l'Unità
Il Duce
buono, un mito che a destra resiste
di Bruno
Gravagnuolo
In
fondo l’esternazione storiografica di Berlusconi sullo Spectator
inglese - quella su Mussolini «che mandava la gente a fare vacanze al confino e
che non ha mai ammazzato nessuno» - non è solo l’ennesima prova di incultura
storica e politica da parte del premier. Ma «personifica» l’esistenza di un
senso comune qualunquista e conservatore di lunga durata nel nostro paese. Non
da oggi in Italia quel senso comune recita la favola del Mussolini bonaccione.
Strapaesano e un po’ matto, ma in definitiva mite. Un matto castigamatti. Che
- se non avesse fatto quella sciagurata guerra accanto a Hitler - avrebbe
concluso in attivo la sua carriera. Ripristinando l’ordine interno e il
prestigio della nazione. Un matto che dopotutto non fu crudele, ma alquanto
tollerante, e persino un po’ illuso e idealista. Visto che voleva mutare la
natura «indolente» degli italiani. Popolo di cui si racconta che Amilcare
Benito dicesse: «Governarli non è impossibile, è inutile». Si mescolano così
ancora - e l’esternazione di Berlusconi lo ribadisce - la lezione «arcitaliana»
e disillusa del fascista Malaparte, con la leggenda del Mussolini statista
europeo, accreditata anche da Churchill e rivendicata da neofascisti e
post-fascisti sino a Fini. Il tutto poi è confluito nell’umore popolare di
destra del dopoguerra. Di quella destra che, all’ombra del centrismo, ha
sempre tentato di presentare la Resistenza come un’escrescenza. Come un che di
imposto dagli Alleati. E utilizzato dalla sinistra per mascherare una disfatta,
sulle cui ceneri furono edificate la «partitocrazia» e «l’egemonia
catto-social-comunista», artefici di quella che sempre secondo Berlusconi è
una «Costituzione sovietica». Insomma, la leggenda buonista del Mussolini mite
e tollerante è parte integrante dell’ideologia italiana di destra, vecchia e
nuova. Di quella vecchia e liberal-conservatrice. Volta a presentare il fascismo
come necessità dettata dall’attacco soversivo, realtà politica che certo
aveva tralignato, ma (guerra a parte) non era poi stata una tragedia. E di
quella nuova, post-bellica. Mirante a svuotare di senso la rottura rappresentata
dall’antifascismo, elemento estraneo e parassitario nel corpo della nazione.
Purtroppo a questa vulgata tenace ha dato una mano anche la storiografia dei «piani
alti», che discendendo per li rami da Renzo De Felice, ha finito per rafforzare
certi luoghi comuni: la guerra fascista non inevitabile, il consenso spontaneo e
ben meritato, l’8 settembre come disfatta irreparabile. Ecco Berlusconi,
istintivamente e senza tante letture, incarna perfettamente «l’alto e il
basso» della destra in Italia. Specie sul piano della memoria storica. Esprime
cioè un «resoconto» della memoria esso sì davvero «egemone» nell’Italia
del dopoguerra. Un’Italia nella quale, fino a metà degli anni settanta, la
Resistenza, era solo fatto minore e gracilmente ufficiale. Bandito dalla
comunicazione pubblica e dai libri di testo. Altro che «vulgata della
Resistenza», come gridano Sergio Romano e Galli Della Loggia! La vulgata è
stata un’altra, e l’abbiam visto: Resistenza inessenziale e Mussolini «buono».
E veniamo di nuovo al Mussolini che «mandava la gente in
vacanza al confino e non ammazzava nessuno». Quanto «confino» e carceri
fossero una «vacanza», lo seppero bene Vittorio Foa, che se la cavò con «soli»
7 anni. E Antonio Gramsci, stritolato tra Milano e Turi e liberato solo dopo
quasi dieci anni di infame prigionia. Che lo condusse a morte per grave malattia
polmonare. Mussolini voleva «impedire a quel cervello di pensare» e la sua
ferocia si vide allorché impedì ogni trattativa con l’Urss per liberare il
prigioniero. Intimando a un certo punto al direttore del carcere di Turi di
chiudere «qualsiasi rapporto con l’esterno». Non poté impedire a quel
cervello di pensare, ma a poco a poco impedì al prigioniero di vivere. Tanto
che lo liberò solo quando era ormai distrutto. E quanto dolci fossero quelle
carceri lo seppe ad esempio l’anarchico Romolo Tranquilli, ingiustamente
accusato di aver attentato alla vita del Re a Milano. E massacrato di botte
proprio mentre la polizia politica lo adoperava come esca per tentare di piegare
il fratello Silone alla delazione. Mussolini non ammazzò nessuno? Certo che sì. Benché non
con le sue mani. Fece ammazzare Don Minzoni, per interposto Balbo. Fece
ammazzare Matteotti, per interposto Dumini e altri sicari. Fece ammazzare
Gobetti e Giovanni Amendola, per interposti mazzieri e con posologia ritardata.
Fece ammazzare i fratelli Rosselli in Francia, e nello stesso anno della morte
annunciata di Gramsci: 1937. E li fece pugnalare dalla «Cagoule», senza pietà
e indugi. Anche per vendicare la beffa eroica di quel Rosselli che nel 1927 era
fuggito da Lipari su un motoscafo, addirittura caricandosi sulla spalle il
vecchio Turati. Lasciamo da parte la vera guerra civile italiana, ovvero l’illegalismo
vigliacco all’ombra dei prefetti, scatenato dal Duce dopo il 1919. E veniamo
alle guerre successive. Una su tutte: la guerra d’Etiopia. Nel corso di essa -
assecondato dall’aviazione - fece scaricare gas sugli abissini, in spregio a
tutte le convenzioni internazionali. Infamia accompagnata l’anno dopo dai
massacri del maresciallo Graziani contro popolazione e ribelli. Seguita dalla
legislazione contro il «meticciato». Razzista ante-litteram ben prima delle
leggi razziali antisemite. Ebbene quella guerra e
quelle pratiche furono la prova generale del modo stesso in cui il fascismo
avrebbe voluto in guerra gli italiani: stile etnico. Sì, perché durante
l’occupazione del Montenegro, ecco quel che Mussolini scriveva agli ufficiali:
«Dimenticatevi di essere padri di famiglia, siatelo solo in patria...».
Appello non sempre raccolto, e che nondimeno incoraggiò il massacro di decine
di migliaia di civili, rei di aiutare i partigiani. Mentre lo stesso avveniva
metodicamente - imitando i tedeschi - con i lager fascisti anti-slavi in
Croazia. Già, in quei lager non si andava in «vacanza», per riprendere la
sobria espressione storiografica del Premier. Né a Fossoli, Sansabba ed altri
lager (previsti dal Pnf fin dal 1942) gli ebrei ci andavano in vacanza. Erano,
nella migliore delle ipotesi, soggiorni passaggio. Verso altre stazioni di non
ritorno. Ma il capostazione e il bigliettaio italiano si chiamava Mussolini.
Da l'Unità, 12 settembre 2003, per gentile concessione