l'Unità

«Così sopravvissi all'inferno di Ravensbrück. Georgia Peet-Taneva racconta tre anni di vita passati nel lager a nord di Berlino».  

di Lilia Bevilacqua

Berlino. Quella che racconta episodi dell'inferno di Ravensbrück non è una donna fragile. Anzi gli occhi celesti di Georgia Peet-Taneva possono venarsi di ironia quando dice: «Le esperienze di noi sopravvissuti sono a volte così contrastanti, che per esempio quando ho letto il libro delle sue connazionali, Lidia Rolfi e Anna Maria Bruzzone Le donne di Ravensbrück, mi sono chiesta ma io in quale Lager sono stata?».

Il luogo della memoria

Siede ben presente e energica nel soggiorno della sua casa della Friedrichstrasse nell'ex Berlino Est, eppure non so come fare a chiederle: «Al suo arrivo a Ravensbrück fu torturata?». Non so come fare perché quella tragica esperienza è un  luogo della sua memoria dove lei è, come ha detto Primo Levi, una sommersa; o una salvata. Ma se anche fosse una «salvata», quanto si può riaprire la ferita inferta alla propria dignità di essere umano? Quando viene rastrellata dai tedeschi a diciassette anni, a Varsavia nel 1940, ha appena perduto la madre sotto un bombardamento di Stukas. Il padre, intellettuale comunista bulgaro, dopo essersi diviso dalla famiglia, la moglie e due bambini piccoli, nel 1923 in seguito alla loro fuga dalla Bulgaria dopo il colpo di Stato, è disperso. Georgia non lo ha mai più rivisto né sa della sua fine. Potrebbe essere morto nelle sue peripezie attraverso l'Europa o potrebbe essere caduto vittima delle purghe staliniane. A Varsavia, come in altre città europee occupate dalla Wehrmacht di Hitler, i tedeschi rastrellano gente giovane e sana per portarla a lavorare nelle industrie in Germania. Nella fabbrica di pneumatici vicino a Monaco di Baviera dove è costretta a lavorare, Giorgia cerca di mettere a punto con un gruppo di studenti olandesi piccoli atti di sabotaggio. Ma sono maldestri e imprudenti  e vengono scoperti. Giorgia si ritrova su un treno che la porta a Auschwitz. Mentre si rende conto con terrore dì essere finita in uno dei campi di sterminio, a Berlino qualcuno pensa che forse sarebbe più utile interrogarla per vedere se è collegata con altri gruppi  di sabotatori. Giorgia Peet - Taneva è oggi, insieme forse solo agli «ebrei di Schindler», l'unica che può raccontare di essere salita su un vagone-bestiame che l'ha riportata, fuori da Auschwitz. È destinata a Ravensbrück, un Lager a nord di Berlino, dove vengono deportate donne da tutta Europa, soprattutto quelle che fanno resistenza politica, confessionale, di coscienza, al nazifascismo, ma anche quelle che hanno la «colpa» di essere zingare, «asociali», che, in qualche modo non sono «previste» nella società «ariana» e possono venire sterilizzate o internate.

Rapata a zero

«Mi hanno disinfestato, cioè rapato a zero, interrogato, ma non torturato. Poi mi hanno mandato a lavorare per la filiale della fabbrica Siemens che si trovava nel Lager, dove facevano interruttori. Le cause che sono state fatte dopo la guerra contro la Siemens le abbiamo perdute tutte. Solo le poche donne che erano a Ravensbrück perché avevano metà o un quarto di sangue ebreo, le altre le manda- vano nei Lager per ebrei, solo loro hanno ottenuto un ridicolo risarcimento di 5 mila marchi a testa». A Ravensbrück Georgia rimane tre anni, fino alla liberazione. Oggi del campo e delle baracche delle deportate non è rimasto più nulla. C'è un monumento alla memoria delle più di 90 mila donne uccise e poi bruciate nei forni crematori. Il loro cimitero è il lago lì vicino, sinistramente idilliaco, perché nel suo fondo furono gettate le ceneri di queste donne uccise. La domanda sull'esistenza o meno della solidarietà nel Lager provoca una sua reazione irritata. «Senza solidarietà con qualcuna o con un gruppo non si poteva sopravvivere. Certo che ci sarà stata chi ha rubato una crosta di pane ad un'altra donna approfittando che dormiva, ma questo non era la regola». La superficialità di certi giornalisti che vengono e vogliono sapere la sua storia in venti minuti, il voyeurisrno anche di certi quotidiani a sfondo sensazionalistico e la «negazione» della sconvolgente esperienza dei Lager sottintesa nelle posizioni degli storici revisionasti, tutto ciò la costringe ad un'alzata di scudi, a sentirsi ancora sola a di- fendere la dignità dei «sommersi e dei salvati». Sul suo tavolo da lavoro sono i   sparsi ritagli di giornali che riguardano tutti lo stesso tema: rigurgiti neofascisti nella Germania riunificata, le esperienze dei Lager documentate nella ricorrenza dei 50 anni dell'Olocausto, i naziskin e gli episodi di violenza contro gli stranieri. Georgia evidenzia, sottolinea, contrassegna e scrive lettere ai giornali. «Quando fummo liberate dall'Armata rossa il 1 maggio del 1945, io rimasi nel settore sovietico. A Ravensbrück ero sopravvissuta grazie alla solidarietà delle comuniste tedesche, che mi avevano preso sotto la loro protezione».

Una persona da «esibire» 

Nella Berlino liberata e in macerie salutavo le altre sopravvissute che tornavano a casa, in Francia, in Italia, in Svezia, e io stavo lì e non sapevo dove andare. In Bulgaria ero appena nata quando i miei genitori erano dovuti fuggire. Nel settore sovietico intanto tornavano tutti gli antifascista, gli esiliati, e si parlava di una società più giusta che avremmo costruito. Rimasi. lo divenni una di quelle persone da esibire in ogni occasione, per questo mi perdonarono ancora quando molti anni dopo, per protesta, restituii la tessera del partito». Nonostante ciò il crollo del muro fu per Georgia Peet-Taneva il crollo di un mondo. Ma questo non significa che si sia arresa, alle manifestazioni contro la xenofobia è sempre e ancora in prima fila.

Da l'Unità , 27 gennaio 1995, per gentile concessione

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