l'Unità

 Giorno della Memoria 

Gli smemorati di Auschwitz
di Furio Colombo

Estraneo per convinzione alla storia - che mostra di riconoscere solo in certe sue immaginette di Salò - l'ex onorevole Domenico Gramazio dice da Israele, dove si trova in visita, chissà perché, che «la destra italiana non ha avuto responsabilità nello sterminio degli ebrei, l'Italia fascista non condivise le leggi razziali e Almirante salvava gli ebrei».  Fa particolare impressione - e avrà fatto il suo effetto di sgradevole sorpresa in Israele - che Gramazio abbia detto quello che ha detto sulla porta del Museo della Shoah a Tel Aviv, dopo aver visto quello che ha visto, compresi i nomi degli ebrei italiani sterminati. Fa ancora più impressione che Gramazio evochi come prova il nome di Almirante. Dopo la svolta di Fiuggi del partito di Gramazio, poteva essere giusto smettere di ricordare che Almirante è stato segretario di redazione della rivista «La difesa della razza». Gramazio, come Fini, è nato dopo e non è colpevole di niente.  Ma poiché avrà visto un po' di televisione, avrà sentito, anche per sbaglio o non volendo, storie e testimonianze di ebrei italiani denunciati, arrestati e deportati dai fascisti, non può non sapere che sta mentendo. O meglio, si permette di assolvere il partito che è stato uno dei due protagonisti mondiali del progetto di sterminio più spaventoso, accurato e sanguinoso che abbia mai attraversato l'Europa. Raccomandiamo a Gramazio di leggere subito il libro su Perlasca di Enrico Deaglio e il Diario dello stesso Giorgio Perlasca, proprio perché i due libri raccontano la repulsione morale per le leggi razziali di un uomo vicino al partito amato e ingiustamente assolto da Gramazio. Ecco perché esiste «Il Giorno della Memoria» approvato dalla Camera quando Gramazio era ancora deputato e che, come si vede, ha ancora molto da insegnare. Per questo stupisce anche più che un altro personaggio, che non è né privo di memoria, non è ex fascista, ed è storico di professione, (affiliato anche, in passato, all'Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione del Friuli-Venezia Giulia) abbia scritto ieri, in prima pagina, sul quotidiano «Il Piccolo» di Trieste un articolo dal titolo «Giorno della Memoria? No grazie». Lo storico è Giampaolo Valdevit che - per fortuna - scrive quello che scrive nelle stesse ore in cui Gramazio parla. Ovvero proprio mentre un pezzo di apparato politico italiano di maggioranza e di governo annuncia di non sapere nulla di tutto ciò che è accaduto in Italia dalla espulsione dei bambini ebrei dalle scuole del regno alla cacciata da cattedre, professioni, carriere e lavori di qualunque tipo, anche isolato e autonomo, di tutti gli italiani ebrei, dalla destinazione ai lavori manuali e stradali di quei concittadini alla razzia del 16 ottobre a Roma, alla strage di Meina, alla deportazione nel campo di Fossoli e poi di Auschwitz, con la fervida collaborazione dei fascisti italiani. Scrive il prof. Valdevit, negando in poche frasi non solo la Storia, ma anche la sua professione di storico (che ovviamente considera inutile) «ricordare per non ripetere gli errori del passato è un monito vuotamente retorico e inutile». La frase contraddice il senso stesso della cultura, dell'insegnare, del cercare di tramandare ai più giovani il senso delle esperienze e di ciò che è già accaduto. E lo scrive proprio mentre si cerca, nel mondo, di istituire luoghi, tribunali, occasioni per costringere i colpevoli a rendere conto, per mostrare anche a coloro che sono guidati dai peggiori sentimenti che nella Storia c'è un dopo in cui, come Eichman, si può essere chiamati a rispondere. L'articolo di Valdevit finisce con la frase insensata (soprattutto per uno storico): «Della Giornata della Memoria possiamo quindi tranquillamente farne a meno». Forse si deve essere grati all'ex onorevole Gramazio (che ora è - pensate - responsabile della Sanità nella regione Lazio) per avere dimostrato a suo modo in buona fede, cioè con sincera cecità verso il passato (visto solo dall'interno di un contenitore ex fascista) quando sia stato avventato il disprezzo di Giampaolo Valdevit, di professione storico, per l'impegno di ricordare.


Che cosa vuol dire Ricordare

di Michele Sarfatti

Cerco degli aggettivi per la memoria della shoah. Innanzitutto è bene che la memoria sia volontaria. Proprio per questo ho appena scritto le parole “è bene che sia”, e non “deve essere”. Auspico che nessun insegnante vada oltre i propri compiti educativi, costringendo gli studenti ad adottare una memoria che essi non vogliono sentire. Auspico che nessun capo obblighi dipendenti riottosi a dedicare sessanta secondi a una cosa che essi rifiutano o addirittura disprezzano. La shoah fu il prodotto supremo della coercizione del totalitarismo. I modi e le forme del suo ricordo debbono mantenersene distanti. La memoria della shoah è intensa, non lieve. Quando venne finalmente bloccato, il piano di sterminio aveva già totalizzato sei milioni di uccisioni (spesso collettive), sei milioni di singole vite interrotte. Sei milioni di attimi di ricordo esulano dalle nostre capacità medie; per questo essi, pur restando individualmente lievi, assommandosi e fondendosi, si addensano e si intensificano.La memoria della shoah è rispettosa. Chiede che i suoi memori rispettino la memoria delle altre tragedie del Novecento. E chiede di essere essa stessa rispettata da chi si autodefinisce suo memore. Chi prova l'insopprimibile bisogno di “metterla in serie” con il trattamento omicida attuato dallo Stato sovietico contro gli oppositori politici o dal nazionalismo jugoslavo contro gli “italiani” alla fine della guerra, si vergogni. E altrettanto faccia chi sente l'insopprimibile bisogno di definire seccamente “nazista”, “sterminatrice”, Israele o la sua popolazione ebraica. E se non riescono a vergognarsi, provino cortesemente per un giorno a tacere; grazie. Come ogni memoria di un evento triste, dovrebbe essere discreta. Ciò in effetti è reso difficile dalla stessa esistenza della legge che ne riconosce l'importanza. Diciamo quindi che non deve essere sfacciata: il dolore e il compianto per le vittime, e la riflessione sul pensare e sull'agire dell'uomo necessitano un contesto non esagerato, non gridato. Infine, la memoria della shoah non può non essere onesta. Come è noto, la deportazione degli ebrei d'Italia fu attuata dapprima per decisione autonoma dell'occupante tedesco, e successivamente in forza di un accordo - scritto o tacito - tra il Terzo Reich di Adolf Hitler e la Repubblica Sociale Italiana di Benito Mussolini: ebbene, i tanti italiani che oggi plaudono all'adesione propria o altrui alla RSI (come il ministro Mirko Tremaglia, o i senatori in procinto di votare una legge in onore dei militari repubblichini) sono esentati d'ufficio dal prendere parte al nostro impegno di memoria. La loro, sarà una presenza ipocrita, falsa, intollerabile per una memoria della shoah necessitante sincerità, civiltà, umanità.

Da l'Unità, 25 gennaio 2005, per gentile concessione


Ricordare Auschwitz, la Lega vota contro

I leghisti non firmano la risoluzione dell’Europarlamento: non vogliono che si parli di antisemitismo

di Sergio Sergi

BRUXELLES La Lega non ha firmato la risoluzione del Parlamento Europeo nel 60° dell'olocausto. È il dato politico che risalta in Europa nel «giorno della memoria» mentre l'aula di Bruxelles si appresta a discutere (dibattito questa sera, voto domani mattina) un documento unitario sottoscritto da tutti gli altri gruppi (Pse, Ppe, Alde, Verdi, Gue e la destra dell' Uen). E, dopo il voto, tutti i capigruppo accompagneranno il presidente Josep Borrell alla cerimonia di Auschwitz. I leghisti sono fuori: reduci da una gazzarra contro la Costituzione, con Borghezio in prima fila che accusava l'Ue di essere come un Soviet, gettano nell'imbarazzo i loro alleati di governo in Italia. C'è di più: come denuncia Nicola Zingaretti, presidente della Delegazione italiana nel Pse, la Lega blocca da due anni la «Decisione quadro per la lotta contro il razzismo e la xenofobia». «Ci indigna ma non ci sorprende la decisione della Lega di non firmare - dice Zingaretti - ma le forze politiche della maggioranza dovrebbero dissociarsi e dare istruzioni al ministro Castelli di annullare il boicottaggio in sede europea». Il provvedimento europeo giace nei cassetti da svariati mesi, nonostante l'impegno dell'ex commissario Antonio Vitorino. Un provvedimento invano evocato, sollecitato dalle denunce contenute nei rapporti annuali dell'Osservatorio europeo di Vienna. Per il governo italiano il problema si fa ancora più imbarazzante: l'Italia rischia di apparire, come dichiara Lapo Pistelli della Margherita, la «pecora nera dell'Europa», di fronte al vice presidente della Commissione, Franco Frattini, già ministro degli Esteri, che si pronuncia per un immediato sblocco del negoziato sulla «Decisione quadro» contro il razzismo. Frattini, che è il responsabile del settore Giustizia, Libertà e Sicurezza dell'esecutivo Barroso, esalta il ruolo dell'Europa in questa battaglia e annunzia tempi celeri per l'istituzione dell'Agenzia dei diritti fondamentali. «Si tratta - sottolinea - di uno strumento per difendere ma anche per promuovere i diritti fondamentali». Il commissario censura con forza anche gli atteggiamenti che inneggiano al fascismo e al nazismo affermando, per esempio, che il saluto romano del giocatore della Lazio, Paolo Di Canio, è tra quelli che «dovrebbero essere banditi nell'Unione europea». Nell'Ue sta anche prendendo corpo l'ipotesi di interdire tutti i simboli che richiamino il nazismo o, quantomeno, tutte le manifestazioni che inneggiano alla barbarie. La risoluzione sul 60° dell' olocausto sarà, dunque, approvata dalla stragrande maggioranza del Parlamento e si preoccupa di sollecitare tutti i Paesi dell'Unione e le istituzioni a tenere alta la guardia contro i tentativi di un ritorno dell'antisemitismo. Nella stessa risoluzione c'è un aperto riferimento alla vicenda della «Decisione» europea sul razzismo e la xenofobia. Il Parlamento sostiene l'impegno della presidenza di turno Ue, retta dal Lussemburgo, per una ripresa del confronto, bloccato da due anni, sul testo del provvedimento. Una serie di governi ha manifestato, in passato, alcune critiche al provvedimento ma la posizione più irremovibile, che ha condotto alla sospensione dell'iter legislativo, è stata quella del leghista Castelli, il quale ha sostenuto che la «Decisione» europea potrebbe essere un'arma per i nemici politici della Lega. In un testo presentato mesi orsono al Consiglio dei ministri Ue, il Guardasigilli Castelli chiedeva che le manifestazioni individuate nel provvedimento come espressione di sentimenti razzisti e xenofobi, non fossero sottoposte a sanzione se avessero costituito la «legittima manifestazione della libertà di opinione e di espressione». Il confronto in sede di Consiglio si è, di conseguenza, arenato proprio sullo scoglio "delle possibili sanzioni da comminare per il reato di razzismo e xenofobia. Sanzioni che avrebbero fatto parte del provvedimento che gli Stati, una volta varata la Decisione, si sarebbero impegnati a recepire nei rispettivi ordinamenti.


Bufera su Fini: non smentisce il fascista Gramazio

Il ministro tace sull’assoluzione del regime per le leggi razziali. Centrosinistra e Comunità attaccano

di Mariagrazia Gerina

ROMA - Una telefonata a tarda notte, dalla comunità ebraica di Roma a Fini: «È cambiato qualcosa dal novembre del 2003?». Seguita da una intera giornata, in cui il presidente di An, l'autore della svolta di Fiuggi e dello "strappo" con il fascismo, ha ritenuto di non dover correggere il suo iscritto, Domenico Gramazio, ex parlamentare e tutt'ora politico di An, né le parole da lui pronunciate lunedì allo Yad Vashem: «Il fascismo non ha avuto responsabilità nello sterminio di massa degli ebrei, gli italiani tentarono di salvare molti ebrei, il regime fascista fece leggi razziste trascinato dall'accordo della Germania, l'Italia anche fascista non condivise queste leggi». Dichiarazioni rilasciate ai giornalisti dall'ex onorevole Gramazio, in Israele con una delegazione della Regione Lazio, appena terminata la visita al memoriale israeliano delle vittime della Shoah. Lo stesso luogo in cui Fini aveva parlato del fascismo come «male assoluto», di leggi razziali «volute dal fascismo», del «dovere di condannare le pagine vergognose che ci sono nella storia del nostro passato». E il dovere di condannare le pagine vergognose che continuano ad essere scritte ai nostri giorni? Su quelle, il presidente di An, specie se scritte da un membro del suo partito alla vigilia delle celebrazioni peri dieci anni dalla svolta di Fiuggi, preferisce tacere. «Non è necessario che Fini intervenga in questo caso», spiega il suo addetto stampa, Salvo Sottile: «Gramazio non ha un ruolo politico nazionale. È sufficiente Storace, che lo ha nominato, per replicare... Se fosse stato un deputato avremmo avuto mano pesante». E invece, trovata la scusa, meglio minimizzare. Salvo poi, affrontare la faccenda «responsabilità del fascismo» come una questione di correnti e scontri interni al partito. Di cui discutere in un faccia a faccia in Transatlantico con il suo vice, Altero Matteoli. O di cui chiedere conto al presidente del Lazio, Francesco Storace, in una telefonata dai toni accesi. E liquidatori: «Insomma, con Gramazio te la devi vedere tu...». «Attendendo una presa di distanza da parte del presidente Storace», attacca inta­to il candidato del centrosinistra alla presidenza del Lazio Piero Marrazzo: «Ritengo inaccettabile che, ancora oggi, esponenti politici esprimano giudizi del genere. Anche se, francamente, da una certa destra questi tipo di affermazioni me le aspettavo...». Alle 16.25, il leader della Destra sociale, esegue l'ordine di Fini: «Non sarà Gramazio a farmi cambiare idea: che l'Italia negli anni del fascismo abbia conosciuto la vergogna delle leggi razziali e delle deportazioni è indubitabile», dichiara Storace alle agenzie. Tutta qui la smentita affidata dal presidente di An proprio all'organizzatore della convention antistrappo, quando all’indomani del viaggio in Israele, il presidente del Lazio convocò all'Hotel Hilton di Roma gli scontenti di Fini e gli ironici sul suo viaggio («con quella kippà in testa sem­brava uno di loro»). In prima fila, Domenico Gramazio, che si riconobbe perfetta­mente nelle rivendicazioni di Storace. Adesso invece si ritrova accomunato a Fini nel silenzio: nemmeno da lui nessuna smentita di quanto dichiarato. «La faccenda però non si può chiudere così», replica il rabbino di Roma Riccardo Di Segni, anche lui di ritorno da Israele con la stessa delegazione di Gramazio. «Chiederemo le dimissioni di Gramazio». Per Carlo Leoni, deputato Ds, le tesi di Gramazio sono «l’ennesima prova del fatto che la famosa svolta di Fiuggi non fu altro che una opportunistica mascherata che lasciò intatta la subcultura totalitaria e nostalgica del vecchio Msi».


Gli ebrei italiani in Israele: «Se Fini non parla è complice»

Sconcerto e indignazione tra i seimila appartenenti alla Comunità per le dichiarazioni di Gramazio. Tutti chiedono al ministro degli Esteri di prendere posizione.

u.d.c.

Quel silenzio assordante scuote Gerusalemme e provoca sconcerto e indignazione fra i seimila ebrei italiani in Israele. Un anno fa la comunità si divise sull’opportunità di ricevere il presidente di An, Gianfranco Fini, in visita in Israele. Un dibattito sofferto, a tratti lacerante, che portò la Comunità a incontrare il leader di An non nella antica Sinagoga di Gerusalemme ma in un luogo meno solenne e impegnativo. Quel dibattito si chiuse con un sospiro di sollievo da parte dei seimila italiani («perché - racconta il presidente della Comunità David Cassuto - il suo strappo apparve sincero, ma alla luce di affermazioni come quelle di Gramazio, oggi ci chiediamo se la voce di Fini è solitaria in un partito che non ha capito nulla». Parole gravi, quelle di Cassuto, scampato ad Auschwitz insieme alla famiglia. Domande, le sue, che restano senza risposta. Le affermazioni dell' ex parlamentare di An riaprono nella comunità di ebrei italiani, la maggior parte giunta in Israele tra il 1938 e il 1940 per sfuggire al fascismo, una ferita che si stava rimarginando. E la presa di posizione è durissima. «Nessuno di noi - sostiene decisa Angela Polacco, la stessa guida turistica che un anno fa accompagnò Fini, e l'altro ieri Gramazio, a Yad Vashem, il memoriale della Shoah di Gerusalemme, il Luogo della Memoria di un popolo che non vuole, non può dimenticare - si era illuso che quella frangia di An, nostalgici di Salò, come Storace, Tremaglia e Gramazio, avrebbe cambiato idea sul collaborazionismo dell'Italia nella Shoah. Quello che mi indigna è che Fini, che ha rivisto il percorso della storia e del suo partito, ammetta nostalgici di Salò dentro An». A Gramazio, per il quale «l'Italia fascista non condivise le leggi razziali», Angela Polacco replica citando storici e ricerche di archivio. «Le dichiarazioni dei nostalgici sono smentite da storici come De Felice e Sarfatti, che hanno documentato ampiamente il collaborazionismo dell'Italia. E poi basta citare l'ordine di polizia numero 5, che divenne legge il 30 novembre del 1943, la cosiddetta carta di Verona, che afferma che gli ebrei sono considerati nemici dello Stato da perseguire ed arrestare, e che in un altro punto impone la confisca di proprietà e di beni». «Tutto questo ­ conclude Angela Polacco - è avvenuto e chi sostiene il contrario dice il falso». Le affermazioni di Gramazio sono una vergogna - incalza Cassuto, che è stato vice sindaco di Gerusalemme - e sta a Fini richiamare all'ordine queste persone. Altrimenti perde valore non quello che l'uomo Fini ha detto, ma quello che ha detto come leader di An». Chi non si fa illusioni è Zeev Sternhell, docente all'Università Ebraica di Gerusalemme, studioso di fama mondiale della destra fascista in Europa: «Sul piano culturale, nella sua parte militante, An era e resta l'erede del Movimento sociale italiano, il partito che rivendicava la propria continuità con la Repubblica sociale di Salò», dice a l'Unità Sternhell. A Tel Aviv vive anche il fratello del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. «Quando Fini venne in Israele - ricorda Samuele Di Segni, cardiologo e da 30 anni in Israele - ci fu un lungo e tormentato dibattito interno e io sono tra quelli che andò ad accoglierlo. Fini ha fatto un percorso, la comunità lo ha accolto, ma affermazioni come quelle di Gramazio creano molta emozione e imbarazzo dentro la nostra comunità».


Non dimenticare. Mai (Meditate che questo è stato)

di Francesco Rosi

La tregua è lo straordinario racconto dell’odissea del ritorno alla vita di un gruppo di esseri umani scampati all’inconcepibile disegno nazista dello sterminio preordinato, scientifico, di ebrei, zingari, omosessuali, malati, politici - contro, e di quanti da essi nazisti, ritenuti «diversi» dalla purezza della razza ariana. Fui tentato di farne un film fin dal primo apparire del libro, nel 1963, ma era forse troppo presto. Ci ripensai ancora, questa volta più decisamente, nel 1987, quando di Olocausto si parlava poco e nessuno faceva film sull’argomento. Telefonai a Primo Levi, gli chiesi il libro, ne fu felice, la cosa mi riempì d’orgoglio e di responsabilità. Mi disse testualmente che la mia proposta «gli portava un po’ di luce in un momento molto buio della sua esistenza». Una settimana dopo moriva nella maniera tragica che sappiamo. La morte di Levi, la difficoltà di trovare adesioni a un tema che allora suscitava perplessità, mi obbligarono a rimandare. Realizzai intanto due film, ma non abbandonai l’idea, spinto da una sorta di muta parola scambiata tra me e Levi, che mi rendeva più giustificata la mia persistenza nel progetto. Nel 1989 cadde il muro di Berlino: la speranza di una ritrovata fraternità e gli avvenimenti che hanno poi sconvolto la ex Jugoslavia mi fecero apparire il mio progetto ancora più attuale e utile. Philip Roth, il grande scrittore americano, in un’intervista a Primo Levi sul New York Times dell’ottobre del 1986 scrive: «Ciò che sorprende nella Tregua - che avrebbe potuto, e comprensibilmente, essere stata improntata a lutto, a una inconsolabile disperazione - è l’esuberanza, la tua riconciliazione con la vita si compie in un mondo che a tratti pareva simile al caos primordiale. Eppure, tu vi appari straordinariamente interessato a tutto, pronto a ricavare da tutto divertimento e cultura, al punto che mi sono domandato se, nonostante i ricordi, davvero tu abbia vissuto mesi migliori di quelli che definisci “una parentesi di disponibilità illimitata, un provvidenziale ma irripetibile regalo del destino”». Ecco, io ho voluto mantenere nel film la memoria dell’orrore di Auschwitz assieme alla speranza e alla naturale vitalità del ritorno alla vita. E ho voluto raccogliere il monito di Primo Levi rivolto a tutti e in special modo ai giovani, di non dimenticare. MAI. Il mio film si chiude con l’esortazione di Primo Levi: «Meditate che questo è stato».

Da l'Unità, 26 gennaio 2005, per gentile concessione


Noi ricordiamo

di Furio Colombo

Oggi, Giorno della Memoria, i lettori dell'Unità trovano compiegate con questo quotidiano le pagine di due giornali italiani dell'estate del 1938, ovvero alcuni mesi prima della promulgazione delle leggi anti ebraiche e della espulsione degli italiani ebrei da tutte le attività e la vita del Paese. Abbiamo riprodotto la prima pagina del «Popolo d'Italia», il giornale fondato da Mussolini, che ha questo titolo, che è anche una rivendicazione e un vanto: «Il razzismo italiano data dall'anno 1919 ed è base fondamentale dello stato fascista. Assoluta continuità della concezione mussoliniana» (6 agosto 1938). Ci è sembrato importante anche riprodurre la prima pagina de «La Stampa» (31 luglio 1938) in cui il titolo a prima pagina è «Anche nella questione della razza noi tireremo diritto». Si legge nel breve testo che segue intitolato «Testuali parole»: «Dire che il fascismo ha imitato qualcuno o qualcosa è semplicemente assurdo». In queste due pagine il regime fascista, nella sua peggiore incarnazione di persecutore di cittadini italiani, smentisce con decenni di anticipo coloro che penosamente sostengono, ai nostri giorni, che il fascismo non è stato uno dei due grandi protagonisti della Shoah, insieme alla Germania nazista. La Shoah - come si può vedere e capire in una grande mostra aperta in questi giorni a Roma, presso il Vittoriano (e da cui abbiamo tratto «La Stampa» e «li Popolo d'Italia» del 1938) - non avrebbe mai potuto cominciare se leggi razziali ossessive, totali e durissime, come quelle approvate all'unanimità da Camera e Senato italiani, non si fossero saldate con quelle tedesche, diventando orrendo modello di persecuzione in tutta l'Europa occupata. Con questo numero de «l'Unità» c'è anche il volume «Voci della memoria», una antologia di documenti e testimonianze che potrà essere utile agli insegnanti costretti ad affrontare da soli, senza sostegni della scuola e senza sussidi, i ricordi di questa giornata. Le pagine così crudelmente esplicite di due giornali fascisti, in pieno domi­nio del regime, e il volume ci servono per ripetere qui, a coloro che fingono di non sapere o di non sentire che, quando si parla di Shoah, richiamare altri crimini e orrori esecrabili accaduti altrove nella Storia (le Foibe, i Gulag) è solo un espediente per allontanare il discorso dal fascismo. La Shoah infatti è un delitto italiano, un delitto che, senza la fervida collaborazione fascista, non avrebbe potuto raggiungere un tale livello di sterminio in Europa. È questo delitto italiano - acclamato all'unanimità nel Parlamento e dai cosiddetti grandi statisti di allora - che oggi si ricorda con dolore inguaribile nelle scuole e nelle istituzioni italiane. Lo si ricorda insieme al delitto di perseguitare ed eliminare gli avversari politici, nel periodo più buio della Storia contemporanea italiana. Per questo, e per impedire che malattie mortali come il fascismo possano riprodursi, anche attraverso lo stravolgimento della verità e la negazione dei fatti, che esiste il "Giorno della Memoria", 27 gennaio, il giorno in cui sono stati abbattuti i cancelli di Auschwitz e il mondo ha cominciato a scoprire l'orrore della persecuzione nazista e fascista, tedesca e italiana.


LA STAMPA – 31 LUGLIO 1938

“Anche nella questione della razza noi tireremo diritto” - Il duce a Forlì a un gruppo di federali

Testuali parole

Forlì, 30 luglio

Stamane, alle ore 8, il Duce è sceso dalla Rocca delle Caminate a Forlì per visitarvi il Campo dei Graduati Avanguardisti. Erano ad attenderLo all’ingresso del Campo il Ministro Segretario del P.N.F., il Prefetto e il Federale di Forlì, il Comandante del Campo, altre autorità cittadine e un folto gruppo di Federali dell’Alta Italia. Dopo essersi intrattenuto coi Federali di Trieste, Gorizia, Udine, Modena e Bolzano, il Duce ha assistito allo sfilamento dei reparti al passo romano di parata perfettamente eseguito. Prima di lasciare il Campo, il Duce ha riunito attorno a Sé il gruppo dei Federali e ha detto loro queste testuali parole:

            «Sappiate ed ognuno sappia che anche nella questione della razza noi tireremo diritto. Dire che il Fascismo ha imitato qualcuno o qualcosa è semplicemente assurdo».

Il Duce si è quindi recato al vicino Campo di aviazione e, pilotando il Suo trimotore, ha sorvolato il litorale adriatico.


IL POPOLO D’ITALIA – 6 AGOSTO 1938

Il razzismo italiano data dall’anno 1919 ed è base fondamentale dello Stato fascista

Una nota della “Informazione Diplomatica”

Azione coordinata e risoluta di tutti gli organi del Regime

Roma, 5 agosto

L’«Informazione Diplomatica», nella sua nota odierna n. 18, pubblica quanto segue:

Negli ambienti responsabili romani si fa notare che molte delle impressioni e deduzioni estere sul razzismo italiano sono dettate da una superficiale cognizione dei fatti e in qualche caso da evidente malafede. In realtà il razzismo italiano data dal 1919, come potrebbe essere documentato. Mussolini nel discorso al Congresso del Partito tenutosi a Roma nel novembre del 1921 – ripetiamo 1921 – dichiarò esplicitamente: «Intendo dire che il Fascismo si preoccupi del problema della razza: i fascisti devono preoccuparsi della salute della razza, con la quale si fa la storia». Se il problema rimase per alcuni anni allo stato latente, ciò accadde perché altri problemi urgevano e dovevano essere risolti. Ma la conquista dell’Impero ha posto in primissimo piano i problemi chiamati complessivamente razziali, la cui conoscenza ha avuto drammatiche, sanguinose ripercussioni, sulle quali non è – oggi – il momento di scendere in particolari. Altri popoli mandano nelle terre dei loro Imperi pochi e sceltissimi funzionari; noi manderemo in Libia e in Africa Orientale Italiana – coll’andare del tempo e per assolute necessità di vita – milioni di uomini. Ora, a evitare la catastrofica piaga del meticciato, la creazione cioè di una razza bastarda, né europea né africana, che fomenterà la disintegrazione e la rivolte, non bastano le leggi severe promulgate e applicate dal Fascismo; occorre anche un forte sentimento, un forte orgoglio, una chiara onnipresente coscienza di razza. Discriminare non significa perseguitare: questo va detto ai troppi Ebrei d’Italia e di altri Paesi, i quali Ebrei lanciano al cielo inutili lamentazioni, passando con la nota rapidità dall’invadenza e dalla superbia all’abbattimento e al panico insensato. Come fu detto chiaramente nella nota n. 14 dell’«Informazione Diplomatica» e come si ripete oggi, il Governo fascista non ha alcun speciale piano persecutorio contro gli Ebrei in quanto tali. Si tratta di altro. Gli Ebrei in Italia, nel territorio metropolitano sono 44 mila secondo i dati statistici ebraici, che dovranno però essere controllati da un prossimo speciale censimento. La proporzione sarebbe quindi di un Ebreo su mille Italiani. È chiaro che, d’ora innanzi, la partecipazione degli Ebrei alla vita globale dello Stato dovrà essere adeguata a tale rapporto. Nessuno vorrà contestare allo Stato fascista questo diritto, e meno di tutti gli Ebrei, i quali – come risulta in modo solenne anche dal recente manifesto dei rabbini d’Italia – sono stati sempre e ovunque gli apostoli del più integrale, intransigente, feroce e, sotto un certo punto di vista ammirevole, razzismo; si sono sempre ritenuti appartenenti a un altro sangue, a un’altra razza, e si sono autoproclamati «popolo eletto» e hanno sempre fornito prove della loro solidarietà razziale, al disopra di ogni frontiera. E qui non vogliamo parlare dell’equazione, storicamente accertata in questi ultimi venti anni di vita europea, fra ebraismo, bolscevismo e massoneria. Nessun dubbio quindi che il clima è maturo per il razzismo italiano, e meno ancora si può dubitare che esso no diventi – attraverso l’azione coordinata e risoluta di tutti gli organi del Regime – patrimonio spirituale del nostro popolo, base fondamentale del nostro Stato, elemento di sicurezza per il nostro Impero.

Documento definitivo

Roma 5 agosto

L’odierna nota dell’Informazione Diplomatica ha il valore di un documento fondamentale e definitivo alle precisazioni del razzismo italiano. Anzitutto l’opportuno richiamo alle dichiarazioni di Mussolini nel congresso del Partito tenutosi a Roma nel 1919 conferma l’assoluta originalità del pensiero fascista sul problema della razza. Nessuna imitazione quindi e nessuna improvvisazione. Alle dichiarazioni del 1921 altre seguirono negli anni successivi dello stesso Mussolini sull’argomento; e con le dichiarazioni vi furono previdenze concrete, che rivelano in sedici anni di Regime il proposito costante e fermissimo di difendere e potenziare le virtù essenziali della razza italiana. Si può dunque affermare che, anche in questo campo, l’azione fascista ha preceduto la formulazione dottrinale sulla quale più decisamente oggi punta il Regime coll’intento di «tirare diritto» anche in questa questione. Se oggi il problema viene posto in primo pian o e agitato davanti alla coscienza degli Italiani è perché un fatto nuovo si è verificato nella storia della Nazione: la creazione dell’Impero, avvenimento di portata grandiosa, per il quale l’Italia, non con una minoranza di funzionari, ma con masse imponenti del suo popolo lavoratore, viene a diretto contatto con altre razze. Misure energiche sono state adottate tempestivamente per evitare che questi contatti portino alla «catastrofica piaga del meticciato». Ma le misure non bastano se non sono assecondate nella coscienza del popolo da un chiaro e fermo orgoglio di razza. D’altra parte la prima consegna che ci viene dall’alto subito dopo il glorioso epilogo della campagna etiopica fu: «agire sul piano dell’Impero» e «creare una coscienza imperiale». Una siffatta coscienza si forma soltanto se si ha un consapevole orgoglio della propria razza. La storia dimostra che gli imperialisti furono anzitutto degli implacabili razzisti perché l’imperialismo è espansione spirituale più che politica e mercantile, cioè affermazione di una civiltà su un’altra o fra le due. Per quanto riguarda gli Ebrei, esclusa ogni intenzione persecutoria da parte del Fascismo, resta e si afferma un elementare problema di proporzione. Essi sono – secondo i dati statistici da loro stessi forniti – 44.000, cifra che l’annunziato censimento potrà modificare, ma non mai elevare a tal segno da alterare sostanzialmente il rapporto coi 44 milioni di cittadini di razza italiana. Gli Ebrei residenti in Italia dovranno pertanto adattarsi a una partecipazione materiale e spirituale alla vita del Paese che non ecceda in nessun caso quel rapporto. Minoranza esigua, essi dovranno restare minoranza in tutti i campi dell’attività nazionale e non mai soverchiare numericamente i cittadini di razza italiana. L’uno per mille nella statistica della popolazione dovrà restare l’uno per mille ovunque gli Italiani esercitino una qualsiasi attività. Così impostato il problema è immune, come si vede, da qualsiasi influenza esterna. Siamo testualmente all’impostazione delineata in una precedente nota dell’Informazione Diplomatica, sintesi a sua volta di un pensiero – quello mussoliniano – che, in questa come in ogni altra materia, è di una coerenza lineare mai smentita. L’assenza di qualsiasi influenza straniera nelle direttive razzistiche del regime è, del resto, palese – come dicevamo – non soltanto nella parte che riguarda gli Ebrei. Anche per gli altri problemi connessi alla valorizzazione e alla difesa della razza italiana la parola di Mussolini si è levata alta e forte sin dal lontano 1917 e solo gli immemori per quieto vivere hanno potuto fingere di essere stati colti di sorpresa dalle recenti dichiarazioni. È la conquista dell’Impero che ha imposto di accelerare i tempi. Sino alla vigilia della partenza delle nostre truppe per l’A.O. l’affermazione di un’unità etnica oltreché spirituale del popolo italiano poteva bastare; ma dal momento in cui le truppe e i coloni italiani venivano a contatto con altri elementi razziali occorreva una difesa più concreta che, basandosi su quella incontrovertibile realtà proclamata, preservasse la razza italiana da contatti che avrebbero dato luogo a mescolanze di sangue che nessuno oserebbe in buona fede auspicare ai fini della civiltà. È dunque da sud e non da nord che è venuto il richiamo a un’intensificazione della politica fascista della razza, inconfondibile nei suoi tratti caratteristici come nelle sue ragioni determinanti.

Assoluta continuità della concezione mussoliniana

La raccolta degli scritti e dei discorsi del Duce costituisce una documentazione precisa del pensiero mussoliniano a riguardo del problema della razza. Per rendersene conto basta anche una rapida e breve citazione di passi. Lo facciamo mantenendo l’ordine cronologico perché ne risulti con maggior evidenza la continuità della concezione mussoliniana.

Ariani e mediterranei

La prima affermazione di orgoglio di razza il Duce la fa sin dal 1917, in un’ora grave per il Paese impegnato nella guerra. Egli dice:

… il dolore ci percuote, ma non ci abbatte. Ci forgia. Qui si rivela la nobiltà della nostra stirpe. Tutta l’Italia oggi è un cuore solo. Tutto si riduce alla nostra qualità fondamentale e gloriosa di Italiani.

Nel 1921 Mussolini precisa il suo pensiero sui valori della stirpe ariana, quando parlando della genesi del Fascismo dice tra l’altro:

… è nata da un profondo, perenne bisogno di questa nostra stirpe ariana e mediterranea, che a un dato momento si è sentita minacciata nelle ragioni essenziali dell’esistenza da una tragica follia e da una favola mitica che oggi crolla a pezzi nel luogo stesso ove è nata.

E nel 1922, nella ricorrenza del 21 aprile:

… celebrare il Natale di Roma significa celebrare il nostro tipo di civiltà, significa esaltare la nostra storia e la nostra razza, significa poggiare fermamente sul passato per meglio slanciarsi verso l’avvenire.

L’anno seguente Mussolini ribadisce il concetto dell’orgoglio di razza quando riguarda:

Noi eravamo grandi nel 1300, quando gli altri popoli erano mal vivi o non erano ancora nati alla storia. Seguono i secoli superbi: il Rinascimento. L’Italia dice ancora una volta la parola della civiltà a tutte le razze, a tutti i popoli.

E questo orgoglio riafferma solennemente nel 1924, parlando al popolo di Catania:

Per la purezza della razza

Nel 1926, il Duce rivolge al popolo italiano un severo monito perché la razza non venga a perdere la sua purezza. Egli dice:

Sono le classi più alte della società, le prime a infrancesarsi, inglesizzarsi, a americanizzarsi, a prendere i costumi degli altri popoli, spesso la psicologia, molto spesso i difetti. Le classi umili, quelle che sono radicate alla terra, quelle che sono sufficientemente barbare per non apprezzare tutti i vantaggi del cosiddetto comfort moderno, sono quelle che restano attaccate disperatamente alla loro patria di origine.

Un anno dopo egli così afferma il dovere dello Stato a provvedere all’educazione fisica del popolo:

Qualcuno in altri tempi ha affermato che lo Stato non doveva preoccuparsi della salute fisica del popolo. Anche qui doveva valere il manchesteriano «lasciar fare, lasciar correre». Questa è una teoria suicida. È evidente che in uno Stato bene ordinato la cura della salute fisica del popolo deve essere al primo posto.

Ancor più nettamente il Duce esprime il suo pensiero nel 1934:

L’Italia ha il privilegio di essere la Nazione più nettamente individuata dal punto di vista geografico: la più compattamente omogenea dal punto di vista etnico, linguistico, morale …La potenza militare dello Stato, l’avvenire e la sicurezza della Nazione sono legati al problema demografico, assillante in tutti i Paesi di razza bianca e anche nel nostro. Bisogna riaffermare ancora una volta e nella maniera più perentoria, e non sarà l’ultima, che condizione insostituibile del primato è il numero.

E ancora nello stesso anno, parlando in occasione dell’apertura di via dei Trionfi:

… voi atleti avete avuto il meritato onore di inaugurato una delle più belle strade di Roma e quindi del mondo. Chi vi ha visti sfilare ha avuto la profonda e quasi plastica impressione della nuova razza che il Fascismo sta virilmente foggiando e temprando per ogni competizione.

Nel 1935, parlando brevemente ai bonificatori, Mussolini dice:

… siete voi che rappresentate la razza, nel suo significato più profondo e immutabile. Voi non fate i matrimoni misti: i vostri amori non escono dalla cerchia del villaggio o, tutt’al più, dalla provincia. E quindi, quando arrivano le grandi crisi dei popoli, voi non avete dei problemi familiari da risolvere. È anche per questo, non soltanto per questo, che io vi addito alla profonda gratitudine di tutta la Nazione.

L’anno seguente (1936) Mussolini torna a riaffermare, col principio della razza italiana, la sua inscindibilità dalla terra. Rivolto ai rurali d’Italia dice:

Questo saluto va a tutti i rurali italiani, a tutti i contadini d’Italia, a tutti coloro che lavorano la terra, e che per questo fatto mi sono particolarmente vicini. Poiché la terra e la razza sono inscindibili e attraverso la terra si fa la storia della razza e la razza domina e sviluppa e feconda la terra.

Il problema della razza appare ora, con la conquista dell’Impero, sempre più attuale e inderogabile. Dice Mussolini:

Hanno diritto all’Impero i popoli fecondi, quelli che hanno l’orgoglio e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia della terra, i popoli virili nel senso più strettamente letterale della parola.

E al concetto della razza il Duce accomuna la missione civilizzatrice di Roma. Sin dal 1922 egli afferma:

… Roma è sempre, e domani e nei millenni, il cuore potente della nostra razza. È il simbolo imperituro della nostra vitalità di popolo.


AUSCHWITZ IL NOSTRO ORRORE

Auschwitz, nei campi anche per gli smemorati – Mezzo milione di persone viene qui ogni anno perché non vuole dimenticare

di Gianni Marsilli

AUSCHWITZ «...E poi, ogni tanto, arriva qui "some very special people", gente Un po' particolare». Esita un momento, la nostra guida. Come se non volesse aprire un capitolo imbarazzante, delicato. Ma continua: «Sono quelli che non ci credono. Non credono che lo sterminio ci sia stato». Negazionista, insomma. Ma non intellettuali, non topi di biblioteca con l'ossessione di riscrivere la storia. No, visitatori normali. Lucas, la guida, si ricorda di un autista di bus londinese, di un commerciante svizzero. Gente così, all'inizio chiacchierona e con l'aria di saperla lunga: «No, spesso non direi, ma un paio di volte l'anno mi capita qualcuno del genere. Cosa dicono? Mah, direi che si dividono in due categorie. Quelli che pensano che tutto ciò sia stato messo in piedi per fame un richiamo turistico, una specie di Disneyland della seconda guerra. Non credono a nulla, per loro tutto ciò è artificiale, falso. Altri invece ammettono che ci sia stato un campo di prigionia, magari anche duro, ma che si sia esagerato nella ricostruzione della storia. I forni crematori? Una necessità pratica, quasi una misura d'igiene. Ci si capisce al volo, quando arrivano. Due battute, una frase e da quel momento non si comunica più. Si mescolano agli altri con lo sguardo scettico, le mani dietro la schiena. Ascoltano silenziosamente irridenti». Siamo ad Auschwitz l, tra l'edificio in mattoni rossi numero 10 e quello numero 11. In mezzo, il muro dei fucilati. Almeno fino al '42, quando i nazisti decisero che lo Zyklon B costava meno delle pallottole. In attesa del gas provvidenziale, si è calcolato che circa 20mila persone siano state giustiziate in questa specie di cortile, dove si affaccia quella che era «la prigione» nella prigione chiamata Auschwitz, la baracca 11: soprattutto prigionieri russi, resistenti polacchi. Per gli ebrei non c'era bisogno di processo. Nello stanzone all'ingresso a sinistra sedeva la corte, con tanto di giudice (Lucas assicura che vive ancora, che ha 98 anni, che era un fine giurista già negli anni ’30, che chiama Himmler, che non è mai stato disturbato) che sparava sentenze a raffica. A fianco gli spogliatoi dei condannati, rimasti intatti, e la porticina dalla quale si accedeva al cortile, due passi e si era faccia al muro, pratico e rapido. Sotto, le celle per torturare, i gabbiotti per punire: in piedi per giorni, senz'aria né cibo né acqua. A due passi, la baracca che ospitava il dottor Carl Clauberg, ginecologo. Sperimentava metodi di sterilizzazione femminile. Aveva anche uno studio a una 50 km da qui, nella zona c'è ancora chi se lo ricorda. Ad Auschwitz operava con il dottor Mengele, al quale qualche centinaio di bambini deve la vita: erano gemelli, e Mengele li voleva per le sue alchimie di laboratorio. Tanto peggio per gli altri 200mila, passati per il camino. Oggi ad Auschwitz nevi­ca, i passi dei pochi visitatori non si sentono, il campo si stacca netto in tutti i suoi dettagli dal biancore silente nel quale è immerso. Non occorre chiudere gli occhi per immaginare. Non credono, quei pochi che Lucas individua subito, neanche davanti alle due tonnellate di capelli ancora lì, esposti in una vetrina che corre per trenta interminabili metri, e neanche davanti ai tappeti lunghi e stretti che i tedeschi ne ricavavano. Lavabili e resistenti, pare. Non credono neanche davanti alla montagna di scarponi - aperte eleganti col tacco, sandali, scarpine per bambini. Non credono neanche davanti al cumulo di valigie con le quali in tanti erano venuti, quasi tutti ebrei, convinti della provvisorietà di quel viaggio. Duemila e passa chilometri per arrivare ad Auschwitz, scendere sulla rampa ormai famosa, passare la selezione e, se scartati dall'abilità al lavoro, andare dritti nelle docce dove invece dell'acqua veniva fuori lo Zyklon B e poi da lì nel forno crematorio. Come Hana Klaubauf, il cui nome qualcuno aveva scritto sulla valigia assieme alla data di nascita: 13 dicembre 1941. Non credono neanche davanti ai contenitori di Zyklon B: cinque marchi l'uno costavano, era un gas a poco prezzo. Tanto che negli angoli delle docce, lì dove ne arrivava solo qualche frammento, c'era un sacco gente che non moriva subito. Non credono. E chissà, magari hanno un fremito di disappunto ,davanti al patibolo di Rudoloh Hoess, il comandante del campo, che qui fu impiccato il 7 aprile del ’47 dopo essere stato processato a Varsavia da un tribunale polacco (non a Norimberga da una corte internazionale, quindi come se i suoi crimini fossero stati consumati solo contro il popolo polacco) magari vorrebbero fare come quelle mani ignote che per anni qui deposero dei fiori in sua memoria, tutto attorno alla corda alla quale finì appeso. Hoess viveva con la famiglia in una bella casa un po’ più in là, dietro il filo spinato elettrificato. A fianco del patibolo, il primo edificio che fu adibito alla gasificazione collettiva: ci stavano fino a settecento, nudi in quella stanza con quattro aperture nel soffitto per infilarci il gas. Poi finivano subito nei forni attinenti,  che però ne cremavano non più di trecento al giorno. Per questo, dopo Wansee, fu necessario costruirne di più larghi e potenti, a tre chilometri da lì: Auschwitz Birkenau. Cielo di piombo, neve a perdita d’occhio. L’occhio si perde guardando Auschwitz Birkenau. Si perde il senso del tempo, perché quei binari che portano laggiù verso quel filare di pioppi sono gli stessi che hai visto in tante fotografie. Si perde l’ultimo senso del decoro, davanti a tutti quei buglioli uno accanto all’altro nella baracca di legno, una delle mille, dove si aveva accesso due volte al giorno per i bisogni anche di duemila persone, e ti viene in mente l'estate di questa pianura schiacciata dal sole, la merda, le mosche, i tafani, e infatti ne morirono a decine di migliaia di tifo e dissenteria. Si perde il senso di ogni ragione, nell'efferata scientificità del tutto. Lucas, che è una guida eccellente - la giusta rispettosa distanza dal dolore di tanti, la giusta conoscenza tecnica, i giusti silenzi - spiega senza dovizia di particolari ma individuando i nodi strategici. Auschwitz che comincia come campo per prigionieri russi, che s'ingrandisce fino a 40 chilometri quadrati, che può isolarsi facilmente essendo in un triangolo tra due fiumi, che è un punto di convergenza per portarci gli ebrei da tutta Europa, stessa distanza da Oslo e da Salonicco, da Varsavia e da Vienna, che diventa il luogo scelto per compiere l'inimmaginabile: eliminare dalla faccia della terra gli ebrei e i gitani, gli unici qui uccisi in quanto tali, per pura scelta razzista. Ma quelli, quei pochi che capitano ogni tanto, non ci credono. E altri - più numerosi e rappresentativi: all'Onu, in Gran Bretagna, anche in Italia - ne rifiutano l'unicità storica, il martirio programmato. E altri ancora, come Domenico Gramazio, assolvono i complici politici di Himmler e Eichmann. Circa mezzo milione di persone all'anno viene in visita ad Auschwitz. I più numerosi sono i polacchi: fu qui che si compì il sacrificio di Maximilian Kolbe. Poi i tedeschi, gli americani, gli israeliani, i francesi. Le guide, quando arrivano gli ex deportati, avvertono di quel che si va a vedere. Non sono rare le crisi di pianto, i mancamenti davanti alle valige con i nomi stampati sopra, o alla distesa di capelli, o alla piazzetta dove avvenivano le esecuzioni «esemplari». Non solo tra i vecchi sopravvissuti, sono sopraffatti anche i più giovani, e capita che sia un'anziana con il numero tatuato a confortare una studentessa. C'è chi sostiene che l'idea di fare di Auschwitz un museo a imperitura memoria fu degli stessi deportati, già quand'erano dentro l'inferno. Fu dapprima il luogo della martirologìa polacca «e degli altri popoli», come stabilì la Dieta il 21uglio del 1947. Poi divenne un simbolo più internazionale e «antifascista» nel corso degli anni '50. Nell'aprile del '67 s'inaugura il monumento e per un'ora parla Josef Cyrankiewitz, ex deportato ed ex primo ministro polacco, senza mai nominare gli ebrei, implicitamente reclutati tra le vittime polacche: anche i 400mila ungheresi, gli olandesi, i tedeschi, gli italiani, i cechi e gli slovacchi, i belgi, i francesi,  i greci, norvegesi.  Si era alla vigilia della campagna antisemita del '68, seguita alla Guerra dei Sei Giorni. E ancora negli anni '80 ­dopo la memoria costruita dal regime comunista - si affrontarono la memoria cattolica polacca e quella mondiale ebraica: dall'84 un gruppo di carmelitane rompeva il silenzio dei luoghi con la loro preghiera, che agli occhi degli ebrei assumeva i tratti di una «cristianizzazione della Shoah». La memoria di Auschwitz si stava dolorosamente precisando. Oggi, 27 gennaio 2005, parleranno solo tre tra i cinquanta capi di Stato  di governo qui convenuti: nell'ordine, il presidente polacco Kwasniewski, quello russo Putin, quello israeliano Moshe Katsav. Fu per i resistenti polacchi che Auschwitz fu costruito, fu per sterminare gli ebrei che venne prescelto, fu dai russi che fu liberato. La battaglia della memoria, almeno per un momento, pare sopita.


Berlusconi parla dell’Olocausto e si dimentica di nazismo e fascismo

Giorno della memoria, confusione a destra. Fini corre ai ripari dopo le frasi di Gramazio: «Le leggi razziali? Si vergogni chi minimizza»

Mariagrazia Gerina

ROMA «Nazismo», «fascismo», sono parole che Berlusconi non ama pronunciare nemmeno alla vigilia della giornata della memoria. Nella dichiarazione rilasciata prima della partenza per la solenne cerimonia che oggi si terrà ad Auschwitz per celebrare la liberazione, il 27 gennaio 1945, del più grande campo di concentramento nazista, dove furono deportati anche una parte dei 6.806 ebrei italiani discriminati, perseguitati, arrestati dai fascisti, Berlusconi «orgoglioso di rappresentare l'Italia ad Auschwitz», consegna alle agenzie la sua memoria "depurata". Lo sterminio nazista, compiuto - per quanto riguarda l'Italia ­ con la collaborazione attiva del fascismo, lo definisce «piano di sterminio elaborato scientificamente dall'uomo contro altri uomini», la liberazione ad opera dell'Armata Rossa diventa «l'apertura dei cancelli...; per il resto abbonda il ricorso alle forme impersonali. «È per me motivo di grande orgoglio rappresentare domani l'Italia ad Auschwitz e rendere onore a tutti coloro che vi hanno perso la vita e a tutti coloro che hanno conosciuto l'orrore e hanno avuto la fortuna e la forza per raccontarlo», recita il suo memoriale: «Quest'anno il 27 gennaio, giorno della memoria, viene celebrato con particolare solennità a livello internazionale. Il governo polacco vuole infatti ricordare a tutto il mondo libero il 60° anniversario della apertura dei cancelli di Auschwitz commemorando, proprio ad Auschwitz, la fine del più efferato piano di sterminio elaborato scientificamente dall’uomo contro altri uomini». Segue vanto ingiustificato per quanto fatto dal governo Berlusconi per ricordare la Shoah e contrastare l'antisemitismo. E mentre il premier, che proprio in queste ore in vista delle elezioni sta cercando di stringere i rapporti con Alessandra Mussolini e i nostalgici del fascismo, si prepara così alla sua prima visita ad Auschwitz, il vicepresidente Gianfranco Fini cerca di salvare il risultato raggiunto nel suo primo viaggio in Israele, nel 2003, dalla bufera sollevata dai nostalgici interni ad An. Diversamente da Berlusconi, Fini ha definito, proprio durante la visita al memoriale della Shoah di Gerusalemme, il «fascismo, male assoluto». Quello su cui preferisce tacere sono i mugugni dei suoi, le dichiarazioni che ricuciono lo "strappo". L'ultima quella dell'ex deputato di An, Domenico Gramazio, ora presidente dell' Agenzia sanitaria regionale, nominato da Storace e sempre iscritto al partito di Fini: «Il fascismo non ha avuto responsabilità nello sterminio di massa degli ebrei», ha detto Gramazio, lunedì scorso, recandosi in visita, come Fini nel 2003, allo Yad Vashem, durante la missione in Israele di una delegazione della Regione Lazio. Indignazione della comunità ebraica, condanne da ogni parte, seguite da numerose richieste di dimissioni di Gramazio dal ruolo assegnatogli da Storace (oggi il centrosinistra le ha chieste in una mozione a prima firma Alessio D'Amato - Pdci - che dovrà essere votata dal consiglio regionale). No comment di Fini, nonostante la telefonata ricevuta a tarda notte dalla comunità ebraica di Roma. «Non spetta a lui occuparsi di Gramazio», spiega il suo addetto stampa. (E se non a lui a chi?). Il presidente di An ha rimbalzato la palla a Storace, che, dopo una "obbligata" presa di distanza («non sarà Gramazio a farmi cambiare idea sulle leggi razziali»), adesso vorrebbe archiviare il caso senza più fastidi. Alla richiesta di dimissioni obbligate per Gramazio, ieri, ha risposto, anche lui, con un no comment. Una battuta per rilanciare il messaggio dello "strappo", però, Fini, dopo due giorni di imbarazzato silenzio, la concede in prima serata al Tg2. È il direttore Mauro Mazza (quota An) a intervistarlo. Gli chiede, al termine di un'intervista per celebrare la svolta di Fiuggi, cosa rappresenti l'Olocausto per la destra. «Lo dico con dolore sia pure in ristrettissima schiera, c'è ancora qualcuno in Italia che, per ignoranza o malafede, tende a minimizzare, dicendo che le leggi del '39 non ebbero, come al contrario è stato, un ruolo importante, tragico per la persecuzione e poi lo sterminio degli ebrei», risponde Fini. Intende Gramazio? E cosa intende fare a riguardo? Purtroppo, l'intervistatore non glielo domanda. «Non ho motivo di pensare che Fini non abbia cambiato idea», commenta il presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche d'Italia, Amos Luzzatto, che nel novembre del 2003 accompagnò Fini a Gerusalemme, «diverso è parlare dei membri del suo partito, giudicare se Fini sia in grado di garantire per loro»: «lI caso Gramazio dimostra che esistono ancora persone che credono di poter conciliare atteggiamenti di avvocati difensori del fascismo con la militanza in un partito che per bocca del suo massimo dirigente ha condannato il fascismo come male assoluto e la persecuzione degli ebrei. La compatibilità di queste persone con tale partito non la devo giudicare io, ma è molto opinabile». «La vicenda Gramazio», sintetizza il rabbino Riccardo Di Segni, «non è ancora chiusa».


Bush assente dalla cerimonia nel lager

Chirac ai docenti: tramandate la memoria

ROMA - Il sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz-Birkenau verrà ricordato con una cerimonia sul luogo in cui si trova l'ex campo di sterminio nazista. Vi prenderanno parte 50 capi di Stato e di governo, rappresentanti delle associazioni di ex deportati, delle comunità ebraiche e degli ex soldati russi, che furono i primi il 27 gennaio 1945 ad entrare nel lager e liberare i prigionieri scampati alla morte. Assente invece Bush, che al suo posto ha deciso di inviare il suo vice Cheney. L'assenza del presidente americano ha già sollevato critiche. Il presidente Usa ha fatto sapere che «non sarà in Polonia», visto che «è stato lì proprio l'anno scorso». Hanno assicurato invece la loro presenza ad Auschwitz il presidente russo Vladimir Putin, il presidente israeliano Moshe Katzav, il presidente francese Jacques Chirac, il presidente tedesco Horst Koehler. Per l’Italia parteciperà il presidente del Consi­glio Silvio Berlusconi e tra gli altri premier europei quello belga Guy Verhofstadt. L'Unione europea sarà rappresentata dal presidente della Commissione Josè Manuel Barroso e dal presidente del Parlamento Joseph Borrell. La Santa Sede invierà il cardinale Jean-Marie Lustiger, arcivescovo di Parigi. In preparazione dell'appuntamento di oggi si sono svolte iniziative in tutta Europa. Chirac, inaugurando l'altro ieri a Parigi il Memoriale dell'Olocausto oltre a ribadire che «l'antisemitismo non ha posto in Francia», ha chiesto «a tutti gli insegnanti della Francia», un impegno particolare, affinché «gli studenti capiscano e non dimentichino mai»: l'appello è stato ripreso in prima pagina da «Le Monde».


San Sabba: una lapide per lo sterminio dei gay - An: «Quale sterminio?»

TRIESTE - Una targa commemorativa dedicata alle vittime omosessuali del nazifascismo è stata scoperta ieri sera a Trieste all'interno del Monumento nazionale della Risiera di San Sabba (unico campo di sterminio nazista in Italia provvisto di forno crematorio) alla presenza del presidente nazionale di ArciGay Sergio Lo Giudice e di Francesca Polo della segreteria nazionale di Arcilesbica. «Con questa lapide - ha detto il presidente del Circolo Arcobaleno di Trieste, Marco Reglia - le persecuzioni del nazifascismo contro gli omosessuali entrano ufficialmente nella storia del ventesimo secolo». La cerimonia non è andata giù al deputato di An Menia - quello che nel 2003 disse «Siamo arrivati al punto che per essere politicamente corretti bisogna essere culi per forza» - : «È una speculazione fuori posto, perché alla Risiera non è stato ucciso nessuno in quanto omosessuale». Contro la deposizione della targa alla Risiera si è espresso Enrico Oliari, presidente di GayLib (gay liberali e di centrodestra): «Non vi furono vittime gay del fascismo, né condannate alla deportazione nei lager nazisti, né sterminate dalle camicie nere».


Del Bambino rimase solo un cane di pezza

Mamma e figlio portati nel lager: la storia di una tragedia tenuta segreta in famiglia nel romanzo di Philippe Grimbert

È oggi in libreria «Un segreto» di Philippe Grimbert (Bompiani, pagine 156, euro 13), storia vera di un bambino che scopre, già grandicello, di aver avuto un fratello, morto insieme a sua madre, in un campo di con­centramento. Del libro, anticipiamo, per gentile concessione dell'editore, un brano.

Philippe Grimbert

Esther e Louise sono sedute a un tavolino, accanto al bar. Hannah e Simon si trovano un po' più lontano, vicino alla finestra. La sala è vuota, sono gli unici clienti del caffè, si ode il tic tac di un grosso orologio da muro, il padrone pulisce il banco chiacchierando con il passatore. Tutto sembra così calmo, un'anticipazione della libertà che li attende a pochi chilometri di distanza. L'uomo ha consigliato loro di stare separati per non attirare l'attenzione. Dopo averne sistemato i bagagli fuori, in una rimessa, è andato a prendere qualcosa da bere per ristorarli. Conosce gli orari dei turni di guardia, sa quando l'attenzione delle sentinelle si allenterà. Ha detto che bisognerebbe fare in fretta, recuperare le borse e correre nell'oscurità di un sentiero di cui conosce ogni pietra. Avvertito che si sarebbe incamminato di notte in mezzo alla campagna, Simon si stringe al petto il cagnolino e beve la limonata che l'uomo gli ha servita. Hannah non porta alle labbra la sua tazza, fissa il cielo stellato fuori della finestra. Ogni tanto, come assente, accarezza i capelli del figlio. Esther e Louise la guardano da lontano, con ansia. Simon chiede di andare al gabinetto, gli indicano la strada; Hannah vuole alzarsi per accompagnarlo, ma con un gesto il bambino le fa capire che è abbastanza grande per cavarsela da solo. Passando, affida il cane a Louise che sorride guardando l'ometto autoritario e incantatore che va verso il fondo della sala. All'improvviso si odono stridere i freni di un'automobile. Dei passi echeggiano nella notte e la porta del locale si apre davanti a tre ufficiali in uniforme. Louise e Esther si sentono sbiancare, istintivamente Louise nasconde il cagnolino sotto il tavolo, poi si porta la mano al petto per assicurarsi che non vi sia rimasto appeso alcun filo della stella scucita. Hannah non reagisce all'entrata degli uomini. La schiena del passatore si contrae. Appoggiato con i gomiti al bar, si porta il bicchiere alle labbra fissando le file di bottiglie. Due degli uomini restano di sentinella accanto alla porta, il terzo si dirige verso Louise ed Esther e chiede loro i documenti. Le due donne, dominando il tremito delle mani, estraggono dalla borsa le carte d'identità. Nel momento in cui Louise si alza, la grossa suola della sua scarpa ortopedica urta il piede della sedia. L'uomo dice qualcosa in tedesco ai due colleghi che gli rispondono ridendo. Il padrone del caffè azzarda una battuta, il passatore si sforza di sorridere. L'ufficiale non reagisce e fissa negli occhi le due donne dopo averne osservato le fotografie. Restituisce loro i documenti, controlla quelli del passatore e poi si dirige verso Hannah che non ha distolto lo sguardo dalla finestra. Una volta accanto a lei, tende una mano autoritaria e la giovane donna lo guarda negli occhi. Louise e Esthler trattengono il fiato, vedono che fruga nella borsetta, osserva i suoi documenti li posa in evidenza sul tavolino prima di estrarne altri che porge all'uomo, senza smettere di fissarlo. Sconcertato, l'ufficiale alza le sopracciglia. Appena data un'occhiata al documento, abbaia un ordine. Esther e Louise, paralizzate, capiscono che cos'è successo. In quel momento si ode un trotterellare sul parquet della sala, Simon è uscito dal gabinetto e si precipita verso la madre. Louise vorrebbe fargli cenno di tacere, di dirigersi verso di lei, ma è troppo tardi. L'uomo interroga Hannah con lo sguardo. Senza esitare, con voce calma, lei risponde: «È mio figlio». Hannah e Simon lasciano il caffè, scortati dai tre uomini. Tutto è avvenuto in pochi secondi. Hannah è già lontana con lo sguardo perso nel vuoto. Simon segue la madre e passa accanto al tavolino delle due donne senza rivolgere loro la parola. Allora Louise si alza, ma una mano ferma posata sulla sua spalla la costringe e rimettersi a sedere: quella del passatore, che la fulmina con lo sguardo. Gli ufficiali non hanno visto nulla, la porta si richiude sulla notte nera, si ode l'auto che si avvia e cala di nuovo il silenzio. Esther e Louise crollano, ma il passatore non lascia loro il tempo di riflettere, è pallido, con la fronte madida: ora o mai più. Bisogna andarsene, raccogliere i bagagli nella rimessa e prendere il sentiero che conduce verso la libertà; le due donne porteranno anche le borse della madre e del bambino. Alzandosi, Louise urta un oggetto sotto il tavolino: il cane di Simon. Il ragazzino se n'è andato senza il suo compagno, restituirglielo le avrebbe condannate, a ogni modo non ci ha neppure pensato. Se lo preme contro il viso, bagnandolo di lacrime. L'uomo le spinge, le fa uscire in fretta. Esther ha un aspetto spaventoso, il tratto di matita che le sottolinea gli occhi è cola­to disegnando aloni verdastri. La folta chioma rossa ne accentua il pallore. La notte è fresca malgrado la stagione, il cielo disseminato di stelle. Louise, stringendo il cagnolino al petto, pensa che Simon ha avuto ragione a proteggerlo con il lavoro a maglia di Hannah.


C’era la neve, il fumo saliva lento

Intervista a Guccini - Quarant'anni fa nasceva «Auschwitz», la più bella ballata italiana sull'orrore della Shoah. «L' antisemitismo non è morto - dice Guccini - e trova ancora casa con troppa facilità. Gente come Gramazio e la Lega allarmano»

Toni Jop

«Cos'è che lega Auschwitz a Gramazio? L'assurdità. Gramazio non sarà nazista, magari non è in grado di far del male a nessuno ma così come non riesco a spiegarmi l'assurdità di quella violenza, e di quel progetto mostruoso, allo stesso modo non so darmi pace di fronte a chi, come l'esponente di An, tenta di sottrarre il fascismo alle sue responsabilità nell'aver contribuito alla realizzazione di quel progetto. Assurdo lui, assurda la Lega che si rifiuta di sottoscrivere la risoluzione europea sull'antisemitismo: mi sembrano logiche pericolosamente lontane dal senso di umanità che ci protegge dai fantasmi più crudeli». Guccini sta chiuso in una coperta, un termometro sotto il braccio e sigarette razionate, assediato dalla neve, dal freddo e dall'influenza. Legge, come sempre, un mare di quotidiani e proprio leggendone uno pochi giorni fa ... Francesco non è uno che cerca cabale ma gli va ogni tanto di compiacersi delle banali sincronie del destino come quella che, ha scoperto, lega la sua vita al campo di sterminio nazista più ferocemente paradigmatico, quello di Auschwitz. «Se l'informazione che ho letto non è fasulla, sono nato proprio il giorno in cui si sono aperti i cancelli di Auschwitz, il 14 giugno del 1940. Che vorrà dire?»; forse niente, vuol dire niente se non quello che dice: che il più abominevole lager nazista è nato lo stesso giorno in cui ha visto la luce l'autore della più bella, toccante ballata su quell'inferno gestito dagli uomini che la popular music europea possa contare tra le sue pagine. Correva l'anno 1964, fate i conti e capirete quanto ragazzo fosse allora questo strano montanaro che già scriveva capolavori e poi li passava ad altri.

Francesco, come ti è venuto in mente di scrivere «Auschwitz»?

Intanto era autunno. Questo è certo e stavo preparando un esame di latino. Avevo letto un paio di libri che mi avevano impressionato: «Il flagello della svastica» e «Tu passerai per il camino». Credo che mi sia uscita dal cuore con gran semplicità. Quelle circostanze, quei temi li avevo già dentro per contatto diretto...

Eppure erano anni in cui non si ricordava volentieri quel che era successo. La Shoah era ancora una vicenda che il silenzio di massa sembrava affidare volentieri al destino molto sventurato, ma molto privato degli ebrei...

Una nostra amica di famiglia, la signorina Sinigallia, - te lo ripeto da anni - di cui sei sicuramente pronipote, era ebrea come te. È un personaggio della mia infanzia, era lei che mi faceva le iniezioni, lei che non di rado giocava a carte a casa mia. Lei che aveva perso un bel po' di familiari a Buchenwald, credo. Raccontava, e io sapevo. Poi mio zio. Aveva una corrispondente estera, negli anni '50 e nei primi anni '60 che aveva quel triste numero sul polso. Poi vidi quelle foto sui libri. Soprattutto quelle dei bambini, laceranti: hai voglia a cercare di capire, non ce la fai perché non c'è niente da capire, è tutto così esplicito, così spaventosamente esplicito. Volevano far fuori quella che per loro era una razza, dovevano abolire dal mondo la pietà ...

E cosi ti mettesti a scrivere e a incollare note e accordi. Ma in quel brano che stava nascendo c'era qualche cosa d'altro: la canzone italiana, grazie a te, stava facendo un bel salto, usciva dai tinelli e si affacciava alla grande storia dalla terrazza di una nuova coscienza, più ampia, più responsabile ...

Colpa anche di Dylan. Lo avevo ascoltato da poco e mi pareva che non si potesse restare indifferenti a quell'aria nuova, a quel modo di cantare le cose. Nel giro di un mese o giù di lì, ho scritto e composto anche «Noi non ci saremo» e «È dall'amore che nasce l'uomo», che pochi conoscono, credo.

Cosi come pochi sapevano che eri tu l'autore di quei pezzi: «Auschwitz» la cantò l'Equipe 84 di Vandelli, «È dall'amore che nasce l'uomo» la portarono a spasso sempre loro, «Noi non ci saremo» divenne una bella hit dei Nomadi ...

L'Equipe mostrò coraggio a farsi carico di un brano così difficile, così poco consolatorio. Anzi, modificarono la mia versione originale dove diceva «lo chiedo quando sarà che l'uomo...». Tolsero questa domanda angosciata e la sostituirono con una risposta ben più dura cantando «io non credo che l'uomo...». Un po' atroce, poco nelle mie corde, non che fossi animato da chissà quale speranza ma chiudere il discorso in modo così netto ...

Sembra la storia di un padre al quale tolgono i bambini appena nati...

I miei amici più stretti sapevano che ero io l'autore di «Auschwitz», a loro era piaciuta molto. Fuori da questa cerchia, il primo a stringermi la mano e a dirmi «complimenti» fu Arnoldo Foà, ma dopo un bel po' di tempo. Insisto a dire che dal punto di vista tecnico non era un pezzo di bravura: è molto efficace, arriva dritta allo scopo, sa evocare, ma insomma ...

Sono quasi mai d'accordo con i tuoi giudizi sulle tue creature. Ma torniamo al tema, la Shoah...

Mi fa orrore il negazionismo. Non sopporto quelli che dicono: non è successo niente, non è vero niente, non c'entro niente. I tedeschi sono stati bravi, in generale, a non partecipare a questo vergognoso gioco. Quanto all'antisemitismo, basta verificare la cronaca di questi anni recenti: esiste, serpeggia, si annida qui e lì anche se alcune condizioni. Per esempio, la Chiesa, cattolica ha fatto ciò che doveva fare eliminando ogni residuo della vecchia, agghiacciante condanna di deicidio che agli ebrei è costata tanto e tanto è costata all'Europa. Ma non basta. Guarda cosa sta accadendo nell'ex Germania Est, dove si raccolgono i più agguerriti gruppi neonazisti. Il pregiudizio sopravvive a tutto, purtroppo: che gli ebrei siano ricchi, avari, avidi è una favola cattiva che trova casa piuttosto facilmente.

Non pensi che nella Lega ci siano gli elementi necessari per alimentare rigurgiti di cultura filonazista?

Non penso che la Lega sia neonazista. Mi sembra piuttosto un luogo in cui la piccola borghesia riesce a condensare tutti i suoi vizi peggiori, a cominciare dalla paura del diverso e dall'egoismo, in una linea politica ...

Sarà, mi sembrano ingredienti perfetti per una strategia in cui l'antisemitismo ritrovi uno spazio istituzionalizzato: ogni volta che la paura è diventata strumento di governo o quantomeno di politica gli ebrei hanno pagato, prima o poi ...

Diciamo che al momento la Lega sembra più preoccupata di criminalizzare gli extracomunitari, gli omosessuali, i diversi in generale. Sembra abbastanza esplicita nell'indicare i suoi bersagli. Anche se devo arrendermi al potere della menzogna. Mi fanno molta paura quelli che minimizzano la Shoah protestando ragionevolezza e poi in cuor loro oltre a sapere che è stata quella cosa spa­entosa e unica che è stata pensano che i nazisti hanno fatto bene a fare quello che hanno fatto.

In altre parole, vorresti avere fu possibilità di riconoscere senza ombra di dubbio i nuovi nemici dell'umanità ...

Forse sì, forse no. Se questi non hanno la possibilità di dichiararsi ciò significa che la morale del nostro mondo, almeno in questo caso, è abbastanza forte da costringerli a camuffare la loro biecaggine, perché altrimenti non avrebbero scampo. È un brutto momento quello in cui un nazista si sente libero di dire che è un nazista. Già, ma mentre parlo mi viene in mente che proprio in Italia fascisti e nazisti ora si sentono liberi di dichiararsi, non se ne vergognano...  


Giorno della memoria, è tempo di un bilancio

Gloria Buffo

Oggi è un giorno importante, è la giornata in cui le istituzioni, e noi tutti, abbiamo deciso di ricordare i crimini del nazismo e del fascismo. In quest'occasione ci spetta anche fare un bilancio su come la memoria e la giustizia verso le vittime vengono trattate nel nostro Paese. Il bilancio non è certamente positivo. Era dovuta e scontata l'istituzione in questa legislatura di una Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti (meglio conosciuta come Commissione sull'Armadio della vergogna), ma si è dovuto faticare non poco per riuscire ad ottenerla nel 2003. Oggi quella Commissione sta facendo un buon lavoro, e ciò che ne esce non finisce di stupire. Un ulteriore occultamento di materiale è avvenuto, infatti, negli ultimi anni, dopo la scoperta delle carte dell'armadio: i 273 fascicoli riguardanti crimini in cui sono stati coinvolti fascisti italiani, arrivati alla Commissione solo nel marzo scorso. Come è possibile che ancora più d'uno tenti di occultare le carte, nel caso specifico magistrati della Procura militare che al contrario dovrebbero adoperarsi per fare giustizia? Forse perché questi fascicoli scottano più di altri, poiché contengono carte su criminali italiani. Perché, si sa, il teorema su gli "italiani brava gente", che scarica tutte le colpe solo sulle truppe naziste, ritorna sempre ed è difficile da scalfire. Come è accaduto in Senato con l'approvazione da parte della Commissione Difesa del progetto di legge di Alleanza Nazionale per il riconoscimento di belligeranti legittimi a coloro che hanno fatto parte dell'esercito della Repubblica di Salò. A questi fatti se ne aggiungono numerosi altri, altrettanto gravi. Da ultimo le dichiarazioni di Gramazio che assolvono il fascismo dalla responsabilità delle leggi razziali e dello sterminio degli ebrei. Gli esponenti della maggioranza di centro-destra in questi anni si sono prodigati in affermazioni sul 25 aprile e più in generale sull'antifascismo gravi perché lesive della verità nonché della storia italiana. Vi è stato, a seguire, il taglio di fondi all'Anpi operato in più momenti e il mancato stanziamento per le celebrazioni del 60° anniversario della Resistenza. È chiaro, dunque, il disegno culturale-politico della maggioranza: la revisione ad uso politico della storia nazionale per tappe successive fino alla cancellazione delle radici democratiche. A tale disegno certo è giovato il tanto parlare - anche col supporto di certa brutta televisione - di conciliazione nazionale e superamento di memorie divise. E sicuramente supporto essenziale è stata tanta pubblicistica revisionista, di qualche storico, ma soprattutto di chi, senza alcuna professionalità in merito, si è arrogato pubblicamente il ruolo di disquisitore della storia nazionale e dei suoi significati. Anche questo ha aiutato il governo Berlusconi, per la strutturazione di una società autoritaria, in cui solo pochi possono godere di potere e benessere. La campagna del governo e della destra contro la memoria e la storia più in generale è stata in questi anni tenace, e condotta con arroganza e modalità imprevedibili: ricordiamo l'ingerenza del Ministro dei Beni culturali nella gestione amministrativa dell'Archivio centrale dello stato, da cui ha rimosso l'autorevole direttrice, ricordiamo il taglio di fondi agli Archivi storici di tutta Italia, che mette in grave pericolo la produzione di cultura e l'elaborazione della memoria storica del Paese. E ancora, il tentativo di revisione dei testi di storia e dei programmi scolastici. La risposta dell'Italia democratica al tentativo di cancellazione della Resistenza come origine dell'Italia contemporanea deve essere risoluta e chiara. Sostegno alle attività scolastiche, finanziamento della ricerca storica cosi poco retribuita in Italia, finanziamento delle opere documentarie e artistiche, supporto alle iniziative locali, in particolare all'istituzione dei Parchi della memoria. In Parlamento deve essere portata avanti con decisione l'iniziativa per approvare alcune significative proposte di legge. Innanzitutto quelle relative al finanziamento delle celebrazioni sul Sessantennale della Resistenza, approvazione ormai urgentissima; quella per il risarcimento alle vittime delle stragi di cui si sono rinvenuti i documenti nell'Armadio della vergogna. E infine la proposta, presentata lo scorso 8 marzo insieme al Presidente della Camera Casini, di istituire una giornata delle donne della Resistenza, che oltre a contribuire a tenere viva la memoria di quei fatti, riconosca solennemente, alle donne il ruolo svolto nella costruzione della democrazia e delle libertà nel nostro Paese. Voglio aggiungere, infine, che tutte queste ragioni ci spingono anche a chiedere al Presidente della Repubblica che per il seggio di senatore a vita ancora vacante sia scelta una donna della Resistenza. Sceglierlo significherebbe un visibile riconoscimento istituzionale al lungo e durissimo percorso di emancipazione  femminile, così importante nella costruzione di un'Italia divenuta libera e moderna anche grazie all'impegno antifascista.

Da l'Unità, 27 gennaio 2005, per gentile concessione


C’è chi vuole cancellare

 di Nicola Tranfaglia

C’è un paradosso che percorre l'Italia nel momento in cui per il quinto anno in molte città italiane ricorre quella giornata della memoria che una legge dello Stato ha istituito il 20 luglio del 2000 e vale la pena segnalarlo proprio nel momento in cui in tutto il mondo, a cominciare dall'Onu, si ricorda il giorno della liberazione della più grande fabbrica della morte costruita dai nazisti al centro dell'Europa, il lager di Auschwitz. Il paradosso consiste in questo. Le forze politiche e culturali che furono protagoniste della resistenza e della Costituzione repubblicana sono, per la massima parte, all'opposizione e al potere c'è, da quattro anni, una coalizione di forze che non partecipò alla guerra di liberazione, non contribuì a scrivere la Costituzione ancora vigente e, al contrario, lungo l'intero sessantennio è sempre stata dall'altra parte di questi valori e ideali che hanno guidato gli uomini più eminenti della vita repubblicana, da De Gasperi a Moro, da Togliatti a Pertini e a Berlinguer, per far solo qualche esempio. Governano quelli che hanno costituito, ha scritto qualcuno, “il sommerso della Repubblica”. Qualcuno dirà che nel partito di maggioranza relativa, in Forza Italia, c'è fior di ex democristiani e di ex socialisti che vengono dunque da forze pienamente partecipanti alla genesi della repubblica ma resta il fatto che anche loro hanno accantonato quei valori e quegli ideali e quando parlano pendono dalle labbra del leader carismatico così nostalgico di Mussolini e così dimentico di quel dice la nostra Costituzione sulla divisione dei poteri, sull'uguaglianza dei cittadini e sulle principali libertà, a cominciare da quella di informazione e di quella conferita ai magistrati di applicare le leggi in piena autonomia e indipendenza dal potere politico ed economico. Altri ricorderanno che la Lega Nord di Umberto Bossi non è sempre stata, come è adesso, razzista e xenofoba, in prima linea nella lotta contro gli immigrati e i giudici indipendenti. L'una e l'altra osservazione valgono, purtroppo, solo per il passato e il presente ci consegna un panorama assai diverso nel quale il revisionismo storico praticato sui mezzi di comunicazione di massa (televisioni e giornali, soprattutto) piuttosto che negli archivi e nelle biblioteche avanza a grandi passi, favorito dall’asservimento crescente di chi dovrebbe invece informare correttamente gli italiani. Quanto alla destra, presente in tutte le formazioni della maggioranza, assistiamo a processi e a episodi che manifestano un tentativo costante di rivalutare il fascismo e i suoi esponenti a prezzo della verità storica e della documentazione esistente. È uscito qualche tempo fa un libro di Francesco Perfetti sull'assassinio di Giovanni Gentile nel '44, edito dalla casa editrice Le Lettere di Firenze in cui si sostiene con sicurezza che fu Togliatti ad ordinarne la morte senza uno straccio di prova che permetta di arrivare a una simile conclusione. Senza contare i grossolani errori che infiorano il libro come quelli di scambiare la sigla GAP che vuoI dire "Gruppi di azione patriottica" con l'indicazione di "Gruppi armati partigiani". Un pamphlet di questo genere ha avuto il destino di numerose interviste televisive e radiofoniche senza che si trovasse un giornalista capace di chiedere su quali documenti l'autore si sia basato e il presidente del Senato Marcello Pera abbia affidato proprio a Perfetti la ricostruzione della morte del filosofo, guardandosi bene dall’invitare gli storici che hanno scritto le più documentate biografie di Gentile (come Gabriele Turi o Sergio Romano). Ma gli episodi si moltiplicano e basta visitare i siti telematici o i manifesti della destra per averne la prova. Nel Vocabolario di Alessandro Cochi della sezione Testaccio di Alleanza Nazionale, per fare solo un esempio, c'è un brano che dice con chiarezza come il giorno della memoria non abbia ragione di esser ricordato, a meno che si mettano anzitutto in fila i martiri fascisti e neofascisti che hanno perduto la vita nel sessantennio repubblicano, al di là delle violenze che quei martiri hanno compiuto nella sanguinosa stagione delle stragi compiute in collusione più o meno aperta con apparati dello Stato. Né ci si può fermare a questi esempi. A Torino è comparso nei giorni scorsi un manifesto di Alleanza Nazionale, di cui hanno parlato i giornali, che disegna una galleria di eroi della modernità e, accanto ai fascisti che ci aspettiamo di trovare, compare il nome di Piero Gobetti, il fondatore di Rivoluzione Liberale, che proprio dagli squadristi venne picchiato a morte dopo il delitto Matteotti. Quanto al Museo Nazionale del Risorgimento, sempre a Torino, che si prepara a diventare il Museo dell'Europa, si sta decidendo, a quanto pare, di eliminare la sala che contiene le bandiere del movimento operaio e alcuni reperti legati all'antifascismo e alla resistenza. Ora è vero che nell'ex capitale subalpina esiste poco lontano un museo della resistenza ma se il nuovo Museo ripercorre la storia d'Italia nelle sue tappe essenziali, è forse il caso di non cancellare una pagina di così cruciale importanza per la nostra identità nazionale. Potrei continuare con molti esempi che riguardano molte città e regioni italiane. Ma mi interessa di più ritornare al paradosso iniziale e chiedere al governo Berlusconi e alla sua maggioranza se l'offensiva revisionista non intenda espellere dalla nostra storia le radici della repubblica, il ricordo di quelli che caddero per abbattere i nazisti e i fascisti e sostennero i valori che ancora ci reggono e porre al loro posto quel "sommerso della repubblica" che oggi è sulla scena politica.


«Le leggi razziali fasciste, tradimento della Nazione»

La netta condanna di Ciampi. Fassino: «Non dimenticheremo da dove viene la nostra libertà»

Roberto Monteforte

ROMA - L'Italia non vuole e non deve dimenticare. Il dramma della Shoah devo essere un monito per le nuove generazioni. E soprattutto bisogna fare seriamente i conti con le responsabilità del passato pensando ai rischi del presente, visti i preoccupanti fenomeni di intolleranza e d discriminazione. È stata anche questo la Giornata della Memoria celebrata ieri in tutta Italia. La condanna delle leggi razziali «fasciste» contro i cittadini di religione israelitica è stata netta: per tutti ha parlato al Vittoriano il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. «Le leggi razziali fasciste del 1938 sono state il più grave tradimento di quegli anni», ha affermato. Il regime fascista tradì gli ideali del Risorgimento e l'idea stessa della nazione italiana ha scandito Ciampi. Un giudizio di condanna senza appello o attenuanti rivolto a chi tenta di attenuare la condanna verso il fascismo, scaricando il peso delle responsabilità sull'alleato nazista. L'unica distinzione che il capo dello Stato accetta è quella tra quegli uomini del regime che «applicarono quelle infami discriminazioni» e «i numerosi Italiani che, invece, seppero anteporre le ragioni della loro coscienza alla violenza morale e fisica della dittatura e del razzismo, che ebbero il coraggio di riaffermare la loro fede nella libertà». Non dimenticare, quindi, per aiutare i giovani a «combattere l’indifferenza», a «ripudiare ogni forma di integralismo e di estremismo» e a contrastare «rinascenti fenomeni di discriminazione razziale, religiosa e etnica»: è stato questo l'invito pressante rivolto da Ciampi. Sono parole che sono piaciute al presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, Amos Luzzatto, che ha ringraziato il presidente, «difensore dei principi della nostra Costituzione, nata dalla Resistenza antifascista» e sicura «garanzia per la formazione e l'affermazione dei giovani». Luzzatto, però, è preoccupato. Ripropone la frase di Primo Levi: «E accaduto, quindi può accadere di nuovo», «Mai come oggi si rivela attuale - commenta -. La violenza, l'incitamento all'odio fra popoli; culture, religioni diverse, l'omologazione, per quanto riguarda il passato, dei carnefici e delle loro vittime: tutto questo è tragicamente nella cronaca quotidiana». Si domanda Luzzatto: «Saremo capaci di insegnare ai nostri ragazzi la libertà di scegliere consapevolmente fra il be­ne e il male, fra la lotta di sopraffazione e la convivenza civile, nel rispetto dell'altro?», Non è meno preoccupato il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni. «Se si nega la Shoah, non ci può essere riconciliazione», ha affermato durante la cerimonia tenutasi alla Camera dei deputati. «Per la nostra comunità, questa giornata - ha scandito il rabbino - mette a nudo una sofferenza, la nostra non è una partecipazione formale e serena. C'è però l'impegno forte per una riconciliazione. Ma non ci può essere conciliazione con chi nega ciò che è accaduto, con chi si autoassolve, con chi si giustifica ed ha un atteggiamento aggressivo e di odio», Ad ascoltare questi moniti c'erano il ministro degli Esteri, Gianfranco Fini, e il presidente della Regione Lazio, Francesco Storace. «Bisogna combattere l'ignoranza, l'ignavia e l'indifferenza per evitare che l'odio razziale e l'antisemitismo, anche sotto altre forme, non si ripetano mai più» ha risposto Gianfranco Fini. «L'Italia fascista non è esente da vergogna» ha dovuto riconoscere Storace.  Anche Emanuele Filiberto di Savoia, ha ammesso ieri le responsabilità del bisnonno, Vittorio Emanuele III, che tradì i suoi sudditi di religione ebraica firmando le leggi razziali. Un invito a «non dimenticare da dove viene la nostra libertà, a non dimenticare che se l'Europa, da più di 60 anni, conosce pace e prosperità è perché ci sono stati donne e uomini che hanno lottato per sconfiggere il nazifascismo, per liberare l'Europa dall'orrore della Shoah» è venuto dal segretario dei Ds, Piero Fassino che ieri ha visitato il museo storico della Liberazione, in via Tasso a Roma. Il segretario della Quercia ha invitato a non abbassare la guardia sull'antisemitismo, «malapianta che, per quanto la si estirpi, può sempre continuare a crescere e a riprodursi». Le leggi razziali sono state definite «un'ignominia che pesa sulla storia del nostro Paese» dal presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, «Questa è una responsabilità che non può essere né sminuita né ignorata davanti alla Storia» ha ribadito. Il ministro degli Interni, Giuseppe Pisanu, invece, ha accostato l'attuale terrorismo al nazismo: «ideologia di morte, contro la vita e la gioventù». Il responsabile del Viminale chiede «rinnovata attenzione» contro «pregiudizi, tendenze discriminatorie, manifestazioni di intolleranza e di risorgente antisemitismo».


Berlusconi ad Auschwitz accusa i comunisti (che la liberarono)

«Ma guarda, sembra un film …»: il premier scopre d’improvviso l’Olocausto senza citare mai il fascismo

di Marcella Ciarnelli

AUSCHWITZ - Silvio Berlusconi ha scoperto l'Olocausto. Solo ora. Nel giorno in cui il mondo ha ricordato con dolore e commozione i sessanta anni dalla fine dell'orrore di Auschwitz. Ma non si è lasciato sfuggire l'occasione, nel gelo che ha attanagliato il campo di concentramento lasciato identico perché nessuno dimentichi (ovviamente chi sa), di ritornare sul suo tema preferito. «Che non si possa più nemmeno lontanamente arrivare ad azioni come quelle che si sono verificate con il nazismo e con il comunismo», mentre invece «bisogna impegnarsi ad amare gli altri». Mettendo così tutto insieme. Il bene e il male. Risvegliando lo spettro del comunismo, che lui ha deciso essere il motivo conduttore della sua campagna elettorale fino al 2006, anche se ha dovuto riconoscere che le leggi razziali emanate in Italia da Mussolini sono state «una vergogna, una vergogna assoluta». Nella giornata che ha visto Vladimir Putin tra i protagonisti, testimone di quei soldati russi che qui per primi sessanta anni fa portano di nuovo la speranza a gente che non ne aveva più, Berlusconi non ha saputo rinunciare al suo esempio elementare degli orrori che a suo dire, senza alcuna differenza, si sono susseguiti nel mondo. Ieri ci ha tirato dentro anche Pol Pot parlando della tragedia dei campi di concentramento come di una cosa «che si è verificata solo sessanta, settanta anni fa ma poi ha avuto degli altri seguiti che sono stati altrettanto raccapriccianti». Come, appunto, quanto avvenuto in Cambogia. «Una cosa incredibile», mormora il premier mentre la sera cala e la neve scende copiosa. «Sembra davvero di assistere ad un film», commenta mentre racconta l'Olocausto per come glielo ha dovuto spiegare per l'occasione il professor Marcello Pezzetti, studioso della Shoah «che mi ha rivelato molto più di quanto sapessi». Infreddolito, riparato da un Borsalino grigio che si è tolto solo per deporre il lumino votivo sulle lapidi, nella posizione defilata che il cerimoniale gli ha destinato, Berlusconi ha visto sfilare il dramma di un popolo. Nelle parole di chi ha fatto i discorsi. Nelle facce dei sopravvissuti e della loro famiglie. Lui lo racconta come una fiction. «Conoscevo la storia perché miei amici ebrei me l'avevano raccontata. Ma passare fisicamente davanti a quelle baracche e a quei forni crematori mi ha fatto capire che quanto è successo qui è inarrivabile». Per il premier chi ha resistito quattro anni «in questo inferno» ci sono riusciti «solo perché hanno fatto parte degli ausiliari che purtroppo erano co­stretti a farlo», i kapò, mentre gli altri «immagino fossero scheletri al momento della liberazione». Per lui «la cosa drammatica è che un solo uomo decideva del destino di tutti. Uno della sanità che misurava la resistenza fisica di chi arrivava e ne mandava subito a morire l'ottanta per cento». Poi dichiara di aver molto approfondito «la preoccupazione del Fürher e dei suoi vicini di far sparire le prove, i corpi degli uccisi. Avrebbero potuto fucilarli ma c'era il problema di nascondere le tracce. Magari in prospettiva di un accordo con gli alleati. Di qui le fosse comuni». Davanti ad una tragedia così grande il presidente del Consiglio minimizza la paura per un possibile ritorno dell'antisemitismo. «Ogni tanto succedono ancora dei fatti che dobbiamo assolutamente deplorare e condannare. Ma quello che è successo qui è inarrivabile». Comunque i giovani vanno resi consapevoli. «Porterò qui i miei figli», dice Berlusconi non dopo aver promesso che finanzierà la ristrutturazione della parte italiana del museo. «Verremo in estate», promette il premier che di freddo ne ha preso e parecchio. «Ho già preso l'appuntamento». Neanche fosse il dentista.


Shoah, i testimoni italiani ora li potete ascoltare tutti

La raccolta della fondazione Spielberg da oggi all’Archivio di Stato

di Mariagrazia Gerina.

ROMA - «Esperienza infantile dell'antisemitismo». «Reazione dei presenti alla persecuzione degli ebrei». «Vivere sotto falsa identità». «Arresto ad opera di bande fasciste». Minuto dopo minuto, azione dopo azione, l'intero racconto della Shoah italiana depositato in 434 testimonianze italiane e oltre mille ore di girato conservate presso gli archivi della "Survivors of the Shoah Visual History Foundation", la fondazione creata da Spielberg per conservare il racconto diretto dei testimoni, verrà ufficialmente consegnato oggi all' Archivio centrale dello Stato, dove sarà visibile e consultabile da chiunque, non solo testimonianza per testimonianza, ma anche tema per tema, voce per voce. «C'è stato bisogno anche di aggiungere alcune voci all'ampio vocabolario fissato dalla Fondazione Spielberg prima di aver analizzato il corpo delle interviste italiane» spiegano Michela Procaccia e Giovanni Contini, che a questo lavoro, presso gli archivi di Los Angeles, hanno dedicato due anni. Voci chiave come «Legge italiana per la difesa della razza - 1938». O anche «bande fasciste» per indicare chi era a compiere gli arresti. Voci che dicono la specificità tutta italiana della Shoah. Da domani consultabili presso l'Archivio centrale dello Stato. Ad annunciarlo, nell'Aula Magna della università La Sapienza di Roma, è stato lo stesso presidente della Shoah Visual History Foundation, partecipando alla celebrazione della giornata della memoria nell'ateneo romano. A celebrarla, con il neorettore Renato Guarini, il rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, il delegato del sindaco di Roma per la multietnicità, Franca Eckert Coen, Furio Colombo, Alessandro Portelli, la storica Marina Caffiero, promotrice e organizzatrice della giornata, il regista Mimmo Calopresti, al quale Spielberg ha affidato la realizzazione di un film tratto dalle testimonianze italiane, come quello proiettato ieri nell'Aula Magna, Voci dalla Lista, che invece ripercorre la vicenda degli ebrei salvati da Oscar Schindler. «Quest'anno la nostra università per la prima volta ha compiuto la scelta di celebrare il Giorno della Memoria con un'iniziativa propria», spiega il rettore Renato Guarini, sottolineando «il prezzo che la comunità scientifica pagò, per via delle leggi razziali, in termini di vite umane ma non solo». «Fu qui che si consumarono atti terrificanti: dall'eliminazione dei docenti ebrei, alla collaborazione di alcuni scienziati ai progetti di persecuzione razziale», ricorda il rabbino Di Segni. «Questa giornata vi deve insegnare a non far finta di non esserci di fronte alla storia», si rivolge agli studenti il direttore de l'Unità, spiegando il senso della legge, da lui promossa, che ha istituito il Giorno della Memoria: «La Shoah è stata un delitto italiano, per questo anche è importante che l'Italia ricordi», ammonisce, testimoniando poi agli studenti la sua personale vicenda di bambino cacciato, in virtù delle Leggi razziali, dalla scuola.


Gramazio si arrampica «Sono stato frainteso»

Retromarcia dopo aver negato le responsabilità fasciste sulle leggi razziali

ma. ge.

ROMA - Dopo tre giorni di silenzio e di burrasca, Domenico Gramazio, l'alleato nazionale che, nella settimana in cui cade la giornata della Memoria, in visita ufficiale in Israele, con una bruttissima dichiarazione di sapore nostalgico-negazionista (registrata dalle agenzie al termine della sua visita allo Yad Vashem) aveva minimizzato il ruolo delle leggi razziali e del fascismo nello sterminio di massa degli ebrei, ritratta: «Sono d'accordo con quanto hanno detto il presidente Fini e il presidente Storace: è vergognoso minimizzare le leggi razziali». Così recita la lettera "riparatoria" consegnata ieri al rabbino capo della comunità di Roma, Riccardo Di Segni, che era con lui nella visita in Israele della delegazione laziale. Lettera giunta al termine di una giornata che avrebbe dovuto essere dedicata a tutto tranne che al caso Gramazio. Partorita in un clima assai teso: tra le richieste di dimissioni di Gramazio da presidente dell'agenzia regionale per la sanità avanzate a Storace dall'opposizione, l'indignazione della comunità ebraica e l'imbarazzo di Gianfranco Fini, costretto a minimizzare i «sentimenti assolutori all'interno del suo partito», a pochi giorni dal decennale della svolta di Fiuggi. Inizia molto presto la giornata della memoria funestata dal "caso Gra­mazio". Alle 8.30, il presidente della Regione Lazio è già in Lungotevere Cenci, negli uffici della comunità ebraica di Roma, per incontrare il presidente della comunità Leone Paserman e il rabbino capo Riccardo Di Segni. «Incontro programmato da tempo per la giornata della memoria», precisa Paserman. Al termine del quale, Storace, felice che l'incontro non sia stato annullato nonostante le tensioni, esce con una proposta per chiudere il caso Gramazio: «Un gesto o una lettera per far capire il suo pensiero». Le dimissioni no: «Ai rappresentanti della Comunità ebraica ho detto che Gramazio mi aveva comunicato che voleva dimettersi, avendo saputo che venivo qui. Ma io gli ho detto "aspetta un attimo"...». Nella lettera consegnata nel pomeriggio al rabbino Di Segni, Gramazio fa ammenda per la poca chiarezza delle sue parole. Ed esprime «profondo disappunto!», per la chiarezza introdotta dal cronista, che nell'agenzia aveva riportato: «Il fascismo non ha avuto responsabilità nello sterminio di massa degli ebrei e fece leggi razziste trascinato dall'accordo della Germania con l'Italia». Che corregge così: «L'applicazione delle leggi razziali, premessa della Shoah, sono state un'onta degli anni del fascismo e nessuno lo può negare: le deportazioni e il calvario degli ebrei italiani e romani ne sono testimonianza concreta».


Auschwitz, tutto il mondo ricorda

Auschwitz, il mondo contro i suoi demoni - Solenne cerimonia per non dimenticare. Il presidente israeliano: «Gli ebrei sterminati, nessuno si mosse»

Gianni Marsilli

AUSCHWlTZ BIRKENAU - Non era previsto dal cerimoniale l'urlo rauco di quella donna anziana ma vigorosa, l'unica senza cappotto nel gelo di Birkenau. Si è messa al fianco di Moshe Katsav, il capo dello Stato d'Israele, e ha aspettato che terminasse il suo discorso. Poi ha preso con decisione il microfono, si è scoperta l'avambraccio e ha mostrato alla folla di presidenti e primi ministri il numero tatuato: «Perché ci hanno messo la stella gialla? Perché, ci hanno portato qui? Avevo sedici anni quando sono arrivata ad Auschwitz ...». Voleva solo gridare il suo dolore rabbioso, e al contempo il suo orgoglio vitale: «Oggi sono cittadina d'Israele, amo il mio paese ... non deve accadere mai più!». Ha parlato per un minuto, poi è tornata al suo posto, giusto dietro le autorità, assieme agli altri sopravvissuti. Sono stati in tanti, a sfidare i meno dieci e la neve che non ha smesso di cadere fitta neanche per un minuto, gli ex deportati che sono venuti qui ieri. Per molti sarà l'ultima volta, anche per questo il 60° della liberazione del campo non è stato simile a nessun altro anniversario. Mai era stata officiata una cerimonia con tanto impegno e partecipazione. Mai un tale ecumenismo politico e religioso ha ricordato gli orrori che qui si consumarono. Neve e fuoco. Come sessant'anni fa. La neve ha accompagnato la cerimonia, il fuoco l'ha chiusa: seicentocinquanta metri di binari improvvisamente avvolti da fiamme che correvano sinistre e parallele. Proprio «quei» binari, che sono sempre qui a Birkenau e che allora portavano alla rampa della selezione: uno di qua, abile al lavoro, quattro di là, buoni per il gas e la cremazione. Quando si è fatta sera lo spettacolo chiudeva la gola: la luce fioca di mille candele nella neve, quella incerta dei riflettori sui resti dei forni crematori, quella viva dei binari, e tutto intorno buio nell'immensa pianura. Il fischio di un treno e lo stridio di una brusca frenata avevano aperto la cerimonia, il rumore di un treno che si rimetteva in marcia ne ha siglato la fine. Pochi degli ex deportati avevano resistito fino a quel momento. Il freddo, in qualche caso l’emozione l'avevano avuta vinta, ed assistevano più in là, al coperto davanti agli schermi. C'erano quelli che di sé stessi ieri avevano deciso di fare una prova vivente dell'obbrobrio, affinché dopo di loro non si dimentichi, ed esibivano davanti alle telecamere gli avambracci numerati, foulard e berretti a righe bianche e blu, i colori dei deportati, con una specie di amarissima fierezza. Come il polacco Jerzy Mjrinsky, che qui  arrivò nel '44, e non ne vide la liberazione perché finì a Bergen Belsen. Aveva un nodo alla gola e ripeteva in tre, quattro lingue: «Mai più, mai più». C'erano quelli più pensosi e discreti, come il francese Maurice Klemt che confessava ai giornalisti: «Sono perplesso. Sono tornato varie volte qui, ne conoscevo il silenzio. Oggi mi sento diviso tra la mia storia personale e la storia del mondo. Certo, dico sì alla memoria, ma mi sento a disagio in questo va e vieni tra le camere a gas». Questi «ex» non avevano l'abitudine di vedere primi ministri e presidenti a Birkenau. Nei decenni ogni paese aveva declinato la memoria dell'Olocausto a modo suo, occultandola come in Francia, piegandola come in Polonia, trascurandola come in Italia. Per molti la cerimonia di ieri è stata come un'irruzione di folla in una memoria che in fondo era sempre rimasta privata, indicibile al resto del mondo. L'Europa è sfilata a quel microfono eretto davanti al monumento più significativo del continente. L'Europa di Simone Veil, la voce netta, volto forte. Era bellissima a sedici anni, quando arrivò qui ad Auschwitz. Lei si salvò, non sua madre né il resto della famiglia. Ha avuto, lei che è stato il primo presidente del Parlamento europeo, parole di fiducia: «I paesi europei sono riusciti a superare i loro vecchi demoni ... L'Europa di Wladyslaw Bartoszewsk straordinaria biografia di polacco di Varsavia. Ad Auschwitz già nel '40 poi resistente, poi imprigionato da regime comunista per sei anni fini al '54, poi docente di storia, ancor imprigionato nell'81 quando Jaruzelski impose la legge marziale, poi ministro degli Esteri negli anni '90. Ha denunciato l'indifferenza degli alleati, che sapevano ma non bombardarono: «Il mondo libero non s'interessava della nostra sorte, malgrado la Resistenza li avesse informati...». L'Europa di Romani Rose, presidente dei gitani europei l'unico a parlare in tedesco: «Himmler già nel '38 evocava la necessità di una soluzione finale della questione gitana». L'Europa del cardinale Lustiger, che ha parlato a nome dell'ex arcivescovo di Cracovia, oggi Giovanni Paolo II: «Non è permesso a nessuno di passare con indifferenza davanti ad Auschwitz...». Solo tre i leader politici che hanno preso la parola. Il polacco Aleksander Kwasniewski: «Sono stati gli ebrei a subire le conseguenze più atroci...». Ha reso omaggio all'Ar­mata Rossa e all'Unione Sovietica «che liberò Berlino ed ebbe venti milioni di morti», e ha decorato i russi liberatori. Il russo Vladimir Putin, il più breve e conciso, che ha rivendicato all'esercito sovietico di «aver liberato la Polonia» ed è stato l'unico a parlare anche del presente: «Non ci potevano essere nazisti buoni o cattivi, come non ci possono essere terroristi buoni o cattivi», e tutti hanno pensato alla Cecenia. Il presidente  israeliano Moshe Katsav: «Il mondo sapeva che gli ebrei d'Europa venivano sterminati e ha continuato ad ignorarli...­ Sessant'anni dopo la Shoah siamo davanti ad una recrudescenza dell'antisemitismo in Europa: il potere di dissuasione della Shoah si è forse attenuato?». È il rimprovero di Israele all'Europa, di essere troppo immemore, disattenta ai «vecchi demoni» di cui aveva parlato Simone Veil. Aveva detto Jacques Chirac in mattinata, arrivando a Cracovia: «Per la Francia la Shoah non è solo un dolore. È anche la consapevolezza di una colpa». È il primo capo dello Stato francese a farne parte in termini così espliciti e categorici. Infine la preghiera ecumenica, i canti della Shoah a cappella, senza parole, un solo lungo lamento, l'Or­chestra filarmonica nazionale polacca, i cori dell'Alta Slesia e della Radio di Cracovia, la deposizione delle candele davanti ad ognuna delle steli in pietra, una per paese, una per lingua della magnifica babele che arrivò ad Auschwitz e che da Auschwitz non tornò. Nevicava ancora, quando si è sentito nel buio il rumore di un treno: era il segnale di chiusura della cerimonia. Contro l'oblio, perché non accada di nuovo.


L’Europa unita: no a chi nega l’Olocausto

A Bruxelles la risoluzione passa con 617 sì. Appello a fermare antisemitismo e razzismo. Frattini: convincerò Castelli

di Sergio Sergi

BRUXELLES Un bel voto, uno dei più belli del Parlamento europeo: 617 a favore e 10 astenuti. Nessun voto contrario. La risoluzione che, nel 60° dell'Olocausto, rende omaggio alle vittime del nazismo, condanna le tesi revisioniste e negazioniste e mette in guardia dall'insorgere dei fenomeni antisemiti e razzisti, ha ricevuto un consenso davvero massiccio. Salutato da un'ovazione commossa. E dal successivo omaggio che il presidente Josep Borrell e tutti i capigruppo hanno reso alle vittime recandosi alla cerimonia di Auschwitz subito dopo l'esito del voto. Una bella pagina, quella scritta dal Parlamento europeo riunito a Bruxelles. Macchiata soltanto da quelle dieci astensioni, una delle quali espressa dal deputato italiano dell'Udc, Raffaele Lombardo. Persino gli indipendentisti hanno votato a favore pur non comparendo tra i firmatari, e persino i leghisti, evidentemente fiutando il rischio dell'isolamento. Cosa che, tuttavia, non ha fermato Borghezio dall'accomunare il «pericolo islamico» e il «razzismo antisemitico» e dal dichiarare la nota contrarietà della Lega alla «direttiva europea sull'immigrazione», materia gestita dal commissario Frattini. Un voto a favore su un testo antirazzista ma è salva l'anima. Un voto a favore, quasi una contraddizione in termini, su un documento che chiede con fermezza che si riprenda il confronto e si giunga all'approvazione della «Decisione quadro» su razzismo e xenofobia, bloccata proprio dal veto del ministro leghista Castelli. La risoluzione sull' Olocausto sollecita la proclamazione del 27 gennaio come giornata di ricordo in tutta l'Unione e incita a mettere in campo iniziative scolastiche, un rafforzamento delle campagne d'informazione al fine di «promuovere» la consapevolezza, soprattutto tra i giovani, e per aiutare a trarre le lezioni della Storia. E una lezione di storia, anche questa elegante e sofferta, l'ha fornita in aula Martin Schulz, il capogruppo del Pse. Il quale, formulando un emendamento orale alla risoluzione, ha messo fine ad un non tanto sottile stato di tensione sulla definizione geografica del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Il testo giunto in aula, già frutto di un complicato compromesso, parlava di «campo di morte dei nazisti di Hitler». Schulz si è alzato e ha detto: «Propongo che si dica che Auschwitz è stato un campo di sterminio della Germania nazista. Si, è bene ponderare ogni parola e con questa formulazione si esprime la responsabilità speciale della Germania e, al tempo stesso, si stabilisce che è stata dei nazisti». Quando si è seduto, Schulz ha ricevuto un applauso che ha commosso. E il capogruppo del Ppe, Hans Poettering, anch'egli tedesco, ha preso la parola per sostenere l'emendamento. Applausi anche per lui. In questo clima rasserenato, è, stato approvato anche un emendamento del polacco Boguslaw Sonik con cui si afferma che nel campo sono stati eliminati «un milione e mezzo di ebrei, rom, polacchi, russi, e prigionieri di varie nazionalità, omosessuali». Respinto al mittente, invece, il tentativo di Romano La Russa (fratello di Ignazio) che voleva ricordare il genocidio degli armeni, i crimini nei gulag sovietici e nelle foibe dell'ex Jugoslavia. Proprio nel giorno della memoria, il commissario Franco Frattini, nel corso di una conferenza stampa, ha confermato le minacce che gli sono giunte attraverso una lettera firmata con una svastica, Frattini, da responsabile del portafoglio «Giustizia, Libertà e Sicurezza» ha proposto di recente l'interdizione dei simboli del nazismo e la ripresa del confronto nell'Ue sulla «Decisione quadro» contro il razzismo e la xenofobia. Il commissario (e vice presidente) ha annunziato anche che tenterà di convincere il ministro italiano della Lega, Roberto Castelli, a togliere il veto del governo sul provvedimento contro il razzismo. «Cercherò di rassicurarlo», ha detto. Castelli ha replicato che Frattini si renderà conto «di come sarà difficile fare approvare le modifiche (quelle del Guardasigilli alla "Decisione", ndr.) ad alcuni Stati membri». Castelli si è sempre trincerato dietro il tema della libertà di espressione. Ma Frattini è apparso deciso. Per esempio, quando ha parlato di messa al bando, ha insistito nella necessità di punire «tutti i comportamenti e gli atteggiamenti che possano evocare il dramma del nazismo».


«La Shoah colpa dell’Europa, per gli arabi il problema è Israele»

L’intervista Khaled Fuad Allam – Lo studioso: l’antisemitismo nel mondo musulmano è un fenomeno recente, nasce soprattutto dal conflitti israelo-palestinese

Umberto De Giovannangeli

ROMA «La valenza e la tragica unicità della Shoah interroga soprattutto la coscienza dell'Europa che ha coltivato al proprio interno i germi, culturali, religiosi, politici, che hanno prodotto il Terzo Reich e i campi di sterminio nazisti. Storicamente, nel mondo arabo e musulmano l'accettazione dell’ “altro da sé”, in questo caso dell'ebreo, è un elemento caratterizzante, identitario. L'affermarsi dell'antisemitismo è un fenomeno più recente, metapolitico, legato alla nascita dello Stato d'Israele e ai conflitti arabo-israeliani». A sostenerlo è il professor Khaled Fuad Allam, sociologo del mondo islamico.

Il mondo islamico e la Shoah. Si può parlare di un diffuso atteggiamento negazionista o comunque fortemente riduttivo dell'Olocausto nel mondo arabo e musulmano?

«La valenza della Shoah come l'abbiamo conosciuta in Europa, una tragedia che interroga la coscienza dell'umanità, non ha un analogo riscontro nel mondo arabo e musulmano. E questo perché storicamente non è mai successo un fenomeno analogo nel mondo islamico. Al contrario, la storia del mondo islamico è segnata da importanti eventi di accoglienza: penso, ad esempio, gli ebrei cacciati dalla cattolicissima Spagna trovarono rifugio nel califfato a Istanbul. La Shoah è, in un certo senso, incompatibile con la visione antropologica della società musulmana, a cui è estranea l'idea di distruggere scientificamente una razza, colpevole solo di esistere. Un musulmano non lo capirebbe mai».

Non può però negare che nel mondo arabo sia presente l'antisemitismo.

«Non lo nego affatto, anzi ne sono alquanto preoccupato. Rilevo che questo fenomeno è un fenomeno più recente che si nutre di un negazionismo di matrice occidentale e che si intreccia con forme di modernità politica. In una formula, Irving più nazionalismo arabo che usa argomentazioni antisemite per rafforzare il proprio antisionismo».

Una delle critiche che le élite intellettuali arabe rivolgono a Israele è quella di strumentalizzare la Shoah per giustificare la politica del pugno di ferro nei confronti dei palestinesi.

«Si tratta di un atteggiamento estremamente pericoloso che però riguarda una certa frangia di intellettuali. Eviterei però di generalizzare. Si tratta peraltro di un fenomeno recente, quindici anni fa non esisteva. È un antisemitismo che si è adattato alla situazione politica delle relazioni israelo-palestinesi. Quel conflitto nella parte araba si alimenta in modo acculturato di queste forme nuove di antisemitismo. È una cosa costruita artatamente, ma non si può dire che questo antisemitismo politico incontri il sentimento delle masse arabe e musulmane, il loro tratto identitario, la loro cultura. La storia ci insegna che per molti secoli ebrei, arabi, musulmani hanno vissuto insieme. Ai miei studenti all'inizio dell'anno accademico mostro delle fotografie del primo Novecento in Algeria di persone e sfido chiunque a dirmi questo è un musulmano, questo è un ebreo...è impossibile distinguerli perché partecipavano alla stessa cultura. Così si capisce che l'antisemitismo è il prodotto dell'acculturazione indotta di queste società e della conflittualità politica, ma non si alimenta all'interno di una dimensione escatologica come lo è per la storia del cristianesimo e, soprattutto, dell'Europa».

Resta il fatto che in alcuni Paesi arabi si trasmettono programmi fondati sui Protocolli dei savi anziani di Sion

«Tutto questo è il prodotto di una acculturazione recente: ottant'anni dopo, il mondo arabo scopre i "Protocolli" per usare il passato al fine di contestare una realtà ormai acquisita: lo Stato di Israele».

Oggi nel mondo arabo e musulmano che percezione c'è dell'altro da sé, del «diverso» che l'Ebreo ha storicamente simboleggiato?

«Conosco un grande intellettuale israeliano, Stefan Moses, che durante le leggi razziali in Francia trovò rifugio in Marocco, perché il sultano del Marocco aveva rifiutato di applicare le leggi razziali: gli ebrei erano protetti dalla monarchia marocchina. La dimensione comunitaria propria dell'identità musulmana faceva sì che ciascuno viveva sulla base delle rispettive convinzioni religiose e identità culturali e ciò non impediva assolutamente una compenetrazione fra elementi culturali eterogenei. È il nazionalismo che ha spaccato questa fraternità costitutiva di questo mondo, ed oggi il mondo, non solo quello musulmano, è orfano di una fraternità che la politica non riesce a ricostruire. Ma ciò ci offre anche una speranza, nel senso che nei rapporti tra ebrei e musulmani in Palestina questa fraternità è qualcosa che è esistito storicamente e questo ci permette di pensare che alla fine i rapporti possano ricrearsi».

Da l'Unità, 28 gennaio 2005, per gentile concessione

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