinnovata attenzione» contro «pregiudizi, tendenze
discriminatorie, manifestazioni di intolleranza e di risorgente antisemitismo».
Berlusconi
ad Auschwitz accusa i comunisti (che la liberarono)
«Ma
guarda, sembra un film …»: il premier scopre d’improvviso l’Olocausto
senza citare mai il fascismo
di Marcella
Ciarnelli
AUSCHWITZ
- Silvio Berlusconi ha scoperto l'Olocausto. Solo ora. Nel giorno in cui il mondo
ha ricordato con dolore e commozione i sessanta anni dalla fine dell'orrore di
Auschwitz. Ma non si è lasciato sfuggire l'occasione, nel gelo che ha
attanagliato il campo di concentramento lasciato identico perché nessuno
dimentichi (ovviamente chi sa), di ritornare sul suo tema preferito. «Che non
si possa più nemmeno lontanamente arrivare ad azioni come quelle che si sono
verificate con il nazismo e con il comunismo», mentre invece «bisogna
impegnarsi ad amare gli altri». Mettendo così tutto insieme. Il bene e il
male. Risvegliando lo spettro del comunismo, che lui ha deciso essere il motivo
conduttore della sua campagna elettorale fino al 2006, anche se ha dovuto
riconoscere che le leggi razziali emanate in Italia da Mussolini sono state
«una vergogna, una vergogna assoluta». Nella giornata che ha visto Vladimir
Putin tra i protagonisti, testimone di quei soldati russi che qui per primi
sessanta anni fa portano di nuovo la speranza a gente che non ne aveva più,
Berlusconi non ha saputo rinunciare al suo esempio elementare degli orrori che a
suo dire, senza alcuna differenza, si sono susseguiti nel mondo. Ieri ci ha
tirato dentro anche Pol Pot parlando della tragedia dei campi di concentramento
come di una cosa «che si è verificata solo sessanta, settanta anni fa ma poi
ha avuto degli altri seguiti che sono stati altrettanto raccapriccianti». Come,
appunto, quanto avvenuto in Cambogia. «Una cosa incredibile», mormora il
premier mentre la sera cala e la neve scende copiosa. «Sembra davvero di
assistere ad un film», commenta mentre racconta l'Olocausto per come glielo ha
dovuto spiegare per l'occasione il professor Marcello Pezzetti, studioso della
Shoah «che mi ha rivelato molto più di quanto sapessi». Infreddolito,
riparato da un Borsalino grigio che si è tolto solo per deporre il lumino
votivo sulle lapidi, nella posizione defilata che il cerimoniale gli ha
destinato, Berlusconi ha visto sfilare il dramma di un popolo. Nelle parole di
chi ha fatto i discorsi. Nelle facce dei sopravvissuti e della loro famiglie.
Lui lo racconta come una fiction. «Conoscevo la storia perché miei amici ebrei
me l'avevano raccontata. Ma passare fisicamente davanti a quelle baracche e a
quei forni crematori mi ha fatto capire che quanto è successo qui è
inarrivabile». Per il premier chi ha resistito quattro anni «in questo
inferno» ci sono riusciti «solo perché hanno fatto parte degli ausiliari che
purtroppo erano costretti a farlo», i kapò, mentre gli altri «immagino
fossero scheletri al momento della liberazione». Per lui «la cosa drammatica
è che un solo uomo decideva del destino di tutti. Uno della sanità che
misurava la resistenza fisica di chi arrivava e ne mandava subito a morire
l'ottanta per cento». Poi dichiara di aver molto approfondito «la
preoccupazione del Fürher e dei suoi vicini di far sparire le prove, i corpi
degli uccisi. Avrebbero potuto fucilarli ma c'era il problema di nascondere le
tracce. Magari in prospettiva di un accordo con gli alleati. Di qui le fosse
comuni». Davanti ad una tragedia così grande il presidente del Consiglio
minimizza la paura per un possibile ritorno dell'antisemitismo. «Ogni tanto
succedono ancora dei fatti che dobbiamo assolutamente deplorare e condannare. Ma
quello che è successo qui è inarrivabile». Comunque i giovani vanno resi
consapevoli. «Porterò qui i miei figli», dice Berlusconi non dopo aver
promesso che finanzierà la ristrutturazione della parte italiana del museo.
«Verremo in estate», promette il premier che di freddo ne ha preso e
parecchio. «Ho già preso l'appuntamento». Neanche fosse il dentista.
Shoah,
i testimoni italiani ora li potete ascoltare tutti
La
raccolta della fondazione Spielberg da oggi all’Archivio di Stato
di
Mariagrazia Gerina.
ROMA
- «Esperienza infantile dell'antisemitismo». «Reazione dei presenti alla
persecuzione degli ebrei». «Vivere sotto falsa identità». «Arresto ad opera
di bande fasciste». Minuto dopo minuto, azione dopo azione, l'intero racconto
della Shoah italiana depositato in 434 testimonianze italiane e oltre mille ore
di girato conservate presso gli archivi della "Survivors of the Shoah
Visual History Foundation", la fondazione creata da Spielberg per
conservare il racconto diretto dei testimoni, verrà ufficialmente consegnato
oggi all' Archivio centrale dello Stato, dove sarà visibile e consultabile da
chiunque, non solo testimonianza per testimonianza, ma anche tema per tema, voce
per voce. «C'è stato bisogno anche di aggiungere alcune voci all'ampio
vocabolario fissato dalla Fondazione Spielberg prima di aver analizzato il corpo
delle interviste italiane» spiegano Michela Procaccia e Giovanni Contini, che a
questo lavoro, presso gli archivi di Los Angeles, hanno dedicato due anni. Voci
chiave come «Legge italiana per la difesa della razza -
1938». O
anche «bande fasciste» per indicare chi era a compiere gli arresti. Voci che
dicono la specificità tutta italiana della Shoah. Da domani consultabili presso
l'Archivio centrale dello Stato. Ad annunciarlo, nell'Aula Magna della
università La Sapienza di Roma, è stato lo stesso presidente della Shoah
Visual History Foundation, partecipando alla celebrazione della giornata della
memoria nell'ateneo romano. A celebrarla, con il neorettore Renato Guarini, il
rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, il delegato del
sindaco di Roma per la multietnicità, Franca Eckert Coen, Furio Colombo,
Alessandro Portelli, la storica Marina Caffiero, promotrice e organizzatrice
della giornata, il regista Mimmo Calopresti, al quale Spielberg ha affidato la
realizzazione di un film tratto dalle testimonianze italiane, come quello
proiettato ieri nell'Aula Magna, Voci dalla Lista, che invece ripercorre
la vicenda degli ebrei salvati da Oscar Schindler. «Quest'anno la nostra
università per la prima volta ha compiuto la scelta di celebrare il Giorno
della Memoria con un'iniziativa propria», spiega il rettore Renato Guarini,
sottolineando «il prezzo che la comunità scientifica pagò, per via delle
leggi razziali, in termini di vite umane ma non solo». «Fu qui che si
consumarono atti terrificanti: dall'eliminazione dei docenti ebrei, alla
collaborazione di alcuni scienziati ai progetti di persecuzione razziale»,
ricorda il rabbino Di Segni. «Questa giornata vi deve insegnare a non far finta
di non esserci di fronte alla storia», si rivolge agli studenti il direttore de
l'Unità, spiegando il senso della legge, da lui promossa, che ha
istituito il Giorno della Memoria: «La Shoah è stata un delitto italiano, per
questo anche è importante che l'Italia ricordi», ammonisce, testimoniando poi
agli studenti la sua personale vicenda di bambino cacciato, in virtù delle
Leggi razziali, dalla scuola.
Gramazio
si arrampica «Sono stato frainteso»
Retromarcia
dopo aver negato le responsabilità fasciste sulle leggi razziali
ma.
ge.
ROMA
- Dopo tre giorni di silenzio e di burrasca, Domenico Gramazio, l'alleato
nazionale che, nella settimana in cui cade la giornata della Memoria, in visita
ufficiale in Israele, con una bruttissima dichiarazione di sapore
nostalgico-negazionista (registrata dalle agenzie al termine della sua visita
allo Yad Vashem) aveva minimizzato il ruolo delle leggi razziali e del fascismo
nello sterminio di massa degli ebrei, ritratta: «Sono d'accordo con quanto
hanno detto il presidente Fini e il presidente Storace: è vergognoso
minimizzare le leggi razziali». Così recita la lettera "riparatoria"
consegnata ieri al rabbino capo della comunità di Roma, Riccardo Di Segni, che
era con lui nella visita in Israele della delegazione laziale. Lettera giunta al
termine di una giornata che avrebbe dovuto essere dedicata a tutto tranne che al
caso Gramazio. Partorita in un clima assai teso: tra le richieste di dimissioni
di Gramazio da presidente dell'agenzia regionale per la sanità avanzate a
Storace dall'opposizione, l'indignazione della comunità ebraica e l'imbarazzo
di Gianfranco Fini, costretto a minimizzare i «sentimenti assolutori
all'interno del suo partito», a pochi giorni dal decennale della svolta di
Fiuggi. Inizia molto presto la giornata della memoria funestata dal "caso
Gramazio". Alle 8.30, il presidente della Regione Lazio è già in
Lungotevere Cenci, negli uffici della comunità ebraica di Roma, per incontrare
il presidente della comunità Leone Paserman e il rabbino capo Riccardo Di
Segni. «Incontro programmato da tempo per la giornata della memoria», precisa
Paserman. Al termine del quale, Storace, felice che l'incontro non sia stato
annullato nonostante le tensioni, esce con una proposta per chiudere il caso
Gramazio: «Un gesto o una lettera per far capire il suo pensiero». Le
dimissioni no: «Ai rappresentanti della Comunità ebraica ho detto che Gramazio
mi aveva comunicato che voleva dimettersi, avendo saputo che venivo qui. Ma io
gli ho detto "aspetta un attimo"...». Nella lettera consegnata nel
pomeriggio al rabbino Di Segni, Gramazio fa ammenda per la poca chiarezza delle
sue parole. Ed esprime «profondo disappunto!», per la chiarezza introdotta dal
cronista, che nell'agenzia aveva riportato: «Il fascismo non ha avuto
responsabilità nello sterminio di massa degli ebrei e fece leggi razziste
trascinato dall'accordo della Germania con l'Italia». Che corregge così:
«L'applicazione delle leggi razziali, premessa della Shoah, sono state un'onta
degli anni del fascismo e nessuno lo può negare: le deportazioni e il calvario
degli ebrei italiani e romani ne sono testimonianza concreta».
Auschwitz,
tutto il mondo ricorda
Auschwitz,
il mondo contro i suoi demoni
Gianni
Marsilli
AUSCHWlTZ
BIRKENAU - Non era previsto dal cerimoniale l'urlo rauco di quella donna anziana
ma vigorosa, l'unica senza cappotto nel gelo di Birkenau. Si è messa al fianco
di Moshe Katsav, il capo dello Stato d'Israele, e ha aspettato che terminasse il
suo discorso. Poi ha preso con decisione il microfono, si è scoperta
l'avambraccio e ha mostrato alla folla di presidenti e primi ministri il numero
tatuato: «Perché ci hanno messo la stella gialla? Perché, ci hanno portato
qui? Avevo sedici anni quando sono arrivata ad Auschwitz ...». Voleva solo
gridare il suo dolore rabbioso, e al contempo il suo orgoglio vitale: «Oggi
sono cittadina d'Israele, amo il mio paese ... non deve accadere mai più!». Ha
parlato per un minuto, poi è tornata al suo posto, giusto dietro le autorità,
assieme agli altri sopravvissuti. Sono stati in tanti, a sfidare i meno dieci e
la neve che non ha smesso di cadere fitta neanche per un minuto, gli ex
deportati che sono venuti qui ieri. Per molti sarà l'ultima volta, anche per
questo il 60° della liberazione del campo non è stato simile a nessun altro
anniversario. Mai era stata officiata una cerimonia con tanto impegno e
partecipazione. Mai un tale ecumenismo politico e religioso ha ricordato gli
orrori che qui si consumarono. Neve e fuoco. Come sessant'anni fa. La neve ha
accompagnato la cerimonia, il fuoco l'ha chiusa: seicentocinquanta metri di
binari improvvisamente avvolti da fiamme che correvano sinistre e parallele.
Proprio «quei» binari, che sono sempre qui a Birkenau e che allora portavano
alla rampa della selezione: uno di qua, abile al lavoro, quattro di là, buoni
per il gas e la cremazione. Quando si è fatta sera lo spettacolo chiudeva la
gola: la luce fioca di mille candele nella neve, quella incerta dei riflettori
sui resti dei forni crematori, quella viva dei binari, e tutto intorno buio
nell'immensa pianura. Il fischio di un treno e lo stridio di una brusca frenata
avevano aperto la cerimonia, il rumore di un treno che si rimetteva in marcia ne
ha siglato la fine. Pochi degli ex deportati avevano resistito fino a quel
momento. Il freddo, in qualche caso l’emozione l'avevano avuta vinta, ed
assistevano più in là, al coperto davanti agli schermi. C'erano quelli che di
sé stessi ieri avevano deciso di fare una prova vivente dell'obbrobrio,
affinché dopo di loro non si dimentichi, ed esibivano davanti alle telecamere
gli avambracci numerati, foulard e berretti a righe bianche e blu, i colori dei
deportati, con una specie di amarissima fierezza. Come il polacco Jerzy Mjrinsky,
che qui arrivò nel '44, e non ne vide la liberazione perché finì a
Bergen Belsen. Aveva un nodo alla gola e ripeteva in tre, quattro lingue: «Mai
più, mai più». C'erano quelli più pensosi e discreti, come il francese
Maurice Klemt che confessava ai giornalisti: «Sono perplesso. Sono tornato
varie volte qui, ne conoscevo il silenzio. Oggi mi sento diviso tra la mia
storia personale e la storia del mondo. Certo, dico sì alla memoria, ma mi
sento a disagio in questo va e vieni tra le camere a gas». Questi «ex» non
avevano l'abitudine di vedere primi ministri e presidenti a Birkenau. Nei
decenni ogni paese aveva declinato la memoria dell'Olocausto a modo suo,
occultandola come in Francia, piegandola come in Polonia, trascurandola come in
Italia. Per molti la cerimonia di ieri è stata come un'irruzione di folla in
una memoria che in fondo era sempre rimasta privata, indicibile al resto del
mondo. L'Europa è sfilata a quel microfono eretto davanti al monumento più
significativo del continente. L'Europa di Simone Veil, la voce netta, volto
forte. Era bellissima a sedici anni, quando arrivò qui ad Auschwitz. Lei si
salvò, non sua madre né il resto della famiglia. Ha avuto, lei che è stato il
primo presidente del Parlamento europeo, parole di fiducia: «I paesi europei
sono riusciti a superare i loro vecchi demoni ... L'Europa di Wladyslaw
Bartoszewsk straordinaria biografia di polacco di Varsavia. Ad Auschwitz già
nel '40 poi resistente, poi imprigionato da regime comunista per sei anni fini
al '54, poi docente di storia, ancor imprigionato nell'81 quando Jaruzelski
impose la legge marziale, poi ministro degli Esteri negli anni '90. Ha
denunciato l'indifferenza degli alleati, che sapevano ma non bombardarono: «Il
mondo libero non s'interessava della nostra sorte, malgrado la Resistenza li
avesse informati...». L'Europa di Romani Rose, presidente dei gitani europei
l'unico a parlare in tedesco: «Himmler già nel '38 evocava la necessità di
una soluzione finale della questione gitana». L'Europa del cardinale Lustiger,
che ha parlato a nome dell'ex arcivescovo di Cracovia, oggi Giovanni Paolo II:
«Non è permesso a nessuno di passare con indifferenza davanti ad
Auschwitz...». Solo tre i leader politici che hanno preso la parola. Il polacco
Aleksander Kwasniewski: «Sono stati gli ebrei a subire le conseguenze più
atroci...». Ha reso omaggio all'Armata Rossa e all'Unione Sovietica «che
liberò Berlino ed ebbe venti milioni di morti», e ha decorato i russi
liberatori. Il russo Vladimir Putin, il più breve e conciso, che ha rivendicato
all'esercito sovietico di «aver liberato la Polonia» ed è stato l'unico a
parlare anche del presente: «Non ci potevano essere nazisti buoni o cattivi,
come non ci possono essere terroristi buoni o cattivi», e tutti hanno pensato
alla Cecenia. Il presidente israeliano Moshe Katsav: «Il mondo sapeva che
gli ebrei d'Europa venivano sterminati e ha continuato ad ignorarli...
Sessant'anni dopo la Shoah siamo davanti ad una recrudescenza dell'antisemitismo
in Europa: il potere di dissuasione della Shoah si è forse attenuato?». È il
rimprovero di Israele all'Europa, di essere troppo immemore, disattenta ai
«vecchi demoni» di cui aveva parlato Simone Veil. Aveva detto Jacques Chirac
in mattinata, arrivando a Cracovia: «Per la Francia la Shoah non è solo un
dolore. È anche la consapevolezza di una colpa». È il primo capo dello Stato
francese a farne parte in termini così espliciti e categorici. Infine la
preghiera ecumenica, i canti della Shoah a cappella, senza parole, un solo lungo
lamento, l'Orchestra filarmonica nazionale polacca, i cori dell'Alta Slesia e
della Radio di Cracovia, la deposizione delle candele davanti ad ognuna delle
steli in pietra, una per paese, una per lingua della magnifica babele che
arrivò ad Auschwitz e che da Auschwitz non tornò. Nevicava ancora, quando si
è sentito nel buio il rumore di un treno: era il segnale di chiusura della
cerimonia. Contro l'oblio, perché non accada di nuovo.
L’Europa unita: no a chi nega l’Olocausto
A
Bruxelles la risoluzione passa con 617 sì. Appello a fermare antisemitismo e
razzismo. Frattini: convincerò Castelli
di
Sergio Sergi
BRUXELLES
Un bel voto, uno dei più belli del Parlamento europeo: 617 a favore e 10
astenuti. Nessun voto contrario. La risoluzione che, nel 60° dell'Olocausto,
rende omaggio alle vittime del nazismo, condanna le tesi revisioniste e
negazioniste e mette in guardia dall'insorgere dei fenomeni antisemiti e
razzisti, ha ricevuto un consenso davvero massiccio. Salutato da un'ovazione
commossa. E dal successivo omaggio che il presidente Josep Borrell e tutti i
capigruppo hanno reso alle vittime recandosi alla cerimonia di Auschwitz subito
dopo l'esito del voto. Una bella pagina, quella scritta dal Parlamento europeo
riunito a Bruxelles. Macchiata soltanto da quelle dieci astensioni, una delle
quali espressa dal deputato italiano dell'Udc, Raffaele Lombardo. Persino gli
indipendentisti hanno votato a favore pur non comparendo tra i firmatari, e
persino i leghisti, evidentemente fiutando il rischio dell'isolamento. Cosa che,
tuttavia, non ha fermato Borghezio dall'accomunare il «pericolo islamico» e il
«razzismo antisemitico» e dal dichiarare la nota contrarietà della Lega alla
«direttiva europea sull'immigrazione», materia gestita dal commissario
Frattini. Un voto a favore su un testo antirazzista ma è salva l'anima. Un voto
a favore, quasi una contraddizione in termini, su un documento che chiede con
fermezza che si riprenda il confronto e si giunga all'approvazione della
«Decisione quadro» su razzismo e xenofobia, bloccata proprio dal veto del
ministro leghista Castelli. La risoluzione sull' Olocausto sollecita la
proclamazione del 27 gennaio come giornata di ricordo in tutta l'Unione e incita
a mettere in campo iniziative scolastiche, un rafforzamento delle campagne
d'informazione al fine di «promuovere» la consapevolezza, soprattutto tra i
giovani, e per aiutare a trarre le lezioni della Storia. E una lezione di
storia, anche questa elegante e sofferta, l'ha fornita in aula Martin Schulz, il
capogruppo del Pse. Il quale, formulando un emendamento orale alla risoluzione,
ha messo fine ad un non tanto sottile stato di tensione sulla definizione
geografica del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Il testo giunto in
aula, già frutto di un complicato compromesso, parlava di «campo di morte dei
nazisti di Hitler». Schulz si è alzato e ha detto: «Propongo che si dica che
Auschwitz è stato un campo di sterminio della Germania nazista. Si, è bene
ponderare ogni parola e con questa formulazione si esprime la responsabilità
speciale della Germania e, al tempo stesso, si stabilisce che è stata dei
nazisti». Quando si è seduto, Schulz ha ricevuto un applauso che ha commosso.
E il capogruppo del Ppe, Hans Poettering, anch'egli tedesco, ha preso la parola
per sostenere l'emendamento. Applausi anche per lui. In questo clima
rasserenato, è, stato approvato anche un emendamento del polacco Boguslaw Sonik
con cui si afferma che nel campo sono stati eliminati «un milione e mezzo di
ebrei, rom, polacchi, russi, e prigionieri di varie nazionalità, omosessuali».
Respinto al mittente, invece, il tentativo di Romano La Russa (fratello di
Ignazio) che voleva ricordare il genocidio degli armeni, i crimini nei gulag
sovietici e nelle foibe dell'ex Jugoslavia. Proprio nel giorno della memoria, il
commissario Franco Frattini, nel corso di una conferenza stampa, ha confermato
le minacce che gli sono giunte attraverso una lettera firmata con una svastica,
Frattini, da responsabile del portafoglio «Giustizia, Libertà e Sicurezza» ha
proposto di recente l'interdizione dei simboli del nazismo e la ripresa del
confronto nell'Ue sulla «Decisione quadro» contro il razzismo e la xenofobia.
Il commissario (e vice presidente) ha annunziato anche che tenterà di
convincere il ministro italiano della Lega, Roberto Castelli, a togliere il veto
del governo sul provvedimento contro il razzismo. «Cercherò di rassicurarlo»,
ha detto. Castelli ha replicato che Frattini si renderà conto «di come sarà
difficile fare approvare le modifiche (quelle del Guardasigilli alla
"Decisione", ndr.) ad alcuni Stati membri». Castelli si è sempre
trincerato dietro il tema della libertà di espressione. Ma Frattini è apparso
deciso. Per esempio, quando ha parlato di messa al bando, ha insistito nella
necessità di punire «tutti i comportamenti e gli atteggiamenti che possano
evocare il dramma del nazismo».
«La
Shoah colpa dell’Europa, per gli arabi il problema è Israele»
L’intervista
Khaled Fuad Allam – Lo studioso: l’antisemitismo nel mondo musulmano è un
fenomeno recente, nasce soprattutto dal conflitti israelo-palestinese
Umberto
De Giovannangeli
ROMA
«La valenza e la tragica unicità della Shoah interroga soprattutto la
coscienza dell'Europa che ha coltivato al proprio interno i germi, culturali,
religiosi, politici, che hanno prodotto il Terzo Reich e i campi di sterminio
nazisti. Storicamente, nel mondo arabo e musulmano l'accettazione dell’
“altro da sé”, in questo caso dell'ebreo, è un elemento caratterizzante,
identitario. L'affermarsi dell'antisemitismo è un fenomeno più recente,
metapolitico, legato alla nascita dello Stato d'Israele e ai conflitti
arabo-israeliani». A sostenerlo è il professor Khaled Fuad Allam, sociologo
del mondo islamico.
Il
mondo islamico e la Shoah. Si può parlare di un diffuso atteggiamento
negazionista o comunque fortemente riduttivo dell'Olocausto nel mondo arabo e
musulmano?
«La
valenza della Shoah come l'abbiamo conosciuta in Europa, una tragedia che
interroga la coscienza dell'umanità, non ha un analogo riscontro nel mondo
arabo e musulmano. E questo perché storicamente non è mai successo un fenomeno
analogo nel mondo islamico. Al contrario, la storia del mondo islamico è
segnata da importanti eventi di accoglienza: penso, ad esempio, gli ebrei
cacciati dalla cattolicissima Spagna trovarono rifugio nel califfato a Istanbul.
La Shoah è, in un certo senso, incompatibile con la visione antropologica della
società musulmana, a cui è estranea l'idea di distruggere scientificamente una
razza, colpevole solo di esistere. Un musulmano non lo capirebbe mai».
Non
può però negare che nel mondo arabo sia presente l'antisemitismo.
«Non
lo nego affatto, anzi ne sono alquanto preoccupato. Rilevo che questo fenomeno
è un fenomeno più recente che si nutre di un negazionismo di matrice
occidentale e che si intreccia con forme di modernità politica. In una formula,
Irving più nazionalismo arabo che usa argomentazioni antisemite per rafforzare
il proprio antisionismo».
Una
delle critiche che le élite intellettuali arabe rivolgono a Israele è quella
di strumentalizzare la Shoah per giustificare la politica del pugno di ferro nei
confronti dei palestinesi.
«Si
tratta di un atteggiamento estremamente pericoloso che però riguarda una certa
frangia di intellettuali. Eviterei però di generalizzare. Si tratta peraltro di
un fenomeno recente, quindici anni fa non esisteva. È un antisemitismo che si
è adattato alla situazione politica delle relazioni israelo-palestinesi. Quel
conflitto nella parte araba si alimenta in modo acculturato di queste forme
nuove di antisemitismo. È una cosa costruita artatamente, ma non si può dire
che questo antisemitismo politico incontri il sentimento delle masse arabe e
musulmane, il loro tratto identitario, la loro cultura. La storia ci insegna che
per molti secoli ebrei, arabi, musulmani hanno vissuto insieme. Ai miei studenti
all'inizio dell'anno accademico mostro delle fotografie del primo Novecento in
Algeria di persone e sfido chiunque a dirmi questo è un musulmano, questo è un
ebreo...è impossibile distinguerli perché partecipavano alla stessa cultura.
Così si capisce che l'antisemitismo è il prodotto dell'acculturazione indotta
di queste società e della conflittualità politica, ma non si alimenta
all'interno di una dimensione escatologica come lo è per la storia del
cristianesimo e, soprattutto, dell'Europa».
Resta
il fatto che in alcuni Paesi arabi si trasmettono programmi fondati sui
Protocolli dei savi anziani di Sion
«Tutto
questo è il prodotto di una acculturazione recente: ottant'anni dopo, il mondo
arabo scopre i "Protocolli" per usare il passato al fine di contestare
una realtà ormai acquisita: lo Stato di Israele».
Oggi
nel mondo arabo e musulmano che percezione c'è dell'altro da sé, del
«diverso» che l'Ebreo ha storicamente simboleggiato?
«Conosco
un grande intellettuale israeliano, Stefan Moses, che durante le leggi razziali
in Francia trovò rifugio in Marocco, perché il sultano del Marocco aveva
rifiutato di applicare le leggi razziali: gli ebrei erano protetti dalla
monarchia marocchina. La dimensione comunitaria propria dell'identità musulmana
faceva sì che ciascuno viveva sulla base delle rispettive convinzioni religiose
e identità culturali e ciò non impediva assolutamente una compenetrazione fra
elementi culturali eterogenei. È il nazionalismo che ha spaccato questa
fraternità costitutiva di questo mondo, ed oggi il mondo, non solo quello
musulmano, è orfano di una fraternità che la politica non riesce a
ricostruire. Ma ciò ci offre anche una speranza, nel senso che nei rapporti tra
ebrei e musulmani in Palestina questa fraternità è qualcosa che è esistito
storicamente e questo ci permette di pensare che alla fine i rapporti possano
ricrearsi».
Da l'Unità, 28 gennaio 2005, per gentile concessione