Triangolo rosso
Le nostre storie
Jenide Russo, milanese, deportata nei lager di Fossoli a 27 anni, poi a Ravensbrück e Bergen Belsen
Jenide Russo, staffetta partigiana torturata e morta a Bergen Belsen
A Jenide Russo, staffetta partigiana, deportata nei lager di Ravensbrück e Bergen Belsen, dove morì il 26 aprile 1945, all’età di 27 anni per esaurimento e tifo petecchiale, è dedicata una lapide in via Paisiello 7, a Milano, dove abitava con la madre e le due sorelle. Nasce a Milano il 23 giugno 1917. Operaia. Durante il fascismo Jenide non si interessa di politica, pur mantenendo, come la madre e le due sorelle, una posizione di ostilità al regime.
di Roberto Cenati*
A far politica attivamente Jenide inizia dopo che ha conosciuto un giovane, Renato, che fa il partigiano nella Brigata Garibaldi operante a Villadossola. Renato frequenta la casa di Jenide, molto spesso in compagnia di un altro giovane, Egisto Rubini, che diventerà responsabile Gap di tutta Milano. Il contatto con i due giovani favorisce la maturazione politica di Jenide che, nell’ottobre del 1943 diventerà staffetta partigiana. Suo compito è quello di fornire armi e munizioni alla Brigata Garibaldi dove opera il fidanzato. Tutto funziona perfettamente, fino a quando un membro della 3a Gap comincia a parlare e a fare i nomi dei componenti la brigata. Jenide viene catturata il 18 febbraio 1944 in via Aselli, mentre stava portando una borsa contenente nitroglicerina, ai partigiani operanti a Villadossola. Sette giorni dopo, il 25 febbraio 1944, viene catturato in piazza Lima, il comandante Egisto Rubini che si impiccherà nel carcere di S. Vittore, dopo essere stato sottoposto ad atroci torture. Jenide, arrestata dai fascisti, viene portata a Monza. Lì è percossa e torturata. Le viene, fra l’altro, rotta una mascella che poi le sarà riaggiustata in qualche modo. Da Monza Jenide è trasferita a S. Vittore, nel raggio dei politici. A San Vittore riceve maltrattamenti. Secondo le testimonianze delle sue vicine di prigionia, questa circostanza è provata dal fatto di aver visto, un giorno, Jenide con la sottoveste sporca di sangue. Nonostante le botte e le torture ricevute Jenide non parla. I suoi torturatori si stupiscono per la resistenza da lei dimostrata, soprattutto in quanto donna, e insistono perché faccia i nomi dei suoi compagni. Jenide però non cede. In una lettera inviata clandestinamente alla mamma, dal campo di concentramento di Fossoli, datata 11 maggio 1944, scrive a proposito dei giorni trascorsi a Monza e a San Vittore: “Siccome non volevo parlare con le buone, allora hanno cominciato con nerbate e schiaffi. Mi hanno rotto una mascella (ora è di nuovo a posto.) Il mio corpo era pieno di lividi per le bastonate; però non hanno avuto la soddisfazione di vedermi gridare, piangere e tanto meno parlare. Sono stata per cinque giorni a Monza, in isolamento, in una cella, quasi senza mangiare e con un freddo da cani. Venivo disturbata tutti i giorni perché volevano che io parlassi. Ma io ero più dura di loro e non parlavo. Dì pure che ho mantenuto la parola di non parlare: credo che ora saranno tutti contenti di me”.
Il tesoro nascosto: una sua fotografia scattata a Milano
Alla fine di aprile del 1944 Jenide è trasferita nel campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi, dove i prigionieri venivano radunati per essere poi deportati nei vari lager nazisti dislocati in Europa. Il 2 agosto 1944 arriva l’ordine di partenza per Ravensbrück, per Jenide ed altre detenute. Nel clima apocalittico e disumano di Ravensbrück c’è spazio per momenti di umana comprensione e solidarietà, come quello dell’incontro tra Jenide e Maria Arata Massariello descritta nel libro Il Ponte dei corvi. «Ti ricordo così affettuosa, così incoraggiante – scrive Maria Arata – in questo nostro incontro fugace quando, dopo la crisi dell’appello, mi sentivo tanto depressa. Mi dici che hai un tesoro nascosto da farmi vedere, mi conduci in un angolo, al riparo da sguardi indiscreti e mi mostri una tua piccola fotografia a Milano in viale Gran Sasso. È questa via il comune centro della nostra vita e rappresenta tutto il mondo dei nostri affetti. In questa piccola fotografia c’è tutto quello che abbiamo lasciato e che non rivedremo forse più. Grosse lacrime riempiono i nostri occhi. È un attimo. Sentiamo l’urlo della blockova “Aufsteben” (alzarsi). Eneidina rapidamente fugge lasciandomi nelle mani un paio di calze che è riuscita ad “organizzare” magari sacrificando la sua razione di pane. Così scompare questa fugace, gentile visione della mia vita del lager, la cui immagine però conservo gelosamente nel cuore». Jenide per le condizioni igieniche disastrose si ammala di tifo a Ravensbrück. Riesce tuttavia a superare la grave forma di malattia che l’ha colpita. Ma verso la fine del 1944 arriva l’ordine di partenza per Bergen Belsen. Il trasferimento a Bergen Belsen avviene in condizioni disumane su carri bestiame. Le condizioni igieniche e di convivenza a Bergen Belsen erano insostenibili. Scoppia ancora una volta un’epidemia di tifo, che non si riusciva a controllare. Jenide si riammala di tifo e viene ricoverata nell’infermeria del campo. Il crollo fisico è accompagnato da un cedimento di carattere psicologico. Jenide si lascia andare, perde quella fiducia nella vita, quella speranza in un mondo migliore, quello slancio, quella vivacità che l’aveva sostenuta nei lunghi mesi di detenzione. Ed è forse questo crollo psicologico, più ancora di quello fisico, che le dà il colpo di grazia. I familiari apprendono la notizia del decesso di Jenide poche settimane dopo il 25 aprile 1945, da due prigioniere, Sacerdoti Valeria e Montuoro Maria. Le lettere inviate da Jenide dal campo di concentramento di Fossoli sono l’ultima sua testimonianza diretta prima della partenza per la Germania. Accanto alla corrispondenza ufficiale, sottoposta a censura, Jenide era riuscita, grazie a mani amiche, a far pervenire ai familiari altre lettere. Da esse traspare la sua preoccupazione costante di rassicurare i familiari e soprattutto la madre circa il proprio stato di salute e le proprie condizioni di vita, (“io qui tante volte passo delle belle giornate” dirà in una delle sue lettere) anche quando, nelle ultime lettere appare evidente ormai tutta l’angoscia per l’imminente partenza per la Germania. Emerge da queste testimonianze un grande senso di serenità e tranquillità, anche quando la speranza sembra svanire. Quella stessa serenità e tranquillità con cui Jenide affronta l’emergenza quotidiana, i disagi, gli stenti, il freddo, i bombardamenti. Per raggiungere tale difficile equilibrio interiore un grande aiuto le sarà senz’altro derivato dal suo vivace e forte carattere, ma anche dalla consapevolezza di avere compiuto il proprio dovere di patriota e di essersi battuta per un nobile ideale: la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, la rinascita del Paese e la costruzione di una società più giusta. In una delle ultime lettere recapitate al fidanzato scriverà: “Qui i tuoi compagni mi dicono che sono un buon elemento e questo per me significa molto. Tu mi dicevi che non bisogna mai dire niente alle donne; ma dovevi sapere a che donna parlavi”.
*presidente Anpi di Porta Venezia (Milano)
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Le lettere scritte da Fossoli
11 maggio 1944
Mammina amatissima, tu non potrai mai sapere e immaginare la gioia e la felicità che ho provato ieri nel vederti. Oh che felicità il Signore mi ha concesso! Quando mi hanno chiamata per dirmi che eri tu, non ci credevo, non potevo credere che tu respirassi l’aria che respiravo io! Sono corsa come una pazza e quando ti ho visto il cuore mi si spezzava dalla gioia. Credevo che nelle lettere che mi scrivevate non mi dicevate la verità e che tu eri ammalata. Invece ti ho vista e stai bene. Figurati che gridavo a tutti la mia contentezza. Insomma, nessuno può immaginare la mia felicità. Mi dispiace tanto che non mi hanno chiamato ieri mattina, ma ci sono diversi Russo e probabilmente c’è stata qualche difficoltà. Mi è bastato di vederti per cinque minuti. So che tu stai bene ed altro non m’importa, anche se dovessi rimanere qui per un tempo indeterminato. Sono contenta che anche le mie sorelle stanno bene e che Sergio è molto bravo a scuola; digli, a nome mio, di continuare sempre così e di scrivermi, qualche volta. Avrei tanto desiderio di vedere anche le mie sorelle; se potete, non negatemi questo mio desiderio. Ti ringrazio infinitamente per il pacco che mi hai mandato e ti prego, cara mamma, di non spendere tanti soldi per me; mi rimorderebbe la coscienza se sapessi che voi siete senza per me. Maria, ti ringrazio del golf; te ne sei privata tu. In quanto al vestito, mi ricorda casa nostra e ciò mi fa tanto piacere. Insomma, vi ringrazio di tutto quello che fate per me e, soprattutto, mamma, per essere venuta a trovarmi: questa è la cosa più bella accadutami negli ultimi tre mesi. Sento che mia cognata viene sempre a trovarvi e questo mi fa tanto piacere. Quando viene, salutala tanto tanto e baciala, da parte mia. Salutami tutti quelli che domandano di me, bacia i miei cugini. E ora ti racconto come sono stata arrestata. Sono partita alle 8,30 di casa, ti ricordi ? Sono andata a prendere delle cose e poi sono andata a portarle a destinazione. Intanto che davo la roba, mi sono sentita dietro otto persone con rivoltelle spianate; mi hanno perquisita. Poi mi hanno portata in macchina fino a Monza, e li mi hanno interrogata. Siccome non volevo parlare con le buone, allora hanno cominciato con nerbate e schiaffi (non spaventarti). Mi hanno rotto una mascella (ora è di nuovo a posto). Il mio corpo era pieno di lividi per le bastonate; però non hanno avuto la soddisfazione di vedermi gridare, piangere e tanto meno parlare. Quello che più mi preoccupava era il fatto che volevano venire a casa a perquisire. Sono stata per cinque giorni a Monza, in isolamento in una cella, quasi senza mangiare e con un freddo da cani. Venivo disturbata tutti i giorni, perché volevano che io parlassi. Ma io ero più dura di loro e non parlavo (nel pacco avevo dinamite). Poi mi hanno portata a San Vittore. Non spaventarti per quello che sto per dirti: ero destinata alla fucilazione, ma invece tutto è andato per il meglio e il più è passato. Ora sto benissimo e sono in buona compagnia. Scusatemi se forse vi rattristo con questo mio racconto, ma volevo dirvi quello che mi era successo. A San Vittore stavo bene, non mi mancava niente e qui sto ancora meglio. Di’ pure che ho mantenuto la parola di non parlare; credo che saranno tutti contenti di me. Ora che la mamma mi ha visto credo che sarà soddisfatta, vero? Di’ ad Aldina di scrivermi sempre e di darmi qualche notizia in merito a Renato. Ti prego di salutarmi tutti e, quando hai letto questa mia, ti raccomando tanti bacioni grossi grossi. Jenide
Fossoli, 7 giugno 1944
Carissima Suor Radegonda, mi permetto di mandarle i miei più cari saluti. Mi meraviglio perché non ha risposto ad una cartolina che le scrissi la prima settimana che arrivai qui. Io sto bene, come pure la mia compagna e così spero di lei e delle sue sorelle. Spero che nelle sue preghiere si ricordi di me, anche se ne sono sicura e la ringrazio. Vorrei tanto sapere se la Ida e la Clara sono state scarcerate. Le sarò grata se vorrà rispondere a questa mia. Le rendo noto che ho potuto vedere mia madre e mia sorella. E di questo posso ringraziare il nostro Signore Iddio. Lei non può immaginare come sono contenta ora che ho visto i miei e che ricevo posta. Vuole essere così gentile da salutarmi tutte le compagne che sono rimaste ? Gianna, Carlotta, Luisella. Abbiamo visto arrivare il mese scorso la Vittorina e, dopo due giorni, è partita con un convoglio di ebrei; chissà dove saranno ora! Salutatemi e ricordatemi alla Madre Superiora e a tutte le sue sorelle. Ha poi trovato una mia sostituta nel lavare? Forse più brava di me, vero? Io mi ricordo sempre di lei e sempre la ricorderò. In attesa di una sua risposta permettete che le mandi un grosso bacio. Tanti auguri e pregate per me. Jenide Russo Salutatemi tutti
21 giugno 1944
Carissimo Renato, sono passati parecchi giorni, ma ancora non ho ricevuto tue nuove, come mai? Non credo che tu mi abbia dimenticato. E siccome non so quando potrò vederti, ti prego di scrivermi una lettera, perché così partendo per ignota destinazione avrò un tuo ricordo. Renato, ieri sono partiti più di 1000 uomini per la Germania e noi siamo qui in attesa. È per noi un’agonia non saper niente. Ogni giorno ci sono adunate. Devi sapere che abbiamo i nervi tesi e che si sta male solo al pensiero di lasciare la nostra cara Italia. Perciò ti prego: se non mi hai ancora scritto, scrivimi subito! Ho saputo che domenica sei andato a Musocco con le mie sorelle a trovare Gabriele. Sulla pietra che nome c’è? Non credo che sia con il suo vero nome. Hai mandato Maria a Bologna. Sarà un compito nostro avvisare la sua famiglia. Quando verrò a casa andrò io se non ci sarà ancora andato nessuno. Certo sua madre non lo verrà mai a sapere perché ne morrebbe. Invece sua sorella mi ha detto di riferire qualsiasi cosa. Renato, quello che mi preoccupa è di saperti sempre in pericolo. Non potrai tanto uscire di casa. Cerca di stare in guardia. Io ti penso sempre e sempre ti ricordo, con la speranza di essere ricordata anch’io da te. Quanto mi piacerebbe tornare a casa e stare un po’a chiacchierare con te ed Aldina. Spesse volte mi viene la nostalgia di casa tua. Ricordo i giorni lieti passati con te e anche però le belle sgridate che mi facevi. Qui i tuoi compagni mi dicono che sono un buon elemento e questo per me significa molto. Tu mi dicevi che non bisogna mai dire niente alle donne; ma dovevi sapere a che donna parlavi. Tu certo non lo sapevi. Ad ogni modo quando verrò a casa ne riparleremo. Ti mando tanti, tanti grossi bacioni, in attesa di ricevere tue notizie. Salutami i tuoi fratelli, un bacio ad Adelina, uno a Luciano e uno grosso a te. Tua Jenide
Fossoli, 1 agosto ‘44
Carissima mammina, mancano poche ore alla partenza. Io parto per la Germania come già ti ho riferito nelle lettere che riceverai. E ora siamo agli sgoccioli. Non preoccuparti: vedrai che non mi succederà niente di grave. Non pensarci; state allegri e speriamo che tutto finisca presto, per poter ritornare presto tra di voi. Io vi ricorderò sempre, ovunque andrò, con la tua benedizione, cara mamma. Ricordati sempre e prega sempre per me. Appena mi sarà possibile ti scriverò e ti farò sapere mie notizie. Ti raccomando di non piangere e di non disperarti. Senti, mamma, non sgridarmi e non farti una cattiva opinione di me. Guarda che ho fatto un errorino. Ero a casa e non avevo soldi e siccome ne avevo bisogno ho impegnato la mia borsina rosa e un lenzuolo. Le polizze sono nel secondo cassetto nel pacco di lettere di Franco. Non volevo dirtelo, ma siccome parto, mi spiacerebbe perdere questi oggetti. Se non dovessi ritornare ne potranno godere le mie sorelle. Vi abbraccio forte forte e vi bacio tanto tanto. Scusatemi tanto e baciatemi Renato e ditegli che gli vorrò sempre tanto bene.
Triangolo Rosso, giugno/settembre 2007