l'Unità
Storia. Il
fascismo ha ucciso, il fascismo ha sterminato
di Gianluca Garelli
- Paolo Piacenza
La dittatura di Saddam come quella di Mussolini? Ma nemmeno per sogno. «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno, Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino». Parola di Silvio Berlusconi. La seconda puntata della lunga intervista concessa a Villa Celeste dal presidente del Consiglio a Nicholas Farrel pubblicata ieri su La Voce di Rimini regala un’altra perla. Dopo la serena riflessione sullo stato della psiche dei giudici, arriva infatti un aureo giudizio sul Ventennio. Che ha provocato reazioni di sdegno, rabbia, sconcerto. Ma i commenti, si sa, sono espressioni soggettive. E il giudizio del premier è, invece, perentoriamente oggettivo: quasi una constatazione. Richiede perciò una verifica, sui dati di fatto. E il Ventennio ne offre a bizzeffe.
Squadrismo e violenza politica. Fra le attività «qualificanti» del fascismo del primo periodo vi è il sistematico ricorso alla violenza contro gli avversari politici, le loro sedi e le loro organizzazioni, da parte di bravacci legati ai ras locali. Torture, olio di ricino, umiliazioni, manganellate. Non di rado, tuttavia, gli oppositori perdevano la vita a seguito delle violenze. Un calcolo approssimativo induce a calcolare in circa 500 i morti causati dalle spedizioni punitive fasciste fra il 1919 e il 1922. Il parroco di Argenta, don Giovanni Minzoni, fu assassinato in un agguato da due uomini di Balbo, nell’agosto del 1923. Ma anche quando il fenomeno della violenza squadrista sembrò perdere le proprie caratteristiche originarie, e gli uomini legati ai ras locali vennero convogliati in organizzazioni ufficiali come la Milizia volontaria, forme di violenza politica sostanzialmente analoghe allo squadrismo non cessarono di costellare la vicenda del fascismo al potere. Per tutti, tre casi notissimi: nel giugno 1924 Giacomo Matteotti venne rapito e assassinato con metodo squadrista, e il gesto sarebbe stato esplicitamente rivendicato da Mussolini nel gennaio dell’anno successivo; Piero Gobetti, minato dall’aggressione subita nel settembre 1924, morì due anni dopo, in esilio; Giovanni Amendola spirò per le ferite riportate in un’aggressione fascista subita nel luglio 1925.
La repressione: dagli omicidi al Tribunale speciale per la difesa dello Stato Assunto il potere Mussolini si poté giovare dell’apparato di repressione dello Stato. Che venne rafforzato e riorganizzato. Con la nascita dell’OVRA (l’Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo) venne razionalizzata la persecuzione degli antifascisti, con tutti i mezzi, legali e illegali. Anche l’omicidio politico in paese straniero. Arturo Bocchini, capo della polizia, venne incaricato dallo stesso Duce e dal ministro degli Esteri Galeazzo Ciano di eliminare fisicamente Carlo Rosselli che allora risiedeva a Parigi. Il 9 giugno 1937, a Bagnoles-de-l’Orne dove Carlo Rosselli e il fratello Nello si erano recati per trascorrere il fine settimana, un commando di cagoulards (gli avanguardisti francesi) compì la missione: bloccata l’auto sulla quale viaggiavano i due fratelli, Carlo e Nello furono prima pestati, poi, accoltellati a morte. Lo strumento ufficiale della repressione fascista fu invece il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. L’attentato di Anteo Zamboni a Mussolini, il 31 ottobre 1926, offrì l’occasione di una serie di misure repressive. Tra queste la «legge per la difesa dello Stato», n. 2008 del 25 novembre 1926, che stabilì, tra l’altro, la pena di morte per chi anche solo ipotizzava un attentato alla vita del re o del capo del governo. A giudicare i reati in essa previsti, la nuova normativa istituì il Tribunale speciale, via via prorogato fino al luglio 1943, quindi ricostituito nel gennaio 1944, nella Rsi. Nel corso della sua attività, emise 5619 sentenze e 4596 condanne. Tra i condannati anche 122 donne e 697 minori. Le condanne a morte furono 42, delle quali 31 furono eseguite mentre furono 27.735 gli anni di carcere. Tra i suoi ‘beneficati’, ci furono Antonio Gramsci, che morì in carcere nel 1938, il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini e Michele Schirru, fucilato nel 1931 solo per avere espresso «l’intenzione di uccidere il capo del governo».
Il confino. Il confino di polizia in zone disagiate della Penisola, fu una misura usata con straordinaria larghezza. Il regio decreto 6 novembre 1926 n.1848 stabilì che fosse applicabile a chiunque fosse ritenuto pericoloso per l’ordine statale o per l’ordine pubblico. A un mese dall’entrata in vigore della legge le persone confinati erano già 600, a fine 1926, oltre 900, tutti in isolette del Mediterraneo o in sperduti villaggi dell’Italia meridionale. A finire al confino furono importanti nomi della futura classe dirigente: da Pavese a Gramsci, da Parri a Di Vittorio, a Spinelli. Gli inviati al confino furono, complessivamente, oltre 15.000. Ben 177 antifascisti morirono durante il soggiorno coatto.
Deportazione. La politica antiebraica del regime fascista culminò nelle leggi razziali del 1938. Alla persecuzione dei diritti subentrò, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, anche la persecuzione delle vite. La prima retata attuata risale al 16 ottobre 1943 a Roma; degli oltre 1250 ebrei arrestati in quell’occasione, più di 1000 finirono ad Auschwitz, e di essi solo 17 erano ancora vivi al termine del conflitto. Il Manifesto programmatico di Verona (14 novembre 1943) sancì che gli ebrei erano stranieri e appartenevano a «nazionalità nemica». Di lì a poco un ordine di arresto ne stabilì il sequestro dei beni e l’internamento, in attesa della deportazione in Germania. Nelle spire della «soluzione finale» hitleriana il regime fascista gettò, nel complesso, circa 10.000 ebrei. Oltre alla deportazione razziale, fra le responsabilità del regime di Mussolini c’è anche la deportazione degli oppositori politici e di centinaia di migliaia di soldati che, dopo l’8 settembre, preferirono rischiare la vita nei campi di concentramento in Germania piuttosto che aderire alla Rsi.
La
guerra. Fuori dai confini i morti contano meno?
Allora non si possono proprio considerare tali gli etiopi uccisi con il gas
durante la guerra per l’Impero, o i libici torturati e impiccati durante le
repressioni degli anni Venti e Trenta, o gli jugoslavi uccisi nei campi di
concentramento italiani in Croazia. Ma la spada di Mussolini provocò tanti
morti anche tra i suoi connazionali. Mussolini trascinò in guerra l’Italia il
10 giugno del 1940, per partecipare al banchetto nazista. I risultati, per
l’Italia, furono questi. Fino al 1943, 194.000 militari e 3.208 civili caduti
sui fronti di guerra, oltre a 3.066 militari e 25.000 civili morti sotto i
bombardamenti alleati. Dopo l’armistizio, 17.488 militari e 37.288 civili
caduti in attività partigiana in Italia, 9.249 militari morti in attività
partigiana all’estero, 1.478 militari e 23.446 civili morti fra deportati in
Germania, 41.432 militari morti fra le truppe internate in Germania, 5.927
militari caduti al fianco degli Alleati, 38.939 civili morti sotto i
bombardamenti, 13.000 militari e 2.500 civili morti nelle file della Rsi. A
questi vanno aggiunti circa 320.000 militari feriti sui vari fronti per l'intero
periodo bellico 1940/1945 e circa 621.000 militari fatti prigionieri dalle forze
anglo-americane sui vari fronti durante il periodo 1940/1943.
Da l'Unità, 11 settembre 2003, per gentile concessione