l'Unità
Giorno della Memoria
1946, a
Glasgow nasce il "negazionismo"
di Francesco
Cassata
Il
primo a negare la Shoah fu, a quanto pare, uno scozzese di nome Alexander
Ratcliffe, leader della Scottish - poi British - Protestant League, eletto
consigliere a Glasgow nel 1933 sulla base di una campagna anticattolica. Tra la
fine del 1945 e l'inizio del 1946, sulla rivista Vanguard, Ratcliffe
sostenne che la Shoah era un’invenzione degli ebrei e che i cinegiornali, che
mostravano la carneficina di Belsen e altri campi, erano in realtà pellicole «contraffatte
nelle sale cinematografiche ebraiche». Da allora fino ai nostri giorni, il
negazionismo ha rappresentato un filo rosso della destra radicale europea e
americana: da Maurice Bardèche a Paul Rassinier, da Robert Faurisson a David
Irving. Fino agli italiani, come Cesare Saletta o Carlo Mattogno. In Italia, gli esordi del negazionismo appaiono piuttosto
stentati e risalgono probabilmente - come sostiene il principale storico
dell'argomento, Francesco Germinario - al 1963, data della pubblicazione di un
opuscolo da parte del Gruppo di Ar di Franco Freda. Emerge in queste pagine
un'argomentazione centrale della futura pubblicistica negazionista: quella della
non funzionalità dello sterminio degli ebrei rispetto alle necessità
economico-militari del regime nazista in guerra. La Shoah sarebbe storicamente
impossibile - si afferma - perché in contraddizione con le esigenze produttive
dell'economia tedesca. Negli anni Sessanta e
Settanta, il negazionismo italiano conosce due successive false partenze. Tra il
1965 e il 1967 vengono pubblicate, con scarsa diffusione ed eco, le principali
opere del negazionista francese, Paul Rassinier, mentre, più di un decennio
dopo, alla fine degli anni Settanta, si apre una nuova, effimera stagione di
fermento negazionista con l’uscita di Auschwitz o della soluzione finale.
Storia di una leggenda di Richard Harwood (pseudonimo del negazionista inglese
Richard Verral) e di Lettera al Papa sulla truffa di Auschwitz dell’ex-generale
delle Waffen-SS, Léon Degrelle. Nei due saggi sono
sintetizzati alcuni luoghi comuni tipici del negazionismo: l’internamento nei
lager come misura provvisoria derivante dal fallimento della politica antisemita
precedente; il drastico ridimensionamento del numero delle vittime;
l’inesistenza delle camere a gas e dei forni crematori; la banalizzazione
della Shoah come momento comune a tutte le guerre. È questo un negazionismo
dichiaratamente neonazista e antisemita, che non esita a riaffermare
l’immagine diabolica dell’ebreo. Con una delle più paradossali aporie del
cospirazionismo antisemita, tanto per Degrelle quanto per Harwood, Auschwitz è
anch’esso espressione del complotto ebraico: la menzogna dello sterminio
ebraico sarebbe stata costruita dagli ebrei per colpevolizzare storicamente i
nazionalismi europei, per meglio attuare il dominio sionista-colonialista
sull’Occidente e per realizzare la costituzione dello Stato d’Israele. Oltre che negli ambienti della destra radicale, agli inizi
degli anni Ottanta, anche in Italia, come in Francia, il negazionismo italiano
fa capolino fra le fila dell’estrema sinistra. I suoi protagonisti sono il
militante dell'estremismo bordighista, Cesare Saletta, e il situazionista Andrea
Chersi. Nei saggi del primo, il più importante, sono due le argomentazioni
ricorrenti. Lo
sterminio degli ebrei - in numero assai limitato - è il risultato non di una
scelta politica nazista, ma di un sistema concentrazionario sprofondato nel
caos. In secondo luogo, le camere a gas e i forni crematori costituiscono il
mito su cui si è fondata un’ideologia reazionaria e interclassista,
l’antifascismo, colpevole di aver condensato l’interpretazione del nazismo
nella centralità della Shoah, trascurando così il problema storico delle
effettive radici di classe della dittatura hitleriana. In poche parole, lo
sterminio degli ebrei sarebbe una truffa organizzata dall’antifascismo
liberaldemocratico-stalinista in combutta col sionismo ai danni del proletariato
rivoluzionario europeo. La terza fase del
negazionismo italiano, la più virulenta, è anche la più recente, collocandosi
fra il 1985 e il 1994. È un revisionismo negazionista in parte nuovo, che,
sulla scorta della lezione di Faurisson, intende presentarsi non più come una
«storiografia dei vinti», che contrappone la memoria del nazifascismo a quella
dell’antifascismo, ma come l’unica ricostruzione storica credibile in quanto
anti-ideologica e scientisticamente neutrale. In Italia, il nome di riferimento,
in questo caso, è quello di Carlo Mattogno, con i suoi vari saggi e opuscoli,
dal titolo quanto mai esplicito: Il rapporto Gerstein. Anatomia di un mito; La Risiera di San Sabba. Un falso grossolano; Il mito dello sterminio
ebraico. Introduzione storico-bibliografica alla storiografia revisionista
su Auschwitz. Due false testimonianze e Auschwitz. Un caso di plagio. L’approccio
di Mattogno riprende, in particolare, due strategie argomentative elaborate
alcuni anni prima da Faurisson: innanzitutto, la constatazione di imprecisioni
nelle testimonianze dei sopravvissuti viene utilizzata come prova
dell’inesistenza stessa della macchina dello sterminio; in secondo luogo, la
presenza di un dibattito storiografico fra le diverse interpretazioni della
Shoah si traduce in una prova dell’inesistenza stessa dell’oggetto del
dibattito. Oltre al susseguirsi dei lavori di Mattogno, a partire dalla seconda
metà degli anni Ottanta fino a tutto il decennio successivo, si assiste ad un
profluvio di pubblicazioni, quasi tutte edite da Sentinella d’Italia, La
Sfinge e, agli inizi degli anni Novanta, dalla AR di Franco Freda e dalla
Graphos di Saletta, a cui bisogna aggiungere la presenza di tematiche
negazioniste nelle riveste d’area, quali Candido, Orion, Avanguardia.
Tuttavia, nonostante questa vasta produzione editoriale e a dispetto del
tentativo di accreditarsi utilizzando il paradigma storiografico noltiano, il
negazionismo italiano non è mai riuscito ad esercitare una qualche influenza al
di fuori degli ambienti neonazisti. Nel frattempo, è notizia recente, la Raf ha
messo su Internet le foto di Auschwitz scattate nel 1944 dai suoi piloti. La
convergenza di prove (documenti scritti, testimonianze oculari, fotografie,
prove deduttive), che dimostra incontestabilmente la realtà storica della
Shoah, è sempre più alla portata di tutti.
Ore 15,
l'Armata Rossa abbatte i cancelli dell'inferno
di Liliana
Picciotto
Per
gli Alleati dal punto di vista logistico divenne possibile bombardare la Polonia
solo nel gennaio del 1944 quando si poté disporre della base aerea di Foggia
nell’Italia Meridionale liberata. Prima di allora, le basi che dovevano
fornire sia i bombardieri, sia gli aerei da intercettazione necessari ad ogni
raid, dislocate a Dover nel Kent a parecchie migliaia di chilometri di distanza,
erano troppo lontane da Auschwitz (in polacco Oswieçim). Fotografie aeree della zona di Auschwitz furono prese per la
prima volta da aerei alleati, da un’altezza di 15-20.000 piedi, il 14 aprile
1944. Dopo un attento esame delle fotografie prese nelle missioni fotografiche
aeree, il 18 luglio 1944 la fabbrica petrolchimica (fabbrica di petrolio
sintetico estratto dal carbone delle vicine miniere) di Monowitz (anche campo di
concentramento denominato Auschwitz III, descritto mirabilmente da Primo Levi) a
2 miglia di distanza dal centro della citta di Oswiecim fu per la prima volta
designata come obiettivo da bombardare. Il 7 agosto
gli alleati effettuarono il primo pesante bombardamento aereo sulla zona durante
il quale furono parzialmente distrutte la fabbrica chimica Oberschlesische
Hydrierwerke a Blechhammer e la raffineria di petrolio a 12 miglia a nord ovest
di Auschwitz. Il 20 agosto, nuovamente, con
condizioni atmosferiche favorevoli, 127 bombardieri e 100 aerei da caccia
scaricarono le loro bombe sulla IG Farbenindustrie per 28 minuti consecutivi.
Gli obiettivi colpiti furono anche: la stazione ferroviaria e i condotti
dell’acqua di Tschechowitz, a circa 15 miglia dalla stazione di Auschwitz, una
raffineria di petrolio, una fabbrica elettrotecnica, la fabbrica di mattoni a
Bestwin. Dentro al campo di Auschwitz, e soprattutto al suo sottocampo Birkenau
(o Auschwitz II) erano sistemati sei impianti di sterminio riservati ai continui
convogli di deportati ebrei che vi erano mandati da tutta l'Europa occupata: due
camere a gas con fosse di cremazione per la consunzione dei corpi chiamate
bunker I e bunker II, più quattro camere a gas con forni crematori per la
consunzione dei corpi, chiamate crematori II, III, IV e V. Nelle stesse
strutture finivano anche i prigionieri del campo non ebrei che dopo un breve
periodo di lavoro schiavo a favore dell’economia del Reich erano sfiniti dalla
fatica e dalla sottoalimentazione. Notizie sulla politica nazista del genocidio
erano già trapelate, ma allora ancora nessuno sapeva che proprio Auschwitz era
il centro di tale politica. Quando iniziarono i bombardamenti sulla zona, il
racconto dei massacri che proprio al suo interno venivano perpetrati, riportato
da due eroici evasi, Rudolf Vrba e Alfred Wertzler, era conosciuto solo da
pochissimi e non ancora reso pubblico. La regione venne dunque bombardata non già
per tentare di fermare lo sterminio degli ebrei ancora ampiamente in corso, ma
solo come zona industriale e quindi come obiettivo strategico. Il
25 agosto, infatti, aerei da ricognizione fotografarono nuovamente la zona, da
un’altezza di 30.000 piedi, per constatare i danni all’industria. Tra i
fotogrammi, se molto ingranditi, si possono riconoscere le strutture dei campi
sia di Auschwitz, sia di Auschwitz-Birkenau. Si riconosce la cosiddetta
Bahnrampe (la rampa ferroviaria appositamente prolungata fino all'interno di
Birkenau per facilitare le operazioni di scarico dei deportati e del loro
immediato assassinio) con un convoglio di 33 vagoni fermo e una fila di persone
avviate verso uno dei crematori. Molto precise sono anche le riprese del campo
principale Auschwitz (Auschwitz I) nel quale si riconosce una fila di persone in
attesa di essere registrata o in attesa di vestiti disinfestati (registrazione e
disinfestazione avevano sede nello stesso edificio). Tutto ciò però, con il
senno di poi, poiché l'analisi coeva delle fotografie aeree da parte di
militari esperti, non essendo dedicata all’individuazione di strutture di
sterminio ma solo di fabbriche, non portò al riconoscimento del campo di
Auschwitz come luogo di assassinio di massa. Le cancellerie occidentali avevano
allora già ricevuto da Edvard Benes, capo del governo slovacco in esilio, un
appello ufficiale per un intervento aereo sul campo di sterminio, ma
l'orientamento dei politici alleati fu quello di non distogliere forze militari
per missioni aventi per obiettivo il salvataggio di civili. Il 13 settembre 1944
ci fu un altro pesantissimo bombardamento sulla fabbrica chimica della IG
Farbenindustrie durato 13 minuti consecutivi, nel quale furono dispiegati 96
bombardieri alleati. Furono sganciate 1000 bombe da un’altezza di 23.000
piedi. Questa volta le bombe raggiunsero anche il campo di Auschwitz e due di
esse Birkenau, ma soltanto per caso. L’esercito russo nel frattempo, faceva la
sua parte: con una controffensiva iniziata nell’estate del 1943, alla fine
dell'anno si era ormai spinto fino alle frontiere polacche e romene,
raggiungendo nel gennaio del 1944 la Crimea e l’Ucraina. Il 24 luglio del 1944
liberò l’altro grande campo di concentramento e sterminio simile ad
Auschwitz, Majdanek presso Lublino, trovandovi migliaia di prigionieri sfiniti
dai maltrattamenti e decimati da operazioni assassine tese a liberarsi di
“inutili bocche da sfamare”. In agosto del 1944 i sovietici raggiunsero la
Romania, in settembre la Bulgaria, in autunno erano a Varsavia. L’avvicinarsi
inesorabile dell’esercito russo e l’esaurimento di ebrei da sottoporre
all'assassinio sistematico dentro alle strutture di sterminio di Auschwitz
indussero le autorità tedesche a sospendere lo sterminio il 2 novembre 1944,
dopo 19 mesi di una spaventosa ecatombe. Per la prima volta dopo mesi, il 3
novembre 1944 un convoglio carico di ebrei, anziché subire come di norma la
selezione iniziale tra abili da introdurre in campo e inabili (cioè donne con
bambini appresso, anziani, persone con i capelli bianchi, bimbi e adolescenti
sotto i 13 anni), fu fatto entrare interamente nel campo. Poco prima che
intervenisse questo cambiamento, molta parte di Birkenau era stata svuotata
tramite uccisione con camere a gas dei suoi abitanti. Tra il 29 agosto e il 29
ottobre, 3284 detenuti del campo di quarantena maschile erano stati assassinati,
mentre tra settembre e novembre, stessa sorte era toccata alla maggioranza dei
componenti del Sonderkommando, gli addetti alle camere a gas testimoni oculari
del genocidio. Il 14 ottobre era iniziata la demolizione dell’interno del
crematorio IV fatto saltare in precedenza dai rivoltosi del Sonderkommando, il
25 novembre la demolizione del crematorio II e il 1° dicembre del crematorio
III. Il Crematorio V fu lasciato in attività fino a metà gennaio del 1945.Non
è escluso che alla decisione della sospensione dello sterminio abbia
contribuito il fatto che ormai la notizia sul genocidio degli ebrei era divenuta
cosa nota in Occidente e che di lì a poco, nello stesso mese di novembre un
rapporto in tale senso sarebbe stato pubblicato a Washington a cura del War
Refugee Board e simultaneamente a Ginevra. Alla fine di novembre 1944 in effetti
anche il grande pubblico poté leggere con orrore sul New York Times i
particolari raccapriccianti delle azioni tedesche all’interno del campo di
Auschwitz. Nel frattempo, sotto la pressione dell’avanzata sovietica, era
iniziata l’evacuazione del campo stesso. Secondo le direttive contenute in un
documento del 21 dicembre 1944 a firma Fritz Brach, Gauleiter dell’Alta
Slesia, i prigionieri di guerra e i detenuti della provincia dovevano, in caso
di minaccia diretta da parte del nemico, essere evacuati a piedi, almeno nella
prima tappa del viaggio. I comandanti di queste
colonne di prigionieri dovevano considerare i detenuti che tentavano la fuga
come colpevoli di sabotaggio, fatto che comportava l’immediata fucilazione.
L'ordine specifico per la liquidazione dei prigionieri di Auschwitz inabili alla
marcia fu dato dal comandante delle SS e della polizia di Breslau, Schmauser, il
20 gennaio del 1945.Tra il 18 e il 21 gennaio 1945, 58.000 detenuti vennero
fatti uscire incolonnati dal complesso Auschwitz-Birkenau-Monowitz e dai
sottocampi diretti verso ovest. La strada più lunga fu percorsa da 3.200
prigionieri del sottocampo di Jaworzno fino al Konzentrationslager Gross-Rosen
nella Bassa Slesia, circa 250 chilometri a piedi. Durante le marce, non a caso
chiamate “marce della morte”, i prigionieri che avanzavano nella neve e nel
fango del duro inverno slesiano, denutriti e insufficientemente vestiti, erano
sorvegliati da guardie armate che uccidevano senza pietà coloro che tentavano
la fuga o rimanevano indietro. Dopo la marcia a piedi
fino alle cittadine di Gliwice o di Wodzislaw Slaski, i prigionieri che
riuscirono ad arrivarci, sfiniti dalla fame e dal freddo, vennero caricati su
vagoni merci scoperti per essere trasportati nei campi di concentramento posti
all'interno del Reich. I principali campi di destinazione furono: Gross Rosen,
Buchenwald, Sachsenhausen, Ravensbrueck. Poiché non avevano diritto al cibo, la
maggior parte di essi, infreddoliti, affamati, febbricitanti, morì durante quel
terribile viaggio, scivolando semplicemente in mezzo ai compagni impossibilitati
a muoversi per il sovraffollamento. Le strade dove
passavano le colonne in marcia, così come le vie ferroviarie erano disseminate
di migliaia di corpi di prigionieri fucilati o morti di sfinimento e di freddo.
In alcune località, come nei pressi della cittadina di Rybnik nella notte tra
il 21 e il 22 gennaio, le SS massacrarono, senza un'apparente ragione, gruppi
cospicui di prigionieri. Durante la marcia dei prigionieri dal sottocampo di
Blechhammer a Gross Rosen, altri 800 detenuti furono massacrati. Il numero, non
ufficialmente noto, delle vittime delle cosiddette marce della morte, è stimato
tra 9000 e 15.000 persone. Il 26 gennaio 1945, le truppe russe avanzando da est
attraversarono la Vistola dirigendosi decisamente verso la regione dell’Alta
Slesia. Si trattava della 60ª Armata del Primo Fronte Ucraino. Tre divisioni
circondarono le forze tedesche ad Auschwitz: quella che avanzava più
rapidamente, la 100ª del 106° Corpo raggiunse Monowitz la mattina del 27
gennaio 1945. A mezzogiorno dello stesso giorno i russi marciavano nel mezzo
della città di Oswieçim e al pomeriggio raggiunsero Birkenau e il
Konzentrationslager di Auschwitz dove incontrarono una debole resistenza da
parte di gruppi di tedeschi in ritirata. Alle ore 15, anche i due campi venivano
liberati. Il comandante dell’Armata Rossa che liberò Auschwitz, a costo della
vita di 231 soldati russi, fu il generale Pawel Kurochkin. Il totale dei
prigionieri liberati in tutto il comprensorio di Auschwitz fu di 7000 persone,
affamate e debilitate dalla lunga attesa, senza un briciolo di speranza di
sopravvivere. Assieme ai prigionieri liberati, i soldati russi trovarono i resti
dei falò di documenti bruciati dai tedeschi in ritirata. I crimini perpetrati
dentro ad Auschwitz avevano però lasciato tracce dappertutto: cumuli di
vestiti, di occhiali, di capelli, di protesi, di giocattoli, di valigie e di
tutti gli oggetti portati colà dai poveri deportati, oltre a montagne di ceneri
di corpi cremati, erano là ad accusare i nazisti. Per prima si mise al lavoro
la Commissione sovietica di investigazione dei crimini nazisti, sostituita dopo
un mese dalla Commissione polacca diretta dal giudice Jan Sehn. La parola era
ora alla giustizia internazionale.
Ecco cosa
distingue il lager dal gulag
di Brunello
Mantelli
«Basta
gettare sui Lager uno sguardo privo di pregiudizi per accorgersi che i campi di
sterminio (Vernichtungslager) erano qualcosa di sostanzialmente diverso dai
campi di concentramento (Konzentrationslager). Un essere umano detenuto in un
campo di concentramento era un detenuto precedentemente arrestato. Al momento
del trasferimento nel campo veniva registrato, munito di un numero, provvisto di
una divisa e destinato ad un “blocco”. Gli esseri umani trasportati in un
campo di sterminio, invece, non erano stati arrestati, bensì raccolti in un
ghetto o ammassati per essere trasportati fuori da un ghetto. Non venivano
registrati in alcun modo né alla partenza né all’arrivo; non appena
giungevano a destinazione venivano uccisi col gas. I cadaveri erano portati in
un crematorio e bruciati. L'elemento che accomuna tutti i campi di sterminio è
il fatto che uccidere fosse il loro unico fine. Ai fini della conoscenza questa
distinzione (tra campo di concentramento e campo di sterminio) è tanto più
importante, in quanto può essere operata soltanto al riguardo del
nazionalsocialismo, sicché nell’ambito di un confronto con il comunismo
sovietico si può facilmente pervenire ad una confusione di idee, che in molti
casi è stata intenzionalmente provocata».
Così scrive lo storico polacco Andrzej J. Kaminski, autore
di una Storia generale dei campi di concentramento dal 1896 ad oggi (Torino,
Bollati Boringhieri, 1997) il cui perno è la comparazione tra Lager nazisti e
Gulag sovietici. Anche dal punto di vista biografico Kaminski aveva le carte in
regola per condurre un’analisi del genere: militante della resistenza
nazionalista polacca (Armia Krajova), fu deportato dai nazisti a Gross-Rosen e a
Flossenbürg; nel dopoguerra, schierato su posizioni anticomuniste, fu
perseguitato dal regime filosovietico e più volte incarcerato finché, nel
1973, ottenne il permesso di espatriare trovando rifugio nella Germania
federale. Fermamente convinto non solo della possibilità, ma altresì della
necessità di mettere a confronto i sistemi concentrazionari, egli però è
altrettanto netto nell'escludere da ogni paragone i campi della morte
(Treblinka, Sobibor, Chelmno, Belzec, Auschwitz II - Birkenau), che ebbero un
ruolo preminente nella Shoah. Povero Kaminski! Se
fosse ancora vivo (è morto nel 1985) sarebbe stato sicuramente rimbrottato dai
giovanotti del Riformista, i quali lo scorso 5 dicembre, nel dare la
notizia di un importante convegno milanese sul Gulag, non si peritavano di
scrivere che il sistema concentrazionario sovietico sarebbe «un abominio non
inferiore alla Shoah», affermando che oggi sarebbe dominante la «tesi che
ritiene non paragonabile o non misurabili con un unico metro morale umano i
genocidi e gli stermini subiti dagli ebrei e da intere popolazioni o classi
sociali». Va da sé che i volonterosi ma un po’ confusionari «nuovi
riformisti» prendono una serie di granchi: 1) che si possano e si debbano
comparare i sistemi concentrazionari è appena ovvio per gli studiosi; 2) ma la
comparazione serve a capire somiglianze e differenze, non a fare di ogni erba un
fascio; 3) il problema non è quello di servirsi di un «unico metro morale»,
altrimenti ogni discorso si chiude prima ancora di iniziare: un omicidio è un
omicidio, non c’è bisogno di dire altro, ma di capire cosa è avvenuto e
come, ed allora servono ben altri strumenti analitici. Assai
più sorprendente è però leggere ciò che scrive il 9 gennaio sul Corriere
della Sera Ernesto Galli della Loggia, che invece lo storico lo fa di
mestiere, essendo nei ruoli dell’Università di Perugia come professore
ordinario. Il Galli infatti afferma che il titolo del Riformista è
esattissimo. Eppure lui, per obblighi professionali, Kaminski lo dovrebbe
conoscere, e dovrebbe avere presente che la differenza cruciale (che non
riguarda il piano etico, naturalmente) tra macchina concentrazionaria nazista e
macchina concentrazionaria sovietica sta proprio nell’esistenza dei campi di
sterminio immediato (quelli che ho appena citato) i quali sono bensì simili ai
più noti Konzentrationslager, ma sono da essi autonomi e finalizzati
all’eliminazione fisica degli ebrei d’Europa. È la Shoah la differenza
specifica tra i due sistemi concentrazionari, in base da un lato alla
finalizzazione specifica della struttura eliminatoria, dall’altro alla sua
organizzazione che ricalca la burocratizzazione e le modalità operative dello
Stato e della fabbrica moderni. Se non si tiene presente questa differenza
qualitativa si finisce per banalizzare la Shoah stessa, trovandosi per di più
in assai discutibile compagnia (da Ernst Nolte a Jean Marie Le Pen). È noto
infatti come un argomento abusato di coloro che vorrebbero che quel passato
passasse definitivamente è proprio la considerazione che la Shoah in fondo non
sia dissimile a tanti altri massacri avvenuti nella storia dell'umanità. Non si
rendono conto, i banalizzatori, di far ricorso a sofismi perfettamente identici
a quelli utilizzati dagli apologeti di entrambi i sistemi contrapposti? Non
suonava così il discorso principe degli antichi lodatori dell’Urss: «Perché
parlate del Gulag, è del Lager che si deve ragionare!». E viceversa, gli
anticomunisti da guerra fredda: «Perché continuate a tirar fuori i Lager e lo
sterminio degli ebrei, parliamo invece del Gulag!». Sotto
questi ultimi aspetti ha già risposto, tanto ai neoriformisti «arancioni»
quanto al professore perugino, Furio Colombo (l’Unità del 10 e del 14
dicembre), ricevendone in cambio da un lato una risposta che assomiglia a una
rapida marcia indietro: l’11 gennaio, sul Riformista, Ernesto Galli
avrebbe scritto infatti la sibillina e contraddittoria frase: «Dire che i Gulag
furono un abominio non inferiore alla Shoah non significa negare l’unicità
dell’Olocausto» (subito seguito dal fedele discepolo «riformista» che, lo
stesso giorno scrive «l’unicità della Shoah è un giudizio storico acquisito»
- ma allora perché fare paragoni indebiti?), dall’altro una reprimenda un
po’ pedante: «Non per fare il professore, ma le uniche due citazioni storiche
nell’articolo di Colombo sono sbagliate. Se uno vuol dare delle lezioni di
storia dovrebbe come minimo citare con esattezza le uniche due fonti che cita».
In linea di principio condivisibile, ma allora che dire di
chi, professore essendolo da anni, sembra sia ignorare la storiografia
consolidata proprio sul tema della comparazione, sia cadere nell’errore di
sovrapporre e confondere giudizio morale e ricostruzione storica? La verità è
che la storia è disciplina severa, richiede studio, ricerca ed applicazione,
lavoro d'archivio, ricognizione costante della bibliografia aggiornata. Tutte
cose scarsamente compatibili con la produzione a getto continuo di «brillanti»
elzeviri sulla stampa quotidiana.
Da l'Unità, 26 gennaio 2004, per gentile concessione
Dichiarazione
del Presidente della Repubblica in occasione del
"Giorno della memoria"
La
Giornata della Memoria in, vita a riflettere sulla Shoah, sullo sterminio degli
ebrei, di un intero popolo, organizzato dal nazismo: un evento che non ha
l'eguale nella Storia. Ricordiamo, perché la stessa enormità di quanto
accadde In quegli anni, in cui vennero uccisi sistematicamente sei milioni di
ebrei, ossia la maggior parte degli ebrei che allora vivevano in Europa, rende
quel crimine quasi incredibile: "Meditate, che questo è stato", è
il monito che ci ha lasciato Primo Levi. Ricordiamo affinché l'orrore non possa
ripetersi. Affinché
ogni manifestazione di antisemitismo, di razzismo in tutte le sue forme,
venga condannata e messa al bando.
Ricordiamo i colpevoli: l'ideologia razzista di Hitler e coloro che furono gli
strumenti e i collaboratori che resero possibile, anche in Italia, le
deportazioni. Ricordiamo i giusti, coloro che agirono secondo coscienza e
spirito di umanità. Ci dà conforto ricordare che fra loro ci furono anche
tanti italiani, migliaia di persone, semplici cittadini, funzionari,
diplomatici,
militari che in ogni regione d'Italia, e oltre confine in Grecia, in
Jugoslavia, nel sud della Francia, salvarono, a rischio della loro vita, la
vita di migliaia di ebrei, italiani o stranieri. La democrazia, la giustizia,
l'amore del prossimo che ci è stato insegnato siano la nostra forza, riflettendo
sul passato, guardando a un futuro che vogliamo sia di pace e di concordia fra
tutte le genti.
Carlo Azeglio Ciampi
Dichiarazione del presidente Prodi per il "Giorno della Memoria"
Il
27 gennaio, data in cui, nel 1945, fu liberato il campo di Auschwitz, è per
noi il giorno della memoria, il giorno in cui commemoriamo la Shoah, le
persecuzioni e lo sterminio del popolo ebraico. La memoria della Shoah,
tragedia unica e senza precedenti, ha un valore universale. L'umanità non ha
smesso di macchiarsi di crimini come il genocidio, la pulizia etnica, il
razzismo, la xenofobia, l'antisemitismo. Tutti gli uomini e le donne del
Ventunesimo Secolo hanno la responsabilità di combattere e impedire questi
orrori. La memoria della Shoah ha un significato ancora più forte per
l'Europa. È in Europa che la Shoah si è prodotta. È sulla lezione della Shoah che
è nata la nuova Europa, l'Europa unita, fondata sul rispetto della persona
umana, del diritto e della libertà. Riprendendo la dichiarazione del Forum
Internazionale di Stoccolma sull'Olocausto del gennaio 2000 e la dichiarazione
dei ministri europei dell'Educazione dell'ottobre 2002, faccio mia e sostengo
la proposta di istituire in una data da scegliere in base alla storia di ciascun
paese membro dell'Unione una "giornata europea della memoria" per
il ricordo delle vittime della Shoah, per la lotta contro ogni crimine contro
l'umanità, per l'omaggio a tutti coloro che, anche a rischio della propria
vita,
si sono opposti e si oppongono a questi orrori.
Romano Prodi
La
mia scelta: ricordare i più ignoti
di
Michele Sarfatti
Di
cosa si ha memoria nel "giorno della memoria"? Di un tragico evento
storico, delle vittime di quell'evento, dei colpevoli, degli
"astenuti", degli oppositori. Per quanto mi concerne, in questo giorno
preferisco dirigere la memoria verso le vittime. Lascio quindi perdere quei
combattenti di Salò che oggi chiedono al nostro Stato un vitalizio per aver
combattuto a favore della deportazione degli ebrei, lascio perdere le tante strade e piazze
dedicate ai fascisti antisemiti,
e lascio perdere anche quei dirigenti televisivi che preferiscono dedicare
programmi a "giusti" inventati e non sono invece capaci di far
rappresentare quel vuoto assoluto che fu l'individuo umano dopo la gassazione,
l'incenerimento e la definitiva dispersione subiti ad Auschwitz. La mia memoria
oggi va alle vittime. Ma non a tutte. È difficile ricordare sei milioni di
persone contemporaneamente (in effetti, non si poté nemmeno ucciderle
contemporaneamente). Quest'anno ho deciso di dirigere la memoria verso un
gruppo di persone particolarmente ignote. Di esse infatti non conosco nemmeno
il nome, e la stessa loro uccisione è attestata da alcuni studiosi senza
particolari aggiuntivi. Per questo ho pensato di commemorarli: per renderli
per quanto possibile persone, individui. E perché la nostra Italia (non
questa repubblica postbellica, ma il regno fascista di allora) sembra avere
avuto un ruolo nella loro vicenda. Un ruolo ancora mal definito. Un ruolo che
dovrà essere chiarito. Avere memoria di loro vuol dire quindi radunare quel
poco che sappiamo, metterlo in ordine, identificare i buchi di conoscenza,
stimolare una ricerca approfondita. Partiamo dall'inizio. Siamo a Prishtina,
in Kosovo, territorio ex-jugoslavo conquistato nel 1941 dall'infame alleanza
italo-tedesca e ben presto accorpato all'Albania, conquistata con infamia
dall'Italia nel 1939. A
Prishtina c'è un’antica comunità ebraica locale, ci sono ebrei originari di
altre zone della non più esistente Jugoslavia, e ci sono ebrei profughi
dall'Europa centrale. Dalla primavera 1941 e fino al settembre 1943, tutti
questi ebrei si trovano sotto le autorità italiane e, in subordine, albanesi.
Il trattamento riservato dalle une e dalle altre agli ebrei locali e a quelli
delle altre regioni jugoslave sembra sostanzialmente simile a quello praticato
in quei mesi nella penisola e nel territorio storico dell'Albania. Ossia:
persecuzione
rigida, ma niente sterminio. Il punto è che una parte (o la totalità; non
sappiamo) degli ebrei centroeuropei di Prishtina ricevette invece un trattamento
diverso. Le informazioni che abbiamo al riguardo assegnano una responsabilità
ad autorità italiane. Ma vediamo cosa dicono. Si tratta di documenti citati nel
recente libro di Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo (Bollati
Boringhieri, 2003), che a pagina 459-460 menziona la decisione del 15 marzo 1942
di un ufficiale superiore italiano di consegnare alle autorità tedesche di
occupazione della Serbia cinquantuno ebrei “tenuti a disposizione nel campo di
concentramento di Pristina”. L'atto (non l'autore) è confermato da fonti
ebraiche dell'epoca: nella corrispondenza dell'ente assistenziale ebraico italiano
Delasem è menzionata la consegna ai tedeschi della Serbia di “un gruppo di 50
circa, uomini; donne e bambini” di Prishtina, Un altro documento dell'epoca
aggiunge un inquietante elemento sulle conseguenze della consegna: il 24
gennaio 1943 il delegato apostolico a Scutari comunica alla Santa Sede che gli
ebrei profughi in Albania temono "di venire mandati in Germania, come già
toccò ad alcuni, perché questo significherebbe la morte". La possibilità
che quest'ultima notizia concerna proprio il gruppo di ebrei di Prishtina sembra
essere confermata da quanto riferiscono due volumi
pubblicati a Belgrado (da Zdenko Lewenthal nel 1957 e da Jasa Romano nel 1980), entrambi
contenenti la notizia di cinquantuno ebrei di Prishtina consegnati nel marzo 1942
alla
Gestapo e da questa uccisi. Questo è tutto ciò che io ho potuto reperire.
L'indicazione netta della responsabilità italiana nella consegna è comparsa
solo pochi mesi fa, nel libro di Rodogno. Sull'uccisione dei consegnati vi è al
momento una "quasi certezza",
non una "certezza netta". Sui motivi della consegna,
nulla sappiamo. Sul fatto che le autorità italiane fossero o no a conoscenza
del destino che attendeva i consegnati, nulla sappiamo (ripeto: in questo
momento, nulla sappiamo). Le identità delle vittime non sono ancora note. In
questi temi, occorre sempre procedere con calma e metodo storico. Le conclusioni
potranno venire solo al termine di una ricerca accurata. Ma le fonti ci dicono
che qualcosa a Prishtina deve essere accaduto. E allora, in questa giornata
della memoria, occorrerebbe proprio decidere di attivare un gruppo di ricerca
per chiarire cosa avvenne, per definire il nostro ricordo di quei cinquantuno
ebrei, piccola goccia di un ebraismo devastato.
Primo Levi: lingua madre, lingua dell’assassino
di Alon Altaras
I
campi della morte erano un territorio ricco di lingue diverse e Primo Levi,
testimone acuto, aveva una grande sensibilità verso i fatti linguistici dei
lager. Nella sua opera, dove sono - presenti l'ebraico, il tedesco, il tedesco
dei lager (una lingua diversa dal tedesco, di Goethe, ad esempio), il polacco,
il greco, l’jiddish, l'ungherese e tante altre, si può osservare come i
diversi fatti linguistici rivelino tragiche vicende umane, colme di sofferenza, ma
anche episodi pieni di speranza e di sensibilità umana e culturale.
Uno dei capitoli più famosi nella produzione di Levi in generale, e nel libro
"Se questo è un uomo" in particolare, è "Il canto di
Ulisse", dove egli cerca di tradurre in francese il ventiseiesimo
dell'Inferno dantesco ("Il canto di Ulisse") ad un prigioniero più
giovane di lui soprannominato "Pikolo". La scelta del canto non è
affatto casuale: l'Ulisse dantesco è una figura mitica particolare, assai
lontana
da quella di Omero. Nell'Inferno, tra le fiamme, Dante e Virgilio incontrano
lingue di fuoco che parlano, e a loro la lingua di Ulisse medesimo racconta lasciando
il vecchio padre e la moglie, per ricercare avventure e l'allargamento de
orizzonti del sapere e della cultura. Il viaggio dell'Ulisse dantesco così
assetato di conoscenza e virtù finisce tragicamente
nel naufragio che chiude il Canto XXVI. Levi, consapevole del valore
terapeutico oltre che politico, come una manifestazione di resistenza contro i
nazisti, si ricorda di questo eroe e anche lui, mentre cammina con il suo
amico francese verso le cucine che daranno il cibo per quel giorno, rischia la
vita per compiere un atto preciso di cultura e di comunicazione umana, proprio
quella negata dai nazisti nei lager. Tradurre è un allargamento dei confini
culturali e del sapere, il campo di concentramento è una negazione del
dialogo dei detenuti con il mondo, con le loro lingue madri, con i loro paesi di
provenienza. Egli non ricorda tutti i versi del canto, ma solo quelli che
possiedono un valore universale. Ogni lettore che leggerà il canto di Dante e
questo capitolo di “Se questo è un uomo” potrà constatare come la
memoria di Levi si concentri solo su quelli più generali sul sapere e sulla
cultura. Primo Levi e il suo amico francese, nelle circostanze assurde in cui
si svolge questo lavoro di traduzione da lingua a lingua, sono consapevoli delle
diversità culturali fra le lingue e le culture, e in questo caso delle
differenze tra il francese e l'italiano. Non solo il valore simbolico sta a
cuore a Primo Levi, ma anche i problemi linguistici che affronta traducendo i
passi universali dell'illustre poeta. Nell'orrendo, contesto del lager, la
famosa terzina che Levi ricorda bene assume un significato particolare e fare
cultura nei campi di concentramento diviene una forma di resistenza. È
interessante il modo in cui Primo Levi richiama l'attenzione del suo
interlocutore
e di noi lettori, così dicendo: “Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la
mente, ho bisogno che tu capisca: “Considerate la vostra semenza/Fatti non
foste a viver come bruti,/Ma per seguir virtute e conoscenza.” Questi
versi balzano come una scossa elettrica nella memoria di Levi detenuto:
“Come se anch'io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba,
come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”.
In realtà Levi in quel momento si ricorda benissimo chi è (un detenuto ebreo,
senza nome ma con un numero) e dove è (Auschwitz campo della morte), ma apre
questa frase a un doppio orizzonte, linguistico e biografico. Risalire
alle parole del grande poeta esule è richiamare la lingua madre, il paese
natale,
la sua Torino. I confini della mia lingua sono i confini del mio mondo, diceva
Wittgenstein. Nel ricordo di Levi c'è un esercizio della massima del filosofo
austriaco. I nazisti dedicavano uno sforzo enorme per tagliare i detenuti ebrei
fuori dal mondo e dalla cultura umana, e in questo .Primo Levi, traduttore di
Dante in francese, fa resistenza e dà battaglia. Ma il rapporto tra il detenuto
e la sua lingua madre non è una questione semplice per chi è passato
nell'inferno nazista: la questione si complica ulteriormente nel caso di due
lingue di grande cultura come l'italiano e il tedesco. Uno dei disastri
linguistici più traumatici che i fascisti italiani e i nazisti tedeschi
commisero fu quello di fare diventare la lingua madre di un ebreo italiano o
tedesco la lingua del nemico, dell'aguzzino, e l'oppressore. Primo Levi,
con la sua estrema sensibilità linguistica, riesce a distinguere fra l'italiano
di Dante e l'italiano di Mussolini e dei suoi collaboratoriculturali e
politici. Lui vede la differenza fra il Canto di Ulisse e l'intervento di un
gerarca fascista in una piazza italiana, riesce addirittura a vedere l'abisso
culturale e umano che separa la lingua tedesca dei lager da quella di Goethe o
Heine (si veda a questo proposito il capitolo “Comunicare” ne “I
sommersi e i salvati”, l'ultimo libro di Levi). Nel suo caso la lingua madre
non crea un trauma psicologico, ma è una sorgente di speranza e conforto, lo
si nota quando Primo cita un'altra terzina del celebre canto: “...Quando mi
apparve una montagna, bruna/ Per la distanza, e parvemi alta tanto/ Che mai
veduta non ne avevo alcuna.” Commentandola: “Oh Pikolo, Pikolo, di'
qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano
nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!” Ma non per
tutti il rapporto fra lingua madre e lingua dell'assassino è stata così facile.
Tragico fu il caso di Hans Mayer, nato a Vienna il 31 ottobre 1912 da padre
ebreo e madre cattolica. Il padre morì nella Prima Guerra Mondiale, Hans e la
madre si trovavano a Vienna negli anni Trenta. Nel '38, quando l’Austria
divenne parte del Reich tedesco, i due scapparono in Belgio. Nel 1940 i belgi lo
arrestarono come cittadino tedesco straniero, nel ‘41 Hans scappò e aderì
alla resistenza belga, venne arrestato e torturato dalla Gestapo, mandato nei
campi di concentramento, trascorse un anno ad Auschwitz dove morì sua moglie
ebrea. Venne trasferito a Bergen Belsen e vi rimase fino a che il campo fu liberato
dagli inglesi nel 1945. Primo Levi e Hans Mayer si conoscevano, di ciò rimane
una profonda testimonianza nel VI capitolo de “I sommersi e i salvati”,
intitolato “L'intellettuale ad Auschwitz” e dedicato alla figura di Hans
Mayer. Il rapporto di Mayer con la sua lingua madre tedesca non è stato felice
come quello di Levi: egli torna a Bruxelles dopo la guerra e cambia il suo
nome facendosi chiamare Jean Améry e adottando la lingua francese con la quale
scrive per alcuni giornali svizzeri. Soltanto nel 1964, quando si svolse a
Francoforte un grande processo contro i criminali tedeschi di Auschwitz, tornò
a scrivere in tedesco e pubblicò nel 1966 cinque saggi
che collocano Hans Mayer-Jean Améry nella saggistica sulla Shoah. In questo
volume, intitolato “Jenseits von Schuld und Sühne”, si trova il saggio
“Di quante patrie ha bisogno un uomo?”, dove lo scrittore parla del rapporto
dell’ebreo di origine tedesca con la patria tedesca, e lo compara
all’atteggiamento che avevano gli ebrei di lingua tedesca verso la loro
lingua madre. È interessante come il ricordo di una rima di Goethe sulla luce
della luna che illumina bosco e valle viene interpretata da Jean Améry come
una frase piena di minaccia: nel bosco e nella valle ti potevi nascondere, ma
la luce lunare ti poteva far scoprire. La lingua madre diventa lingua del
nemico
e l’enorme peso della realtà del campo ha un effetto traumatico nel caso di
Jean Améry
fu Hans Mayer. Primo Levi trovava rifugio nella lingua di Dante, Jean Améry vedeva il
nemico nascosto anche nelle poesie di Goethe, e scelse il francese per poter
trovare “in una lingua straniera una vera amica”. Per scappare dal nemico
Hans Mayer cambia il nome, la lingua per vent'anni, adotta una nuova cultura
perché riscopre la sua ebraicità a causa dei nazisti, perde la lingua madre,
il paese natale, il nome: in poche parole la sua identità. Per sfuggire da
questa confisca, si deve reinventare l’identità di intellettuale di lingua
francese. Lingua italiana e lingua tedesca, Primo Levi e Hans Mayer, due
intellettuali che in un certo senso sono stati formati ad Auschwitz, ma
nonostante tale circostanza rimangono molto diversi nel loro approccio
linguistico. Hans Mayer è stato chiamato da Primo Levi “il filosofo del
suicidio”. Il 17 ottobre 1978, a Salzburg, Jean Améry si suicidò. Nove
anni dopo muore Primo Levi nella sua casa di
Torino.
T
La Shoah ripensata a tredici anni
di Pierfrancesco Rossi
Fin da quand'ero piccolo, troppo piccolo per comprendere cose enormemente più grandi di me, sono sempre stato sconvolto dalla folle brutalità dell'Olocausto. Non capivo molte altre cose, eppure non mi ci volle molto a concentrare tutta la rabbia e la pietà di cui era capace un bambino su una sola pagina, quella del libro di storia delle elementari, su cui lessi dello sterminio "di 6 milioni di ebrei". "Ma perché - mi chiedevo - perché nessuno ha fatto niente? Perché nessuno ha fermato i Nazisti?" Non sono passati molti anni da allora, in fondo, ma ora sono abbastanza grande da potermi rendere conto bene di ciò che significò la Shoah. Ora ho più rabbia per odiare il Nazismo, ho più pietà da impegnare quando penso agli Ebrei, a uomini e a donne innocenti, ai bambini. Ma sono sempre le stesse domande di quand'ero bambino a venirmi alla mente: "Perché nessuno li ha fermati?" Oggi, però, ho scoperto qualcosa in più. Ho letto da tempo che qualcuno, in quegli anni, capì in che mondo folle era nato, e dette tutto, spesso la vita, per salvare degli innocenti. Penso anche a degli italiani, come Perlasca. Ho perfino l'onore di essere concittadino di Palatucci. Allora si poteva fare qualcosa, molte altre persone così ci sarebbero riuscite. Sì, l'Olocausto si poteva evitare. Ma mi rendo conto che sarei folle anch' io, se pensassi di aver capito tutto sulla Shoah, oggi, a tredici anni. E continuo a chiedermi come sia potuto accadere e se oggi potrebbe ancora verificarsi una simile atrocità. Certo, ci sono cose difficili da capire. Per chiunque. È per questo, credo, che la giornata della memoria, il 27 gennaio, è così importante. È l'occasione per riflettere, tutti e tutti insieme, per cercare di capire come sia potuto accadere. Chi ha vissuto quegli avvenimenti ha il dovere di raccontare a chi non ricorda; chi non sa deve ascoltare e riflettere. Il punto di partenza, come non a caso è indicato nella legge che ha istituito il "Giorno della Memoria", dovrebbero essere le scuole. Sembra ovvio, ma va anche detto che non sempre succede che ci sia un impegno forte, vero, anche se nessuno nega che formare coscienze è importante, ed è fondamentale nei ragazzi. Ad esempio, nonostante nella mia scuola - liceo ginnasio di Avellino - molti insegnanti abbiano dimostrato una grande sensibilità, e siano stati contattati anche dei reduci dai campi di sterminio, il giorno della memoria trascorrerà forse senza memorie, perché dei problemi economici rischiano di far saltare ogni buon proposito. Dagli studenti non è venuta nessuna proposta; anzi, gli accenni al "Giorno della Memoria" durante il comitato studentesco sono caduti nel vuoto. Capisco che per organizzare un dibattito interessante servono fondi, anche quando si vuole parlare dell'Olocausto. Ma forse basterebbe anche solo una circolare, uno di quei fogli che vengono fatti girare per tutte le classi, con su scritte poche parole. Immagino qualcosa di toccante, da leggere durante un minuto di silenzio - che è sicuramente poco, ma può bastare per cominciare. "Tra il 1936 - legge l'insegnante nel silenzio della classe – e il 1945 furono sterminati dal regime fascista e nazista 6 milioni di Ebrei". Non sono parole difficili da capire, ma sono chiare dicono quello che c'è bisogno di sapere per poter dire "so cosa successe". Sono le stesse parole che mi fecero riflettere da bambino, sono le parole che mi crearono in mente delle domande, forse terribili, ma importanti. Non è cosa da tutti i giorni che lo Stato istituisca un giorno per il ricordo di un avvenimento storico. Questo testimonia quanto sia importante il ricordo, ma anche la creazione di coscienze. Coscienze non solo consapevoli dell'orrore, ma in grado di opporvisi, di sapere che lo si può fare, che, anzi, si ha il dovere di opporsi ai progetti di governanti che vanno contro l'umanità. Non è indispensabile, dicevo, fare convegni, discussioni, dibattiti costosi. È indispensabile, però, non perdere l'occasione di sollecitare la più importante discussione, quella che va fatta dentro, con se stessi, per maturare veramente il convincimento su quanta follia guidò chi pianificò la Shoah. E poiché fu tutto frutto dell'uomo e del suo pensiero, è un dovere ricordare, perché le circostanze cambiano, ma l'uomo, purtroppo, rimarrà sempre ugualmente pericoloso.
Viaggio
ad Auschwitz – Ricordare sul treno dei deportati
di
Osvaldo Sabato
VARSAVIA.
Il
bianco della neve, che ha accompagnato il Treno della Memoria partito l'altro
ieri pomeriggio da Firenze, fa da contraltare con il grigio dei ricordi e il
nero della morte che si respirava nei campi di sterminio degli ebrei durante la
seconda guerra mondiale. Flash che d'improvviso creano ancora oggi sconquasso
nella mente di chi racconta quelle terribili esperienze. Impossibile dimenticare
il rito del «Begrussung», del benvenuto, ad Auschwitz o a Majdanek. Oggi è in
programma la visita al campo vicino a Lublino dove morirono fra i sessantamila
e gli ottantamila ebrei. La prova della corsa nella camera a gas, primo grande
ostacolo, che in alcuni casi non faceva altro che rimandare l'appuntamento con la morte. Chi correva e
aveva
la forza di evitare lo spruzzo del gas poteva considerarsi fortunato.
Altrimenti,
non c'era più niente da fare. Un convoglio lungo quasi mezzo chilometro, 16
vagoni e 27 ore di viaggio per raggiungere la capitale della Polonia. Un intoppo
burocratico sul controllo dei passaporti di due studenti di Rosignano ha
bloccato il treno per più di un'ora alla frontiera fra la Repubblica Ceca e
la Polonia poi risolto con l'intervento delle ambasciate italiane a Praga e
Varsavia. I 750 viaggiatori, più della metà studenti delle scuole medie
superiori, 74 gli universitari, 60 gli insegnanti e molti giornalisti al seguito
è stato organizzato dalla Regione Toscana per commemorare la Giornata
Internazionale della memoria. Per non dimenticare ciò che è accaduto. E chi
meglio delle sorelle Liliana e Andra Bucci, possono raccontare l'Olocausto.
Protagoniste a soli sei e quattro anni di una vicenda che ha dell'incredibile
e che più di ogni altra fotografa la pazzia dei nazisti decisi alla soluzione
finale degli ebrei. Liliana e Andra furono tenute prigioniere nel Kinderbloc
di Auschwitz insieme ad altri bambini in attesa di essere usate come cavie per
gli esperimenti del professor Mengele. La vita nei campi e il camino dei forni
crematori sempre fumanti raccontano anche della tragedia del loro cugino Sergio
De Simone, morto impiccato a sei anni con altri venti bambini per eliminare le
tracce degli esperimenti dopo che Mengele lo aveva consegnato ad un altro medico
nazista, Kurt Heissmeyer. Molte volte viene chiesto a Liliana quale è la prima
immagine che ha quando pensa ad Auschwitz: «Il camino -
dice - e il cumulo
dei morti». Quelli erano anni in cui anche la natura si rifiutava di stare
in quei posti: «Niente verde e niente farfalle - osservano le sorelle Bucci - e
pensare che invece quando siamo ritornate a distanza di molti anni tutto intorno
era verde». Il 29 marzo 1944 il convoglio 25T giunse al campo con il carico di
ebrei, Ammassati tutti in un vagone, «Vedo ancora oggi la scena. La porta si
apre e fuori una notte nera» dice Andra. Le file, i vestiti consegnati agli
aguzzini, il rito della rasatura, i capelli servivano a riempire i cuscini, e
una baracca dove un 55 prendeva le generalità prima del marchio con i numeri
sull'avambraccio, che come stimati sono ancora lì a testimoniare ciò che è
stato. Figlie di una ebrea, Mira Perlow, e di un padre cattolico, Giovanni Bucci,
vivevano a Fiume quando furono deportate insieme
alla nonna, alla madre e ad altri suoi parenti tra cui la zia Gisella suo figlio
Sergio. Dopo la guerra riuscirono a ricongiungersi con la madre. La loro
salvezza è frutto di un caso o del destino. Non ha importanza. «Mi vengono i
rimorsi per essere sopravvissuta» dice Andra con il suo viso esile ma deciso
mentre si lascia andare in un pianto discreto. «No io non ho mai pensato a
queste cose» aggiunge Liliana mentre nel vagone del treno che ci porta a
Varsavia spingono i loro pensieri a ricordare. E gli studenti ascoltano, come
se ascoltano silenzio. Si sono salvate a differenza del cuginetto Sergio
solo per non aver fatto un passo in avanti. Proprio vero che a volte il filo che lega la
vita alla morte è esile e più corto di un passo. Una figura che assume una
importanza fondamentale nella loro vita è una delle tante responsabili del
blocco dove vivevano le due sorelline. Non ricordano né il nome né il viso ma
hanno impresso nella loro memoria invece un altro particolare. «La Blokova
chiamò me e mia sorella e ci disse verranno degli uomini e vi chiederanno
chi di voi vuole vedere la mamma e tornare con lei, vi chiederanno di fare un
passo in avanti. Voi dovete rimanere ferme dove siete. Noi lo dicemmo subito
anche a Sergio quel che ci era stato suggerito da quella donna.
Poco dopo fummo radunati da un gruppo di uomini in uniforme venuti da fuori. Noi
non potevamo saperlo ma uno di loro era il dottor Mengele». La loro storia è
ricordata in libro «Meglio non sapere» scritto dalla giornalista de «il
Mattino» Titti Marrone. Mentre è stato un altro giornalista, il tedesco Gunter
Schwarberg che con una sua inchiesta è riuscito a individuare i responsabili
della morte di Sergio e degli altri piccoli e far condannare i colpevoli della
strage di Bullenhuser Damm. Fu allora che finalmente fu chiarita la fine di
Sergio. Non è facile parlare di ciò che hanno visto neanche per Maria Rudolf
Stibi e Nerina De Walderstein. «Dimenticate il vostro nome voi qui siete solo
un numero» la Kapo tedesca appena Nerina arrivò ad Auschwitz non perse tempo
a far capire dove era stata portata con l'inganno di andare a lavorare in
Germania. La stesso destino di Maria. O di Liliana o Andria. Sempre con la morte
in tasca come altri milioni di ebrei, che a differenza di loro, purtroppo, non
ce l'hanno fatta. Le quattro signore sono le testimonianze viventi
dell'Olocausto che il Treno della
Violante:
«Con gli esuli istriani un debito da saldare»
Il capogruppo Ds alla Camera incontra la comunità di Roma: e parla del
silenzio del Pci, delle Foibe. Proposta di legge per ricordare il dramma di
quelle popolazioni
e.f.
ROMA
- La repubblica italiana e i
suoi «debiti da saldare». Le facce e gli accenti di uomini e donne, giovani e
anziani, che da un freddo giorno di febbraio del '47 vivono con l'esilio
nel cuore. Roma, quartiere Giuliano Dalmata, qui vivono una parte di quei
350mila italiani, istriani, fiumani, dalmati, costretti a lasciare per sempre le
loro città e i loro paesi dopo il 10 febbraio 1947, firma del trattato di pace.
E qui Luciano Violante continua il suo «viaggio» per «ricondurre all'interno
della storia nazionale italiana la tragedia degli esuli, gli stessi che la
Repubblica, in quegli anni, arrivò al punto di considerare quasi dei nemici».
Sì, la Repubblica italiana «ha dei debiti da saldare» con questi italiani
vittime della follia della Seconda guerra mondiale. Il capogruppo dei Ds è
nelle biblioteca di questo quartiere dove i nomi delle strade, i cognomi della
gente e anche il dialetto, parlano di quella storia di paura, umiliazione,
morte, abbandono, per presentare una proposta di legge dei parlamentari Ds.
L'obiettivo è quello di istituire una giornata della memoria che ricordi il
dramma di quelle popolazioni.
Promemoria
di
Furio
Colombo
Le
due pagine che vedete qui riprodotte sono due numeri dell'Unità clandestina
che - a rischio della vita - veniva distribuita a Roma e dovunque fosse
possibile in Italia, nel 1943, durante l'occupazione nazista. Sono anche le
uniche due pagine di giornali italiani - clandestini o no - che raccontano la
persecuzione degli italiani ebrei ad opera del governo italiano di Salò e degli
occupanti tedeschi, e la raccontano nel tempo e nel momento in cui la
persecuzione avviene.
Pogrom a Roma
l’Unità,
26.10.1943
Qualcuno
aveva forse potuto sperare che i nazisti non avrebbero osato infliggere a Roma
l’oltraggio del pogrom; che si sarebbero contentati della rapina, già
perpetrata, dei 50 chili d’oro, pagati dalla comunità israelitica, sotto la
minaccia di un feroce ultimatum. Ma il pogrom è giunto puntualmente a
disingannare gli eterni illusi, quelli che forse ancora oggi non credono al
barbaro piano di spopolare Roma di tutti gli uomini validi alle armi e al
lavoro, alla nuova notte di S. Bartolomeo. Come già in Germania, in
Austria, in Cecoslovacchia, in Polonia in tutta l'Europa invasa, in nome della
più bestiale aberrazione che possa deformare la mente umana, in nome di quel
razzismo che è la più atroce offesa alla dignità dell’essere umano, anche
per le vie e i quartieri di Roma, è stata scatenata la caccia all’uomo.
Famiglie intere sono state caricate con brutalità fredda e sbrigativa sui
famigerati camion delle razzie. Vecchi paralitici, bambini lattanti, ammalati e
puerpere prelevati dagli ospedali e dalle maternità, tutti sono stati
convogliati provvisoriamente al Collegio Militare in attesa di essere deportati.
Intanto si svolgeva il saccheggio delle case abbandonate alle rapine e al
vandalismo degli hitleriani lanzichenecchi. I disgraziati, che sono qualche
migliaio, venivano infine caricati alla rinfusa come bestiame sui vagoni merci.
Dove ermeticamente chiusi, votati alla fame e alla sete, in una bestiale
promiscuità, sono abbandonati in attesa che le comunicazioni ferroviarie
interrotte vengano riattivate. Lo spirito di solidarietà del popolo italiano
verso questi infelici, manifestatosi già in varie forme, al tempo della
campagna razzista fascista, domanda giustizia e vendetta di fronte a questo
spaventoso delitti commesso contro uomini inermi e innocenti, che si vogliono
isolare dal resto della popolazione col barbaro pretesto di una inferiorità
razziale, esistente solo nelle perverse ossessioni di Hitler. Ma esso non è che
la prova generale del sinistro disegni di far deserta Roma non più degli ebrei,
ma dei romani tutti. A tale inaudita violenza occorre resistere con tutte le
forze. Ogni romano deve considerarsi personalmente mobilitato per la difesa
della propria persona, della propria famiglia, della propria casa. Solo così
potremo impedir che i nazisti facciano anche di Roma terra bruciata. La sorte
degli ebrei di Roma sarà la sorte di tutti gli abitanti di Roma, se subiremo
inerti e passivi l’estrema violenza dell’invasore.
Le persecuzioni anti-ebraiche debbono essere impedite
l’Unità,
7.12.1943
Or
è qualche giorno è stata diramata per immediata esecuzione ai capi delle varie
province (cioè ai ras dello squadrismo locale) un’ordinanza di polizia che
commina per tutti gli ebrei senza eccezione l’invio in campo di
concentramento, il sequestro o la successiva confisca dei beni; e per i nati da
matrimonio misto (“ariani” secondo le leggi razziali fasciste) la
sottoposizione ad una speciale vigilanza da parte della polizia. I Romani, i
quali hanno assistito con orrore, nello scorso Ottobre, all’inumana e bestiale
razzia operata dalle S. S. tedesche contro questi infelici; che hanno conosciuto
in questi giorni le feroci torture e le innominabili sevizie a cui venivano
sottoposti da parte dei criminali di Palazzo Braschi quelli di loro che non
erano in grado di far le spese di esosi ricatti, comprendono benissimo qual
sinistro e delittuoso disegno si annunci sotto
il pretesto di “prendere misure cautelari nell’interesse dell’Italia”,
secondo l’espressione di un autorizzato (che val quanto dire prezzolato)
giornalista. I Romani non possono permettere che tale disegno venga attuato, e i
cattolici romani non possono limitarsi a deplorarlo. Non si deve tollerare che
si ripeti in Roma l’orrendo misfatto di intere famiglie innocenti smembrate e
deportate a morire di freddo e di fame chi sa dove. C’è un senso di
solidarietà umana che non si può offendere impunemente. Queste vittime
infelici della bestiale rabbia nazifascista debbono essere non solo soccorse
perché si sottraggano alle ricerche e alla cattura, ma anche attivamente e
coraggiosamente difese. I Romani debbono aver chiaro che, difendendo i loro
concittadini ebrei, essi difendono anche se stessi, le proprie famiglie, le
proprie case. Nelle prossime settimane, man mano che gli eserciti alleati si
andranno avvicinando a Roma, i nazifascisti tenteranno di mettere in pratica i
loro piani di razzie di massa della popolazione valida e devastazione della città,
come già a Napoli. Un solo argomento può consigliare la nemico di desistere da
questi piani: esso è costituito dalla ferma determinazione della popolazione
romana di difendersi, di impedire con le armi qualsiasi tentativo di violenza.
Non bisogna perdere dunque nessuna occasione per creare nel nemico questa
convinzione; per dimostrargli che nessuna violenza può essere commessa
impunemente; per indurlo a fare anticipatamente il bilancio delle sue perdite.
Non è solo dunque il sentimento della solidarietà umana che deve spingerci
alla difesa dei nostri concittadini ebrei; è anche il senso della nostra stessa
conservazione, la certezza che si avvicina il momento in cui tutti potremo
essere attaccati nella nostra persona, nelle nostre case, e che per prevenire
questo pericolo occorre rintuzzare audacemente fin da ora ogni tentativo isolato
o organizzato di violenza.
Da l'Unità, 27 gennaio 2004, per gentile concessione
Antisemitismo,
pericolo mortale per l’umanità
Giorno
della memoria, l’appello del Premio Nobel Eli Wiesel: attenti, la storia può
essere dimenticata
Eduardo
Di Blasi
ROMA
«Nessun dolore
è così grande da non poter
essere dimenticato». L'uomo, il dolore, anche il più grande, tende a
dimenticato.
Fa come le mamme che partoriscono: quale donna partorirebbe se ricordasse
l'atrocità di quel dolore fisico che ha provato? Il premio Nobel per la Pace,
lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto a Buchenwald, nel mezzo della Giornata
della memoria (sono circa le 17 quando prende la parola nell'aula
Giulio Cesare, sede del Consiglio comunale di Roma, invitato dal sindaco Walter
Veltroni), dipinge con pochi tratti la
natura umana. Ricorda un racconto di Kafka sulla tragedia di un messaggero
che non riusciva a recapitare il proprio messaggio. Poi si raccoglie in un
pensiero più profondo: «La cosa peggiore non è non riuscire a recapitare
un messaggio. È non ricordare più quale sia...».
Ma
quanto è difficile ricordare?
Le testimonianze
dell’olocausto omosessuale
d.v.
Quanti
sono i nemici della memoria? Non ricordare equivale a non vivere? «Volevo
restare zitto. Ormai sono passati tantissimi anni. Il mio ano sanguina ancora:
i nazisti mi hanno infilato un bastone lungo 25 centimetri». È la voce
addolorata e rabbiosa di uno dei gay sopravvissuti ai lager. La ascoltiamo
guardando il film «Paragraph 175» girato da Rob Epstein e Jeffrey Friedman,
ora distribuito in dvd dalla Emik e proiettato ieri sera a Milano. Per
dimenticare la violenza il nostro testimone si è sposato e ha taciuto con
tutti. Poi, andato a rotoli il matrimonio, è riuscito ad affrontare il dolore
a voce alta. Ieri è stata la giornata della memoria, ritorniamo dunque agli
interrogativi.
È dalle domande, infatti, che spesso nascono i ricordi. Perché è così
difficile ricordare? Chi uccide la memoria mortifica la vita? Per anni non si è
parlato di vittime gay del nazismo e del fascismo perché a causa del
pregiudizio in Italia, e in Germania delle leggi repressive in vigore fino al
1969, continuava
ad essere un'onta dirsi omosessuali. Ma questo non è stato il solo ostacolo alla
memoria. La memoria ha tanti nemici: il dolore subito, la condanna sociale
della visibilità espressa persino dagli stessi omosessuali, la difficoltà per
le donne di ricordare una vita spesso più fantasmatica che reale, l'incapacità
di sconfiggere, anche a distanza di anni, l'isolamento in cui si è vissuti.
Contro queste offensive si scontra la generazione della «Giornata della
memoria» che invece sente il dovere di ricordare, di ricostruire con più
interezza possibile la storia. Anche nel tentativo di evitare che l'orrore in
agguato ritorni. «Ho iniziato a girare i miei documentari credendo che i
perseguitati dal fascismo non fossero stati contattati adeguatamente - dice
Gabriella Romano, regista che ha al suo attivo tre documentari su fascismo e
omosessualità - Invece i testimoni sfuggivano, sembrava quasi che stessi
facendo un film non sulle vittime, ma sui criminali di
guerra». Gli uomini, spediti al confino, di cui la Romano parla in «Ricordare», quando
tornavano
spesso cambiavano città. «Il problema era la visibilità. Gli uomini che hanno
vissuto durante il fascismo e, dopo, negli anni Cinquanta, quando i modelli
sociali avevano un’influenza fortissima, erano convinti che bastasse non dire
o non vedere un fatto per togliere al fatto lo statuto di vicenda realmente
accaduta. L'omosessuale perseguitato era stato scoperto ed era diventato
visibile. L'omosessuale visibile dava scandalo, e chi dava scandalo era mal
visto anche dai gay», continua la regista. La condanna sociale era espressa
dalla società etero e dagli stessi omosessuali. Eterosessuali e omosessuali
tendevano a trovarsi d'accordo sulla doppia morale, quella del «si fa ma non
si dice». Chi ha fatto propria questa convinzione sociale ha continuato la
sua vita cercando di dimenticare, non solo il dolore, ma anche lo scandalo. Così,
se risalire con la memoria il corso degli eventi è già un'operazione difficile
quando sono trascorsi tanti anni, diventa quasi impossibile se negli anni sono
intervenuti fattori potenti che hanno ostacolato i ricordi. Di qui la sensazione
del testimone che sfugge. A metterlo in fuga sono anche una condizione e una
sensazione di isolamento. E bastava poco per soffrirne. La massiccia propaganda
che voleva piegare tutti a comportamenti collettivi vedeva in ogni
soggettività
il germe della sovversione, arrivando ad additare come scandalosa persino
una capigliatura femminile alla maschietta se a portarla era una donna di
oltre 25 anni. «La nostra generazione sente la responsabilità di ricordare,
molti protagonisti dell'epoca, invece, tendono a non valorizzare il recupero
della memoria e a non sentire indispensabile il salvataggio delle testimonianze
prima che vadano perdute». A queta operazione Gabriella Romano è invece
molto interessata. È esperta di storia orale e, quindi, di recuperi difficili.
Il suo documentario «Pazza d'azzurro», che ha dato inizio alla produzione su
omosessualità e fascismo, affronta la storia di Nietta Aprà, donna
anticonformista vissuta nelle campagne piemontesi durante il
ventennio insieme alla sua Flafi, compagna di lavoro e di vita. «Nietta ha
lasciato molti diari desiderando che venissero pubblicati». Nietta, dunque,
era determinata a tramandare tracce della sua storia. Al contrario le donne de
«L'altro Ieri», documentario su lesbismo e fascismo, hanno fatto molta
fatica a dare valore alla testimonianza. Solo di una delle intervistate vediamo
il volto ed è colei che, sportiva, è riuscita ad affrancarsi dai confini di
una vita costretta tra famiglia e lavoro. Il modello della donna laboriosa e
obbediente, della giovinetta innamorata del duce, della madre eroica e
sempre pronta ad assecondare l'autorità maschile, rafforzato da una
propaganda che non lasciava respiro, era il persecutore delle donne. Gli uomini
gay, invece, riuscivano ad avere locali clandestini di ritrovo, che potevano
essere bar o luoghi di battuage. «Mi piaceva una ragazzina, avevo
paura di mia madre e del prete che frequentava casa - dice una delle
testimoni - solo anni dopo la scomparsa della mamma riuscii a
superare la mia paralisi». Il sacerdote compare in questi ricordi come figura
della repressione e non di rado praticava l'esorcismo per cacciare il diavolo
dai corpi delle ragazzine che cercano le loro simili. Perseguitate, tenute
all'oscuro riguardo alla sessualità «ho sentito pronunciare la parola
lesbica solo negli anni Cinquanta» dirà la Mazzoleni -, le donne povere di
«parole per dirlo» trovavano nell’autocensura e nell'autodisciplina un
nemico quasi invincibile. Pur attratte dalle donne, spesso non riuscivano ad
averne consapevolezza. Mentre l'isolamento diveniva il loro abito interiore.
«È una dimensione tragica di cui hanno sofferto tantissimo», aggiunge la
Romano. Dimensione anche vagheggiata nelle sue versioni eroiche o sublimi: tra
le intervistate, c'è chi ama Robinson Crusoe, chi si perde in solitarie
passeggiate in alta montagna. L'isolamento, abito odiato cui ci si rassegna,
diventa uno dei più grandi nemici della vita di ieri e della memoria di oggi.
Ed è forse una delle eredità più pesanti che ancora continuano a minare
l'autostima, a erodere il senso e il valore della partecipazione sociale, a
farci tutti più deboli. A ostacolare la visibilità. Dietro tante resistenze
sembra permanere una insanabile sfiducia espressa con interrogativi dal sapore
amaro: perché devo testimoniare? Perché devo parlare di me? A chi potrà
servire la storia di un gay, di una lesbica, di una persona isolata? Ci piace
pensare che la risposta possa essere una sola: «A ognuno di noi, nessuno
escluso».
Da l'Unità, 28 gennaio 2004, per gentile concessione