l'Unità
Giorno della Memoria
Ciampi agli studenti: «Lo sterminio degli ebrei italiani causato dalle
leggi razziali»
di red
«Noi italiani riflettendo sulla Shoah, non possiamo
dimenticare che lo sterminio di oltre un quinto degli ebrei italiani, eredi di
una cultura che aveva dato rilevanti contributi alla nostra comune identità
italiana, non fu dovuto soltanto alla barbarie nazista: fu reso possibile anche
dalle vergognose leggi razziali del 1938». Carlo Azeglio Ciampi celebra al
Quirinale insieme agli studenti l’anniversario del Giorno della Memoria. Ad
ascoltarlo sono le scolaresche che hanno vinto il concorso letterario indetto
quest’anno in occasione dell’anniversario della liberazione degli internati
di Auschwitz. A loro Ciampi spiega come nacque nella sua generazione, nel
dopoguerra, «con un moto spontaneo degli animi, uno slancio istintivo di
sopravvivenza, di fratellanza che fece dire: mai più guerre tra noi» e spinse
a costruire una nuova Europa che diventasse sempre più unita e all'insegna
della pace e dell'amicizia. «I conflitti del Novecento ed anche la seconda
guerra mondiale alla quale avevamo partecipato, - dice Ciampi - a noi
sopravvissuti, ci apparvero come guerre civili europee, guerre in cui si
combatteva fratelli contro fratelli, fra popoli che erano eredi e partecipi di
una stessa civiltà che si riconosceva in ideali e principi (libertà,
democrazia, tolleranza, uguaglianza dei diritti, fratellanza tra i popoli) che
insieme componevano un patrimonio di valori costruiti nel corso dei secoli con
uno scambio costante di idee tra tutte le culture nazionali europee». Ma ci
furono anche, ricorda Ciampi, «un grande numero di italiani non ebrei, migliaia
di uomini e donne di ogni ceto e di ogni regione, civili e militari, funzionari
e diplomatici, religiosi e religiose, che non obbedirono a quelle leggi e
soccorsero gli ebrei perseguitati, non solo quelli italiani, salvandone e
proteggendone molte migliaia».
Da l'Unità, 24 gennaio 2003, per gentile concessione
Bologna
ricorda l'Olocausto. «Fu anche un delitto italiano. Troppi silenzi»
di Andrea Carugati
BOLOGNA.
La cenere grigia, sparsa dal vento, che copre la neve caduta su
Auschwitz. È solo una delle immagini, dei colori, delle persone che ieri
mattina Liliana Segre, deportata a 13 anni, ha raccontato agli oltre 7 mila
studenti che hanno stipato all’inverosimile il palazzo dello sport di Bologna.
Studenti di 54 scuole, provenienti da tutta l’Emilia Romagna, ma anche da
altre regioni (da Benevento, Pistoia, Varese...), hanno ascoltato in silenzio
per oltre tre ore e hanno animato con i loro volti attenti una mattinata
speciale, in cui è emerso il senso più profondo del giorno della memoria. Il
senso di un passaggio di testimone da chi c’era, chi ha visto e subìto
l'Olocausto, ai ragazzi di oggi. Un passaggio necessario perché la Shoah, come
ha detto Furio Colombo (primo firmatario della legge con cui la Giornata è
stata istituita nel 2000) rivolto agli studenti, «quello di cui stiamo parlando
è la vostra vita in questo momento, non una lapide o un monumento». «Perché
ricordare proprio questo tra i tanti fatti atroci di cui è piena la storia?»
si è domandato Colombo. «Perché si tratta di un delitto italiano, che si è
realizzato anche a causa dei tanti che, per conformismo, hanno accettato
qualcosa di incredibile facendolo apparire normale». Colombo ha raccontato di
una mattina, nella sua scuola elementare di Torino, «quando nell’aula magna
è entrato l’ispettore della razza e ha letto la lista dei bambini che
avrebbero dovuto uscire e non sarebbero mai più tornati: nessuno dei maestri si
è mosso, nemmeno il direttore». Poi Colombo ha mostrato la prima pagina del
Messaggero del 3 settembre 1938, il titolo dell’articolo: «Insegnanti e
scolari di razza ebraica esclusi dalle scuole di ogni ordine e grado». E il
titolo dell’editoriale: «Un passo avanti». «È così che si compiono i
delitti» ha detto Colombo. E ha aggiunto: «Il silenzio è complice della
malvagità: cosa sarebbe successo se il mondo della cultura italiana avesse
risposto in modo diverso, senza voltarsi dall’altra parte? Quanti si sono poi
vergognati di quel silenzio?». «Non siate mai complici - ha concluso rivolto
ai ragazzi-. La storia è qui, è adesso e comprende l’orrore di cui stiamo
parlando». Il palasport ha applaudito a lungo, molti ragazzi si sono alzati in
piedi. Poi è toccato a Liliana Segre raccontare il film della “sua” Shoah,
iniziata a Milano a 12 anni con le umiliazioni seguite all’esclusione da
scuola, le dita che la indicavano per strada, il silenzio indifferente «più
violento della violenza». La vita normale che si sgretola poco a poco, i soldi
che iniziano a scarseggiare, gli amici e i parenti che emigrano, e la voglia
testarda di pensare che passerà, che «è solo una burrasca». E invece, dal
1943, inizia la caccia all’uomo di nazisti e repubblichini, la necessità di
nascondersi e assumere nuove generalità, «che non volevo imparare a memoria».
E poi il viaggio della speranza verso la Svizzera, attraverso le montagne dietro
Varese, la corsa «in un’alba gelida con i vestiti da città», l’incontro
con gli agenti di frontiera svizzeri, che li rimandano indietro e li consegnano
nelle mani dei finanzieri in camicia nera. E le manette per il padre Alberto, i
40 giorni a San Vittore, rinchiusi nel 5° braccio, «l’ultima casina in cui
abbiamo vissuto insieme»: i muri della cella, con i segni di chi era passato
prima, «maledizioni, benedizioni, addii, firme». L’immagine di Alberto che
piange di notte, inginocchiato di fianco al suo letto a chiederle «scusa per
averla messa al mondo». E poi il giorno in cui arrivò un tedesco con la lista
del trasporto, 600 ebrei tutti in fila indiana, accarezzati dalla pietà dei
detenuti comuni che gridavano preghiere e lanciavano frutta e cioccolata.
L’affetto del signor Bianchi, un omone che le gridò: «Abbi forza, ce la
farai: e ricordati di me». E il viaggio «verso il nulla», lungo una
settimana, stipati nel vagone «come vitelli che ansimavano per la sete alle
inferriate»: «Buttavamo biglietti, chiedevamo acqua ma nessuno ci rispondeva».
Il viaggio visto da dentro, con le lacrime, e i salmi di un piccolo gruppo
raccolto al centro del vagone, fino al «silenzio assoluto delle ultime cose».
Intanto il paesaggio che cambia attraverso le inferriate: le colline, le
montagne, cartoline veloci e lontane. All’improvviso il «rumore osceno e
assordante di Auschwitz», dove «rimasi sola per sempre, quando anche la
signora Morais, a cui papà mi aveva affidato, non superò la selezione e fu
mandata al gas insieme ai suoi due figli». Per Liliana, invece, ci sono la
svestizione, la depilazione, il tatuaggio del numero 75190, la trasformazione da
persone a «pezzi numerati, quello che siamo diventati più di ogni altra cosa,
perché i nazisti sono riusciti a privarci della nostra dignità». Il grigio di Auschwitz: «dei volti, del cielo, delle
baracche e della neve». E «l’odore dolciastro della carne bruciata che
impregnava tutto». «Cominciò una vita che scelsi subito di non buttare via -
ha detto la Segre, stretta nel tailleur marrone, ogni parola scandita con
pacatezza e dignità -. Scelsi la vita, questo dono enorme che non si può mai
buttare via». Dietro di lei piange la senatrice Daria Bonfietti, mentre le
lacrime invadono i visi delle insegnanti appoggiate sul parquet. E alcuni
ragazzi sdraiati guardano verso il soffitto, quasi uno schermo su cui passano le
immagini: il corpo «avvilito e scheletrico, le piaghe, il freddo, le botte».
«Mi sono dovuta sdoppiare, con l’anima non ero lì, volevo stare sola e non
guardavo i mucchi di cadaveri accatastati. Inventavo immagini di prati, nuotavo
nel mare della Liguria». Segre ha trasmesso ai ragazzi la paura fisica che ha
provato durante le tre selezioni che ha subìto in un anno di prigionia: come se
ognuno dei settemila di Bologna, per qualche minuto, si sentisse al suo posto.
Con lo «sguardo indifferente, mentre il cuore batteva forte e mi dicevo: voglio
vivere, voglio vivere, voglio vivere». Liliana alza il tono della voce, la sala
trattiene il fiato. Lei continua: «Il medico si stupì di come fosse brutta la
cicatrice della mia appendicite e disse: “Io l’avrei fatta meglio”».
Liliana ce la fa, non la sua amica Jannine, una biondina francese di 20 anni.
Poi ci fu l’arrivo dei russi, l’evacuazione del campo, l'inizio della «marcia
della morte», la felicità quando «potevamo mangiare qualcosa da un letamaio»,
le ore di cammino nella neve rossa di sangue. «Eravamo dei piranha - dice
Liliana - a Ravensbruck siamo arrivate solo in tre, io e due sorelle di Genova.
Dalle baracche vedevamo la primavera, sognavamo di toccare i fili d’erba. E ci
dicemmo: se torniamo a casa andremo insieme al ristorante. È successo davvero».
È quasi mezzogiorno, le parole si interrompono e gli studenti si alzano in
piedi, in un applauso che sembra non finire. Elisa, una studentessa di Bologna,
si avvicina con un mazzo di fiori: «Posso darti un bacio?» chiede Liliana.
Elisa si mette a piangere. Mentre Myriam Cohen, dell’associazione «Figli
della Shoah» che ha organizzato l’incontro, dice: «È da novembre che
lavoriamo per questa mattinata: ho contattato personalmente le scuole, ho
parlato con studenti, insegnanti e genitori. Alessandro Cuccaro della Consulta
provinciale degli studenti mi ha aiutato moltissimo. E la partecipazione dei
ragazzi è stata sorprendente per l’intensità».
I siti
dell'Olocausto
di Wanda Marra
Il
27 gennaio del 1945 venne liberato il campo di sterminio di Auschwitz. Con una legge
approvata nel luglio 2000 quella data diventa il "Giorno della
memoria" in Italia, istituito per "ricordare la Shoah (sterminio del
popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini
ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte,
nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al
progetto di sterminio". Chi
volesse saperne di più su questa giornata può andare sul sito dell' Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane , oppure su quello della Fondazione
centro di Documentazione Ebraica Contemporanea In Rete non mancano spazi non
istituzionali dedicati all'Olocausto: Olokaustos.org
è il primo sito italiano che ha come argomento la storia dell'Olocausto dal
1933 al 1945. "Nasce dalla consapevolezza che ricordare serve a non far
riaccadere" si legge sulla sua home page. Propone approfondimenti,
documenti, percorsi, ma prima di tutto si propone dichiaratamente di dare un
nome ai colpevoli. "Dedicato
alle vittime dell'Olocausto" si legge sulla home page del Progetto
Nikzor, un sito che raccoglie informazioni sui luoghi, i colpevoli, le
vittime dell'Olocausto, dà spazio alle associazioni che si occupano di questo
tema, ma soprattutto è impegnato nella confutazione del revisionismo, secondo
il quale l'Olocausto non sarebbe mai avvenuto. "Dov'era Dio ad
Auschwitz?" recita, invece, un
sito italiano dedicato alla Shoah, che offre una serie di risorse per
approfondire quest'argomento con una grafica amatoriale e un linguaggio
aggressivo. La definizione data della Shoah dà un'idea dello stile non proprio
"politically correct" del sito:" Una volta un imbianchino di nome
Adolf Hitler, disse, in una birreria: "Se un giorno andrò al potere, la
prima cosa che farò sarà distruggere il popolo ebraico. Alcuni anni dopo,
l'imbianchino andò al potere, e mise in moto una macchina che assassino' i nove
decimi del popolo ebraico in Europa.Questo assassinio di massa si chiama, in
ebraico, Shoah ". Mostre online, documenti, approfondimenti, infine, si
possono trovare sul sito del Museo
dell'Olocausto di Gerusalemme e su quello del Museo
dell'Olocausto di Washington .
Per non
dimenticare Auschwitz
di Valentina
Petrini
Il
27 gennaio 1945 Auschwitz fu liberata dalle avanguardie del 62° Corpo d'armata
sovietico. Restavano solo poche centinaia di creature in vita delle centinaia di
migliaia di donne e uomini che vi erano transitati. Il
27 gennaio è il Giorno della memoria. In tutta Italia si ricorda un squarcio di
storia che ci appartiene e fa parte del nostro presente. Dibattiti, proiezioni,
mostre, incontri nelle scuole. Ovunque, dal nord al sud, per ricordare lo
sterminio di un popolo intero. Auschwitz è forse il simbolo più atroce della
barbarie nazista. Il 20 gennaio 1942 un piccolo gruppo di gerarchi nazisti si
riunì in una località alla periferia di Berlino, Wannsee, per deliberare sulla
cosiddetta “questione ebraica”. Fu qui che venne decisa la "soluzione
finale" la Endlösung, ovvero più brutalmente lo sterminio definitivo di
un intero popolo. Fu Himmler,
capo delle SS e comandante della Gestapo, a dare l’ordine di costruire un
campo della capacità di almeno 100 mila persone. Il primo Auschwitz nacque nel
1940, vicino alla città polacca di Oswiecim. Rudolf Höss fu nominato
comandante del nuovo Konzentrationslager (KL). L'enorme riciclo e affluenza di
deportati spinse i tedeschi alla costruzione di Auschwitz II-Birkenau a 3 km di
distanza. Nel 1942 fu costruito Auschwitz III-Monowice. Non fu abbastanza. Fra
il 1942 e il 1944 sorsero altre 40 filiali di Auschwitz, dipendenti da Monowice,
collocate vicino a fonderie, miniere e fabbriche. Migliaia di prigionieri
cominciarono ad affluire ad Auschwitz, per contribuire ai lavori, per lavorare a
loro volta nelle aziende agricole e nelle fabbriche che sorgevano come funghi
intorno al campo. Si trattava di imprese allettate dai bassi costi di
produzione, dato che la manodopera era quella pressoché gratuita fornita dal
Lager. Poi c'erano i vantaggiosi contratti di appalto, dai quali
l'Amministrazione delle SS ritagliava generosamente la propria fetta di
guadagno. Le camere a gas hanno inghiottito interi convogli di ebrei,
provenienti dalla Germania, dalla Polonia, dalla Francia, dall’Ungheria, dal Belgio, dall’Olanda, dalla Grecia e dalla Germania. Treni e treni di uomini,
donne e bambini, stipati in carri bestiame, scaricati sulle rampe dei Lager ed
avviati alle finte docce dove venivano uccisi con un gas letale, il famigerato
Zyklon B. Veniva utilizzato nella disinfestazione dei pidocchi e fu utilizzato
su larga scala per l'uccisione di massa nelle camere a gas. Loro, i deportati di
ogni età, servivano anche ad altro nella folle visione nazista. Erano cavie,
corpi da sperimentazione. Gli specialisti delle SS studiavano gli effetti delle
infezioni, degli aborti, delle pratiche di sterilizzazione, usando come cavie
uomini, donne, bambini attinti dai convogli, prima di mandarli nelle camere a
gas. Quando il crematorio non riusciva a smaltire la razione giornaliera di
cadaveri, questi venivano bruciati in grandi cataste nei dintorni del Lager. I
numeri, difficili da raccontare perché troppo grandi. Sicuramente più di 2
milioni e mezzo di morti solo ad Auschwitz. Forse sei milioni in tutto. Di certo
l'ecatombe continuò fino agli ultimi giorni, e cessò solo con la chiusura del
campo. Per quantità e qualità, Auschwitz è stato il Lager dove l'inventario
dei crimini, degli orrori e della morte ha assunto dimensioni apocalittiche. Il
17 gennaio 1945 il campo fu sgombrato perché le armate russe stavano muovendosi
in direzione di Cracovia. Migliaia di uomini e di donne furono abbattuti a colpi
di mitra, quando non riuscivano più a muoversi.
Da l'Unità, 27 gennaio 2003, per gentile concessione
Le immense
colpe del fascismo
di Michele Sarfatti
In
occasione del giorno della memoria ricordiamo prima di tutto le vittime, e poi i
giusti. Ma non dimentichiamo che le prime e i secondi furono tali a causa degli
ingiusti. Che vi fu chi agì affinché si realizzasse quella loro condizione. Ebbene, tanto le vittime e i giusti sono facilmente
identificabili e memorizzabili, tanto gli ingiusti e le ingiustizie possono
sfuggire a una facile identificabilità e quindi alla loro cristallizzazione
nella memoria. Nella persecuzione novecentesca degli ebrei molte decisioni,
fossero esse apertamente criminali o apparentemente asettiche, furono il
risultato di processi complessi, ai quali contribuirono più autorità, più
enti, più persone. Parlare degli ingiusti quindi comporta maggiori difficoltà.
Appunto per ciò, in questo terzo «giorno della memoria» vale la pena di
iniziare ad affrontarne i lati tuttora meno noti e meno memorizzati. Lo
spunto concreto mi è venuto constatando che negli ultimi anni sono stati
pubblicati numerosi volumi su Chiesa cattolica e antisemitismo, su Santa Sede e
Shoah. Ebbene, come ciascuno può agevolmente verificare negli scaffali della
propria biblioteca o della libreria sottocasa, non è possibile paragonare
questa realtà quantitativa con il lieve numero dei volumi su fascismo e
antisemitismo, su Mussolini e lo sterminio degli ebrei. Eppure, a qualunque
opinione si pervenga relativamente a ciò che venne fatto o non fatto
oltretevere, una cosa è indubbia: di qua dal Tevere fu fatto di peggio, le
responsabilità di parte fascista furono più gravi. Nevvero? E allora perché
esse «attirano» meno interesse e meno memoria? Ahi ahi, qui si ritorna sul
tema del lavaggio a secco dell'identità nazionale. Beh, vediamo intanto di dare
un piccolo contributo alla loro messa a fuoco. Affrontiamo ad esempio il periodo
terminale del Regno fascista: l'inverno 1942-1943. A tale epoca la Germania
nazista sta sterminando gli ebrei delle proprie zone, l'Italia fascista no.
Tutti i governanti del globo dotati di uno straccio di servizio di informazioni
sanno che è in atto qualcosa di tremendo ai danni degli ebrei europei, per
responsabilità dei nazisti, coadiuvati e talora preceduti da forze antisemite
locali. Lo sa anche Mussolini. Lo sanno anche i capi dell'Alleanza democratica
che combatte nazismo e fascismo. Alla fine del 1942 qualcosa si muove nelle
sensibilità dei governi di questi paesi e il 17 dicembre Londra, Washington e
Mosca rilasciano simultaneamente una dichiarazione che reca la firma anche dei
governi liberi di Belgio, Cecoslovacchia, Grecia, Lussemburgo, Olanda, Norvegia,
Polonia, Iugoslavia e del Comitato nazionale francese. Il testo recepisce,
avvalla e divulga la notizia che «le autorità tedesche … stanno mettendo in
atto le ripetute minacce di Hitler di sterminare gli ebrei d'Europa» e che «questa
bestiale politica di sterminio eseguita a sangue freddo» ha già portato a
morte «molte centinaia di migliaia di innocenti, uomini, donne e bambini». «I
responsabili di questi crimini - conclude la dichiarazione - non sfuggiranno
alla giusta sanzione». Il significato della dichiarazione è chiaro: il Terzo
Reich sta assassinando l'ebraismo europeo, deve smettere, lo puniremo. Possiamo
dedurre quindi che con questa dichiarazione la Germania nazista viene messa
pubblicamente di fronte alle sue responsabilità? Mi pare di sì. E possiamo
dire lo stesso dei suoi alleati, a partire da quello preferito? La domanda esula
un po' dai complessi canoni storiografici, ma la risposta è comunque
affermativa. Cosa fa allora l'Italia fascista? Come
già detto essa a quell'epoca non ha in atto una politica di sterminio dei «propri»
ebrei (ossia di quelli italiani e, conseguentemente, di quelli delle proprie
zone di occupazione). Sì, ma cosa fa l'Italia fascista di fronte alla pubblica
denuncia dello sterminio effettuata con la dichiarazione del 17 dicembre (e alla
pubblica conferma delle notizie già pervenute a Roma)? L'Italia fascista fa
qualcosa in favore delle centinaia di migliaia (centinaia di migliaia!) di
morituri delle zone tedesche? O, più semplicemente, fa qualcosa per
differenziarsi pubblicamente dall'alleato macellatore? Ebbene, questo è uno dei
temi non ancora indagati dalla storiografia. Proviamo allora a riportarne alla
luce un momento particolare. Dal 24 al 28 febbraio 1943 il ministro degli esteri
tedesco Ribbentrop è a Roma, ove incontra Mussolini e gli consegna una lettera
di Hitler datata 16. Questa contiene un solo accenno antisemita, relativamente
marginale: «la plutocrazia giudaica ammantata da anglosassone …». Nel
comunicato stampa congiunto pubblicato il 1°, Mussolini e Ribbentrop
riaffermano una «perfetta identità di vedute» e si riferiscono agli ebrei in
termini non dissimili da quelli di Hitler: nel nuovo ordine europeo i popoli
saranno «liberi da ogni dipendenza plutocratico-giudaica». Bottai al riguardo
annota nel proprio diario: «Nel comunicato odierno c'è la formula della
“plutocrazia giudaica”, che consacra, credo per la prima volta per quanto
riguarda l'Italia ufficiale, il carattere antisemita della lotta. Una formula
contro i nemici comuni o contro noi, per impedirci eventuali contatti con loro?
È un interrogativo di Federzoni». Non era esattamente la prima volta; ma qui
ora interessa evidenziare il fatto che la frase finale rimanda chiaramente alla
svolta impressa dalla dichiarazione alleata del 17 dicembre: lo schierarsi nel
conflitto comporta ormai anche lo schierarsi per lo sterminio o per la salvezza
degli ebrei sotto Hitler. Beh, Mussolini si schiera; rispondendo personalmente a
Hitler l'8 marzo, dopo essersi soffermato su una sua infermità, prosegue: «La
cosa, in fondo, non mi preoccupa. L'importante è di combattere e di vincere. Le
piccole infermità personali sono episodi insignificanti di fronte alle infermità
che le demoplutocrazie e il giudaismo hanno inflitto al genere umano, infermità
che il ferro e il fuoco guariranno». È vero, siamo un po' tra la piaggeria e
l'ambiguità, tra il dire e non dire; ma siamo di fronte a un appoggio, e non a
una condanna, dello sterminio in atto.
Da l'Unità, 28 gennaio 2003, per gentile concessione