«Emilia una bambina a
Auschwitz. Memorie. Le foto e la vera storia della piccola deportata
ricordata da Primo Levi»
di
Giorgina Levi
In «Se questo è un uomo» Primo Levi ricorda in poche righe
Emilia: «figlia dell'ingegnere Aldo Levi di Milano, che era una bambina
curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente». Fu deportata e uccisa a Auschwitz
quando aveva cinque anni, assieme al fratello Italo di dodici e a tutta la sua
famiglia. La cugina ha ritrovato, nelle carte di famiglia, le foto che le hanno
consentito di ricostruire la breve vita di Emilia e quella della sua famiglia. Primo Levi, nel libro "Se questo è
un uomo", ricorda una piccola bambina che nel febbraio 1944, dopo una
detenzione nel campo di concentramento di Fossoli, viaggiò con la propria
famiglia nello stesso vagone bestiame che lo portava a Auschwitz. Le sue parole
sono di commossa tenerezza per quell'innocente creatura e di implacabile accusa
contro gli assassini: "Entravano in campo quelli che il caso faceva
scendere da un lato del convoglio, andavano in gas gli altri. Così Emilia, che aveva tre anni, poiché ai tedeschi
appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei.
Emilia, figlia dell'ingegnere Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa,
ambiziosa, allegra e intelligente ... » (ed. Einaudi, pp. 21-28). E con Emilia, all'arrivo del convoglio, mori anche il
fratello Italo di dodici anni, dal nome patriottico che il padre aveva scelto
perché nato il 4 novembre, anniversario, della vittoria italiana nella prima
guerra mondiale, nella quale egli, studente universitario, aveva combattuto come
volontario. Aldo Levi, che Primo in altre pagine ha testimoniato avesse
fatto parte di un gruppo cospirativo per un'insurrezione all'interno di
Auschwitz, morì dopo il marzo 1945, all'età di 47 anni, durante l'evacuazione
dal lager. Della mamma, Elena Viterbo, di 44 anni, si sa soltanto che scomparve
«in luogo e data ignoti». "Fra le quarantacinque persone dei mio vagone - precisa
Primo Levi - quattro soltanto hanno rivisto le loro case; e fu di gran lunga il
vagone più sfortunato». Milioni di persone conoscono oggi la piccola Emilia
attraverso le parole di Primo, parole ripetute in documentata sulla Shoah, in
pubblicazioni, in spettacoli. La scrittrice nordamericana Susan Zuccotti ha
dedicato a Emilia, citando il breve testo di Primo Levi, la sua grande opera «L'Olocausto
e gli italiani». E proprio la lettura di tale citazione ha indotto Gisella Vita
Finzi, che fu un'amichetta d'infanzia di Emilia e di Italo, a rievocare
anch'essa la spiccata personalità della bambina, nel Bollettino della Comunità
ebraica» di Milano, città dove aveva abitato la famiglia Levi, in via
Donatello 26: « ...Era molto bella e straordinaria, mente precoce e
intelligente. Si imponeva subito all'attenzione, sapeva quello che voleva e come
ottenerlo; non era certo una bombola facile da vezzeggiare per noi più grandi».
Purtroppo non ho potuto conoscere la mia cuginetta Emilia,
che contava soltanto pochi mesi di età quando le leggi razziali fasciste, mi
costrinsero a lasciare l'Italia. Ma poco
tempo fa in famiglia, fra un gruppo di vecchie fotografie, ne sono state
ritrovate alcune di Emilia, del fratello e dei genitori, e mi è parso doveroso,
perché nulla dell'orrore nazifascista sia dimenticato, di far conoscere anche
l'immagine fisica della piccola, un anno prima di essere deportata, con il
vestitino chiaro, i sandali, i fini capelli pettinati con cura, mentre stringe
la mano protettiva dei fratello Italo. Il ricordo di Emilia compare soltanto nella seconda edizione
di "Se questo è un uomo" (Einaudi 1958). C'è da supporre che, letta
la prima edizione (De Silva 1947) dove il babbo, Aldo Levi, è nominato più di
una volta, gli zii - oggi defunti - che avevano condotto ricerche sui nipotini
persino nell'Urss con un barlume di speranza, si fossero rivolti anche allo
scrittore per avere notizie, e così avessero risvegliato in lui l'immagine di
Emilia. Ne aveva però dimenticata l'età esatta, che nel 1944 era non di tre
anni, come egli scrive, ma di cinque. La famiglia di Aldo Levi e quella dei cognati, l'ingegner
Salvatore Levi e Rita Viterbo cori la figlia sedicenne Donatella, pure residenti
a Milano, tutti uccisi a Auschwitz, furono denunciati dai loro parrucchiere alla
polizia dei governo mussoliniano di Salò, dopo avere preteso dai Levi una somma
elevata per procurare loro documenti falsi e fingendo di aiutarli a fuggire in
Svizzera. li delatore deve avere ricevuto la pattuita ricompensa fascista - di
sette-ottomila lire - per ognuna delle sette persone segnalate, e per di più si
impossessò di tutto quanto si trovava nei loro appartamenti abbandonati. Pare
che costui. sia stato giustiziato da un gruppo di partigiani. In altre sue pagine concentrazionale, di «La tregua», Primo
Levi rievoca un altro bambino, più infelice ancora di Emilia. Parole dolorose e
tremende ci rendono indimenticabile il piccolo prigioniero muto, senza nome, che
i compagni adulti chiamavano Hurbinek: "Hurbinek, che aveva tre anni e
forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek che aveva
combattuto come un uomo, fino all'ultimo respiro per conquistarsi l'entrata nel
mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il
senza-norne, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio
di Auschwitz ... » (ed. Einaudi, 1963, p. 24). ltalo, Ernilia, Hurbinek sono oggi ricordati anche in un
salone del Memoriale "Yad Vashem" in Gerusalemme, dove, fra
innumerevoli, simboliche piccole luci, voci maschili e femminili senza sosta
pronunciano i nomi dei milione e mezzo di bambini ebrei trucidati dalla ferocia
nazifascista. A tutti i massacratori, torturatoti, gli intolleranti del diverso
da sé di ieri e di oggi è lanciato, come un urlo, l'appello di un grande
scrittore ebreo, Albert Cohen, che, molto prima di Auschwitz, emigrato dalla
natia Corfù nella Marsiglia post-dreifusiana, all'età di dieci anni era stato
sopraffatto da una disperazione senza risposte a causa di una valanga di insulti
antisemiti lanciati da uno sconosciuto contro di lui, fanciullo ignaro e
innocente. Da vecchio rievoca l'incancellabile ferita di allora nel libro «A
voi fratelli umani», (ed. Marietti, 1990) e chiede agli umani fratelli non di
amare, ma almeno di non odiare: «Dite, antisemiti, che adesso oso chiamare
fratelli umani... miei fratelli per pietà e tenerezza fatta di pietà, dite,
antisemiti, fratelli miei, siete davvero felici di odiare e fieri della vostra
malvagità? ... In verità, ve lo dico, ... non odiare è più importante
dell'illusorio amore del prossimo... sterile amore che in duemila anni non ha
impedito né le guerre è i loro massacri, né i roghi dell'Inquisizione, né i
pogrom, né l'enorme genocidio tedesco, spaventosa consistenza dell'amore del
prossimo e dell'odio..., 0 voi,
fratelli umani, che per così poco tempo vi muovete... limitatevi, finalmente
seri, a non odiare più i vostri fratelli nella morte. Così dice un uomo
dall'alto della sua prossima morte». (pp. 120-123).
Ecco
chi è l'autrice
Giorgina Levi è nata a Torino nel 1910. Docente di lettere
nel licei, fu espulsa nel 1938 per le leggi razziali. Nel 1939 con Il marito
medico, Enzo Arian, emigrò in Bolivia dove rimase fino al 1946, Insegnando nel
più diversi tipi di scuole, dalle pluriclassi di bambini Indios e meticci negli
accampamenti minerari fino alle Università di Sucre e di la Paz. Tornata In Italia, ha avuto vari incarichi nel Pci: è stata
consigliera comunale a Torino (1956-1964) e deputata nella IV e V legislatura
(1963-1972). Sin dal 1942 ha scritto per la stampa comunista, da "Stato
Operaio", (1942-1943) a giornali sudamericani, e poi soprattutto su l'Unità
e "Riforma della scuola". Ha pubblicato libri e saggi soprattutto sul movimento operaio
piemontese, sull'America latina, sulla storia della minoranza ebraica. Per
tredici anni (1975- 1988) ha diretto il bimestrale di cultura ebraica di Torino
Ha Keillah, progressista. È attualmente membro dei Comitato Federale dei Pds di
Torino. Fa parte dei gruppo torinese di storici studiosi delle fonti orali.