l'Unità

Il perdono soffocato dal dolore: la drammatica testimonianza di Simon Wiesenthal
di Fabio Stassi

Immaginate l’astanteria di un vecchio edificio universitario ridotto a ospedale militare. L’aria irrespirabile, carica di morte e di simboli. Un uomo bendato sul letto, gli occhi e il corpo devastati da una granata. Non ne vediamo il viso, ma ne leggiamo l’età e il nome sul bordo della branda: Karl, 21 anni, di Stoccarda. Una giovane SS spedita in Russia e ora agonizzante qui a Leopoli. È il 1942: Dio è in vacanza e per le strade dell’Europa centrale va in scena la più grande tragedia dell’umanità. E ora guardate questo prigioniero che una suora, su preghiera del ragazzo che muore, ha per pochi minuti sottratto al suo stato e condotto accanto a lui. Dite se questo è un uomo. Si chiamava Simon, ma adesso è un altro giovane senza volto, anche se non ha bende che lo coprono: scarno, sfinito, un servo della gleba, un «musulmano», un ebreo. Un tempo in questo istituto di architettura ci studiava, ma ora spera solo di morirci in fretta. Il filo di voce che li unisce è di Karl. Sua la mano sudata che cerca quella di Simon, la stringe, ne vince la ritrosia. Non gli serve un prete per questa confessione, ma il tribunale di una vittima. Ha bisogno di raccontargli la sua storia, la sua banalissima storia di bravo ragazzo cattolico, figlio unico, amatissimo dalla madre e rinnegato con dolore dal padre. Ha bisogno di dichiarare a qualcuno il suo apprendistato da omicida. Simon è muto, vuole andarsene, ma la mano di Karl non lo lascia, lo forza ad ascoltare cose che già conosce: le efferatezze della guerra, la forza della propaganda, palazzi stipati sino all’inverosimile di ebrei e inondati di benzina, i nazisti che gli danno fuoco, le mitragliatrici davanti la porta e Karl che spara contro chi fugge, una famiglia che si affaccia a una finestra, l’ultimo sguardo di un bambino prima che il padre lo getti di sotto insieme a lui. E’ una scena tragica e assurda: il volto dietro le bende chiede all’uomo senza volto un’assoluzione per il male che ha commesso, quella redenzione che solo una vittima o un bambino possono dare, con i loro occhi interrogativi che accusano, che non si dimenticano, che chiedono perché. Ma questa benedizione Simon non può impartirla. Non c’è perdono nel suo tempo sospeso. Per quelli come lui non ci saranno cimiteri militari, né girasoli sopra le tombe, né lacrime di madre: solo fosse comuni, senza luce, senza fiori, senza parole. Solo l’ira terribile degli uomini giusti. Si alza senza dire nulla, si allontana. L’indomani rifiuterà il fagotto che Karl gli aveva lasciato in eredità.  Ma ci sono persone per i quali il tema della giustizia e della pietà sono un destino e un dilemma. Il ricordo di questo episodio non lo abbandonerà più e Simon continuerà a tormentarsi e a interrogarcisi sopra per il resto della vita. Alla fine della guerra, andrà a Stoccarda, dalla madre di Karl, e ne vedrà finalmente il viso in una foto, e ne ritroverà il sacco con le ultime cose. Ma anche da quella casa uscirà in silenzio, non trovando il coraggio di rivelare alla donna la verità su suo figlio, lasciandole l’illusione che non s’era mutato in assassino. Decenni dopo, scriverà ai più grandi intellettuali d’Europa, per chiedergli una riflessione su questa vicenda e sul problema morale, filosofico e religioso che suscita. Le loro risposte sono riportate in appendice a questa nuova edizione del libro e costituiscono uno tra i più scabrosi e difficili dibattiti sulla condizione umana. Qualcuno valutò sbagliata la scelta di Simon di negare il perdono. Primo Levi giudicò invece l’atto della giovane SS infantile e insolente, perché anche nella morte vuole scaricare il peso della sua angoscia e della sua responsabilità su di un altro. E Jean Amery ribadì che nessuna riconciliazione è possibile con i carnefici.

Il girasole. I limiti del perdono Simon Wiesenthal Garzanti, 2002, euro 8,50

Da l'Unità, 1 aprile 2003, per gentile concessione

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