l'Unità
Giorno della Memoria
Storie
di casa nostra: i campi in Toscana
di Valeria Galimi
Il
10 febbraio 1944 il direttore del campo di concentramento di Villa Oliveto
scriveva al Ministero dell'Interno e alle autorità locali che "il 5 corr.
si presentò a questo Campo un reparto di S.S. Germanici (sic), i quali
rilevarono con autocarro gli internati ebrei, sudditi Britannici di cui
all'unito elenco, avviandoli per ignota direzione". Si trattava di
una sessantina di ebrei libici di cittadinanza britannica, famiglie con bambini
e anziani, rinchiusi nel campo dal gennaio 1942. Essi furono condotti a Firenze,
nelle carceri e poi trasferiti con un carro bestiame a Fossoli. Dì lì, sette
mesi dopo, furono deportati con il convoglio n. 11 a Bergen Belsen, dove
rimasero quattro mesi prima di essere liberati. Fu un caso fortuito; altri ebrei
deportati dai campi di internamento fascisti non si salvarono, ad esempio, per
restare nella stessa Toscana, quelli di un altro piccolo campo, a Bagno a Ripoli,
vicino Firenze, i cui internati furono prelevati nel febbraio 1944 e andarono a
far parte del convoglio n. 5, da cui nessuno fece ritorno. Il campo di Villa
Oliveto, nel comune di Civitella della Chiana (AR) fu attivo dal giugno 1940 al
maggio 1944. Inizialmente furono internati una sessantina di sudditi francesi,
inglesi, polacchi e ebrei tedeschi, arrestati dopo l'entrata in guerra
dell'Italia. Nell'aprile 1941 furono internati, per pochi mesi, una cinquantina
di marinai jugoslavi, dopo poco liberati. Villa Oliveto fu uno dei campi in cui
furono smistati gli ebrei di nazionalità inglese provenienti dalla Libia (una
vera e propria deportazione, secondo la definizione dello storico tedesco Klaus
Voigt); vi giunsero alcuni gruppi di famiglie, con molti bambini, donne e
anziani, in condizione di salute precarie. I gruppi dei libici rimasero nel
campo anche dopo l'8 settembre, e l'apertura del campo stesso: una settantina di
loro non sapeva dove andare. Il campo di Villa Oliveto, all'arrivo delle truppe
tedesche, fu ricostituito e gli internati di nuovo rinchiusi. Il direttore del
campo e gli agenti di sorveglianza continuarono a svolgere le loro mansioni e
non ritennero opportuno neppure avvertire gli ebrei rinchiusi del pericolo di
rastrellamento da parte dei comandi tedeschi. In occasione del giorno della
memoria, il 27 gennaio, ricorrenza della liberazione di Auschwitz, vogliamo qui
ricordare una delle tante storie di casa nostra, del contributo del nostro paese
alla "soluzione finale" degli ebrei di tutta Europa. Non è possibile
ripercorre tutto l'iter, complesso e contraddittorio, che ha portato al
riconoscimento, con il giorno della memoria, delle deportazioni attuate durante
la guerra. Dopo tre anni di aspre discussioni, nel luglio 2000 il parlamento
italiano ha approvato la legge di istituzione di questa giornata "in
ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati
militari e politici italiani nei campi nazisti". Tale giorno diventa una
ricorrenza civile della Repubblica al fine di "ricordare la Shoah, le leggi
razziali, la persecuzione dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la
deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e
schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio
della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati". È
stato Michele Sarfatti uno dei primi a mettere in luce i limiti di un
riconoscimento, che, in nome della mediazione, ha evitato di fare i conti con la
realtà e la peculiarità della persecuzione nella nostra penisola, ossia che
l'Italia è stato un paese di deportati ma anche di deportatori e che il testo
non indica né il termine fascismo né quello della Repubblica sociale italiana.
Ecco perché è necessario che il giorno della memoria non si stemperi in un
cerimoniale asfittico su cose lontane, e diventi bensì un momento di vera
discussione sulle corresponsabilità tutte italiane; per usare le parole di
David Bidussa di un bell'articolo dal titolo significativo Auschwitz siamo noi
("Il Manifesto, 27 gennaio 2001): «È questo il giorno della memoria: è
persone vendute alle squadre di rastrellamento per un po' di sale; è la
possibilità di rilevare aziende, proprietà, affari negozi, posti di lavoro,
vite, in nome di un'italianità che garantisce futuro e benessere... Così, il
"giorno della memoria" chiama in causa la necessità di considerare
gli effetti della nostra politica e della nostra storia senza attribuire ad
altri la responsabilità». I campi di concentramento che il fascismo installò
nella penisola al momento dell'entrata in guerra rappresentano bene queste
corresponsabilità italiane, e non solo per la continuità anche delle strutture
fisiche dei luoghi di reclusione prima e dopo l'8 settembre. Ma facciamo un
passo indietro. A lungo la storia dell'internamento è stata trascurata anche
dalla nostra storiografia. Solo negli ultimi anni sono stati avviati numerosi
studi sull'internamento civile a livello nazionale e locale. L'internamento
civile come forma di tutela, utilizzata da tutte le nazioni impegnate in un
conflitto bellico, divenne a partire dall'entrata in guerra dell'Italia una
componente importante del sistema repressivo fascista. Esso servì per colpire i
nemici del regime: anarchici, comunisti, zingari, ebrei stranieri e parte di
quelli italiani, slavi deportati dalle zone della Slovenia e della Dalmazia
annesse alla "Provincia italiana". In tutta la penisola furono più di
cinquanta i campi di concentramento per civili, sottoposti alla giurisdizione
del Ministero dell'interno, in funzione fino all'armistizio. Essi erano
dislocati soprattutto nelle regioni centromeridionali o in isole. Di questi
circa quaranta ospitarono ebrei. Se non è possibile ripercorrere in dettaglio
le vicende del campo di Villa Oliveto vorrei mettere in luce alcuni aspetti che
mostrano lo stretto legame dell'internamento con ciò che avvenne dopo
l'armistizio e l'occupazione tedesca. Gli ebrei reclusi in questo o in altri
campi infatti furono facilmente individuati dai comandi tedeschi e deportati nei
campi di sterminio. Questo rappresenta un importante nodo di congiunzione
dell'apporto della politica razziale del fascismo alla "Soluzione
finale" in Italia. Il caso toscano mostra bene che l'apparato persecutorio
fascista fu uno strumento che rese più facile alle autorità di occupazione
deportare gli ebrei dall'Italia. Anche se dietro alle leggi contro gli ebrei del
1938 e all'istituto dell'internamento del 1940 non vi fu una volontà di
sterminio, attraverso l'esclusione sancita dal fascismo, i nazisti trovarono gli
ebrei italiani e stranieri residenti in Italia già schedati, isolati dal resto
della popolazione e talvolta già internati. Non è casuale infatti che il
numero dei deportati fu il doppio fra gli ebrei stranieri rispetto a quello
degli ebrei italiani. Ciò è comprensibile se si considera che gli ebrei
stranieri, internati nei campi o nelle località di internamento, non avevano già
da tempo alcun rapporto con il mondo esterno. Essi erano privi sia di
informazioni sia della possibilità di allacciare relazioni con la popolazione
locale, che in molti casi portò soccorso agli ebrei italiani e il cui aiuto fu
indispensabile per la loro salvezza. Come abbiamo detto, solo recentemente la
ricerca ha cominciato a gettare luce su una pagina dimenticata della nostra
storia, ma ancora con difficoltà si registra una presa di coscienza da parte
dell'opinione pubblica. Per ricordare tutto questo, il 27 gennaio 2002 è stata
organizzata una giornata di studio presso Villa Oliveto, con la deposizione di
una lapide commemorativa. Tale iniziativa è oggi tanto più necessaria, poiché
il venir meno dei testimoni diretti rende più urgente che i "luoghi della
memoria", gli edifici utilizzati durante la guerra come luoghi di
privazione di libertà, diventino oggetto della riflessione storiografica e
della memoria pubblica, e costituiscano essi stessi un monito della guerra e
delle sue conseguenze per le nuove generazioni.
Da l'Unità, 25 gennaio 2002, per gentile concessione
È
il
silenzio il grande complice
di Furio Colombo
Il
giorno della memoria non è per gli ebrei. Gli ebrei non possono dimenticare. E'
per tutti coloro che non vorrebbero più sentirne parlare e dicono: lasciamo
perdere. Non lasciate perdere. Ciò che è accaduto è esemplare non solo
nell'orrore delle sue conseguenze ma anche nel modo in cui è cominciato. La
persecuzione degli ebrei d'Europa è cominciata con una catena di atti di viltà,
poi di notizie false. Alle notizie false si uniscono uomini di cultura e
giornalisti autorevoli. Gli uomini di cultura accettano e accreditano la frase
"difesa della razza". Non ha alcun senso, ma ripeterla serve alla
carriera, attira attenzione benevola, apre porte. Si liberano posti se gli ebrei
se ne vanno. Giornalisti stimati e celebri scrivono. Hanno già un nome, ma fare
la cosa giusta può tornare utile. Entri nella zona di luce, ti chiamano quelli
che contano, tutto diventa più facile. Scrivi cose che non sai, di cui non hai
mai sentito parlare. Ci sono fonti che te le fanno pervenire. Ti dicono che gli
ebrei sono nemici, controllano il mondo, hanno in mano banche e finanze (oltre
al negozio di mercerie sottocasa). Ti parlano di un'Italia cristiana e in
pericolo, minacciata da estranei che saranno sempre stranieri. Fanno dimenticare
di colpo anche ai colti che la comunità degli ebrei romani (quelli deportati in
silenzio il 16 ottobre 1943) è radicata a Roma da molto prima dei papi. Ma i
giornalisti scrivono. Sono sicuri persino di sentire gli odori
"diversi" di concittadini che sono stati amici, colleghi, compagni di
scuola, amici fraterni fino a un istante prima. Il giorno della memoria è sgradevole perché ricorda
l'opportunismo dei tanti che, mentre ascoltavano affermazioni che sapevano false
e spregevoli, hanno fatto finta di niente, hanno continuato tranquillamente la
loro vita senza neppure voltarsi indietro. I bambini venivano espulsi dalle
classi e gli insegnanti non avevano nulla da dire. I colleghi lasciavano
cattedre e uffici e nessuno sembrava notarlo (salvo profittare dei posti
lasciati liberi). Ufficiali non c'erano più ai reggimenti, giudici e
amministratori scomparivano. E c'era chi faceva notare un cognome che poteva
essere sfuggito agli agenti zelanti. Il giorno della memoria ci parla della viltà,
malattia infettiva a tutti i livelli. Mussolini preferisce piacere a Hitler, il
re d'Italia ha paura di Mussolini, ciascuno, lungo tutte linee gerarchiche del
Paese, compie il suo delitto per stare tranquillo e non correre rischi. Nel
giorno della memoria ascoltiamo l'immenso silenzio di coloro che avrebbero
potuto parlare e non hanno parlato, erano celebri e hanno taciuto, erano noti
nel mondo e non hanno detto una sola parola. Quelli di loro che sono ancora in
giro o che hanno discendenti di famiglia o di fede ti dicono: non si poteva. Nel
giorno della memoria giungono, difficili da evitare, le smentite della storia.
Un certo Dimtar Peshev, vice presidente fascista del parlamento bulgaro rifiuta
di far approvare il pacchetto di leggi appena ricevuto da Roma e già firmato da
Vittorio Emanuele III. Va da Boris, re di quel paese, genere del re italiano, e
lo persuade a non firmare. I nazisti e fascisti erano dovunque in Bulgaria. Ma
nessun ebreo bulgaro è stato deportato.Nel giorno della memoria sei costretto a
ricordare che quel tremendo delitto, la Shoah, lo sterminio degli ebrei
d'Europa, è stato un delitto italiano. Fascisti e nazisti erano gli occupanti e
i dominatori di un'Europa disperata e distrutta in cui funzionavano, e
funzionavano bene, soltanto i treni delle deportazioni, con personale e
organizzazione tedeschi e italiani. Nel giorno della memoria, ciò che hanno
fatto i giusti svergogna il silenzio, l'opportunismo, la collaborazione di
coloro che si sono prestati al progetto dello sterminio. Alcuni nomi di giusti
oggi sono celebri e onorati (finalmente, tardivamente) come Giovanni Palatucci e
Giorgio Perlasca. Tanti altri si sono perduti o sono rimasti ignoti. Ricordate
il libro di Primo Levi, il film di Francesco Rosi "La Tregua?" Il 27
gennaio i soldati russi abbattono i cancelli di Auschwitz e l'orrore si scioglie
in silenzio lasciando fosse comuni, cenere, cadaveri e sopravvissuti allo sbando
e quasi nessuna traccia, dell'immenso sterminio, nessuno che vuole ascoltare, se
non ci fosse stata l'ostinazione di coloro che non hanno voluto dimenticare. A
Norimberga i complici ed esecutori di Hitler non sono stati processati per la
Shoah ma "solo" per i crimini di guerra. In Italia è finito in questi
giorni (in questi giorni, gennaio 2002) il lavoro della Commissione Anselmi per
la restituzione dei beni ai cittadini ebrei perseguitati e derubati di tutto.
Quella commissione ha lavorato con tenacia contro una immensa inerzia e la
dispersione dei dati e dei beni ritrovati. Ci sono voluti decenni perché si
formasse una letteratura della Shoah, luoghi, nomi, documenti, prove. E subito
è entrata in funzione, a tanti livelli e con diverse strategie (dalla pretesa
del dubbio alla cultura della negazione) la macchina del revisionismo. Si
esprime con la frase rozza di Vittorio Emanuele a un telegiornale italiano,
ricordate? "Si è trattato di ben poca cosa", ha detto delle leggi
razziali.Si manifesta con pretese scientifiche e accademiche fondate su un
ignobile gioco: identificare un dettaglio di cui si può dubitare per sostenere
che niente è accaduto. L'antisemitismo è vivo. Lo dimostra la trasmissione a
puntate, in questi giorni, dei "Protocolli dei Savi di Sion" (celebre
documento falso già usato da Hitler) nelle radio e televisioni arabe (lo ha
ricordato Paolo Mieli sul Corriere della Sera). Ma la più dura lezione del
giorno della memoria è il silenzio, complice e partner indispensabile del
grande delitto. Le conseguenze di quel silenzio durano ancora.
Da l'Unità, 26 gennaio 2002, per gentile concessione
Minacce ai sopravvissuti, polemiche alla Risiera
di Michele Sartori
TRIESTE
«Viva il Terzo Reich». «Faremo un unico falò» di «arabi musulmani,
ebrei, sloveni, partigiani, deportati, sindacati e quanti altri»: seguono i
nomi di tanti ex deportati nei lager, di ebrei e di personaggi triestini come il
coordinatore dell'Ulivo, Fulvi o Camerini, o il vicepresidente della Risiera di
San Sabba, Adriano Dugulin. Triste ed anonima contro-inaugurazione locale del «Giorno
della memoria», la lettera è arrivata ieri per posta a Ferdi Zidar: che adesso
guarda serenamente la vita dall'alto dei suoi 86 anni, ma prima ne ha passate di
cotte e di crude, sopravvissuto a Buchenwald, allontanato poi dai regimi
dell'est quand'era un limpido e libero corrispondente dall'estero dell'«Unità».
Domenica, anniversario della liberazione del lager di
Auschwitz, si ricorda la Shoah, e uno dei due appuntamenti principali, quello
alla Risiera di San Sabba a Trieste - l'altro è una manifestazione a Roma,
presente Carlo Azeglio Ciampi - non manca di tensioni. E non solo per la lettera
minatoria. Il fatto è che presidente della Risiera, unico campo di
concentramento con forno crematorio in Italia, è diventato da qualche mese
Roberto Menia, parlamentare di An ed assessore alla cultura della nuova giunta
di centro-destra. Stamattina Menia non parlerà, ma dovrebbe essere presente. E
tanto basta per indurre alcuni, da Rifondazione ai no-global, a disertare la
cerimonia, ed un gruppo di ebrei a preferirle un pellegrinaggio al cimitero
israelitico. L'Ulivo no, invece, ci sarà, rifiuta l'aventino, «saremo presenti
perché la memoria non ammette deleghe, per ricordare che, pur condividendo la
pietas per tutti i caduti, mai accetteremo una omologazione dei valori fra
oppresso ed oppressore», fa anzi appello perché tanti partecipino, ascoltino i
discorsi di Amos Luzzatto, presidente delle comunità ebraiche italiane, e di
Luciano Violante, ed assistano all'inaugurazione del nuovo museo interno. Poi
l’appello di Ciampi: «È nostro dovere ricordare, la forza della memoria va
trasmessa ai nostri figli e nipoti». Non ancora tante come dovrebbero essere, non troppo
calorosamente sostenute dal governo nonostante un messaggio ieri di Silvio
Berlusconi ad Amos Luzzatto, cerimonie, convegni, manifestazioni, mostre,
spettacoli in tutta Italia sono comunque abbastanza da impedirne l'elenco. Assai
meno, tuttavia inquietanti, i punti neri, come quello di Trieste. A Rovigo (giunta di centrodestra) An ha pensato bene di
impiegare proprio questo week-end per proporre in una sala del centralissimo
Corso del Popolo una mostra sui repubblichini di Salò, «Combatterono per
l'Italia», per presentare due libri dell'ex vol ontario dei «Battaglioni M»
Carlo Mazzantini («I balilla andavano a Salò» e «A cercar la bella morte»),
e per organizzare un convegno «per dare un'altra lettura di quella fase della
storia». Il convegno l'han fatto ieri pomeriggio, tra proteste e volantinaggi
dei diessini e della sinistra, hanno parlato ex repubblichini ed il direttore di
«Area», mensile di An, Marcello De Angelis: un tempo vicino a «Terza
Posizione» e a lungo latitante a Londra dopo la strage di Bologna, oggi
musicista, autore del rassicurante hit «Cuore Nero» («Tanta gente mi vorrebbe
al cimitero - ma io ho il cuore nero - e me ne frego e sputo - in faccia al
mondo intero»). A Verona il consiglio provinciale ha sottoscritto unanime un
documento decidendo di osservare un minuto di silenzio per onorare i deportati,
ma An ha voluto distinguersi proponendo da sola lo stesso testo con una
aggiunta: la condanna, oltre che dello sterminio degli ebrei, «anche delle
altre atrocità» della storia, equiparate. È la stessa An che si è distinta,
in provincia ed in città, giunte di centrodestra, nel rendere omaggio ai morti
di Salò e nel finanziare concerti nazi-rock e rassegne di editori a di estrema
destra, con libri apertamente negazionisti della Shoah. Dal capoluogo veneto,
comunque, anche una buona notizia: dopo le tante proteste, il sindaco di Forza
Italia, Michela Sironi Mariotti, che aveva vietato l'esposizione in piazza Bra
di un o storico «vagone piombato» usato per la deportazione degli ebrei, ci ha
ripensato, e stamattina il carro ferroviario sosterà proprio sotto la gradinata
del municipio. Vandali filonazisti, nella notte, hanno invece imbrattato
con svastiche le tombe di quattro partigiani - caduti in un agguato dei tedeschi
e della X Mas - a Mira Taglio, in provincia di Venezia. È la terza volta negli
ultimi mesi. Indignata la reazione del sindaco, Luigi Solimini, che stamattina
porterà dei fiori sulle lapidi e su un cippo che ricorda Adele Zara, una donna
che durante la guerra salvò una famiglia di ebrei triestini nascondendoli in
casa, e che è stata dichiarata da Israele «Giusta tra l e nazioni». E, poteva
mancare Forza Nuova? Ecco i suoi aderenti infilarsi nel clima commemorativo,
strumentalizzarlo e manifestare ieri a Roma contro «l'olocausto del popolo
palestinese»: «Ci vogliono ricordare la Shoah per cercare di giustificare e
nascondere il vero olocausto, quello del popolo palestinese».
Da l'Unità, 26 gennaio 2002, per gentile concessione