Triangolo rosso

Le nostre storie

L’Aned di Roma e le celebrazioni del 25 aprile - Da questo libro Nanni Loy ha tratto il film “Un giorno da leoni”

Pino Levi Cavaglione e la “Guerriglia nei Castelli Romani”

 

di Aldo Pavia

 

Nato a Genova nel 1911, Pino Levi Cavaglione intraprese la sua militanza politica antifascista nella sua città, aderendo al Movimento “Giustizia e Libertà”, riconoscendosi nelle idee dei fratelli Nello e Carlo Rosselli. Di quest’ultimo sarà ospite, a Parigi, nel 1937. Nel 1938, dopo aver tentato di arruolarsi nell’esercito repubblicano spagnolo, in primavera venne arrestato e da quel momento conobbe il confino di polizia, dapprima a San Severino Rota (dal 1945 Mercato S. Severino (Sa), poi a Fuscaldo e a Nocera Inferiore. Prosciolto con la condizionale nel 1940, al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, di nuovo arrestato e confinato, via via, a Orbisaglia, Forzacosta, Apecchio, Sasso Corsaro, Gioia del Colle, Isola del Gran Sasso, San Leo, Pennabilli, Macerata Feltria. Liberato solo il 27 luglio 1943, dopo la caduta del fascismo. A fine luglio rientrò a Genova, e finalmente, dopo sei anni, gli fu possibile rivedere i suoi genitori. Nella sua città lo trovò l’infausto 8 settembre. Già dalle prime ore di quella giornata, cercò di mettersi in contatto con i compagni del Partito comunista, per vedere cosa fare in una città percorsa dai camion tedeschi, dall’inquietudine dei fascisti e dalle voci di un imminente sbarco degli inglesi. Vide costernato i militari italiani ed i marinai del porto lasciarsi disarmare dai tedeschi, senza opporre un minimo di resistenza. Tuttavia qualche atto di resistenza, qualche scontro a fuoco vi era stato. A Pino fu possibile vedere due cadaveri italiani sul molo delle Grazie, un marinaio agonizzante vicino ad un capannone, sotto lo sguardo indifferente di un tedesco, preoccupato solo di allontanare qualsiasi possibile soccorritore. Nella sua famiglia, diversi gli atteggiamenti: mentre il padre era ottimista, sua madre era in ansia, temendo che i tedeschi potessero procedere all’arresto degli ebrei ed ancor più che il figlio, indiziato per la sua attività politica, potesse avere guai. Il 15 settembre, verso sera, il capo dell’ufficio politico della questura, che sei anni prima lo aveva arrestato, fece in modo di avvisare i Levi che il mattino successivo, su preciso ordine delle autorità tedesche, Pino sarebbe stato di nuovo arrestato.

Un rifugio nel convento per sfuggire alla cattura

Non gli restò quindi che cercare un rifugio, che trovò in un convento di frati. Trovò tranquillità ed affetto, ma non erano il suo carattere, le sue idee ed il suo impegno tali da permettergli una simile, seppur piacevole, inattività. Decise quindi di partire, vergognandosi al pensiero che molti giovani si stavano organizzando in gruppi partigiani, per opporsi con le armi ai nazisti. Si unì così ad un amico che cercava di raggiungere Roma dove conosceva i capi della Resistenza. Dopo una breve sosta a Firenze, e dopo aver assistito ad un attentato ad un milite fascista, dei battaglioni “M” alla stazione ferroviaria di Orte, raggiunse Roma. Entrato finalmente in contatto con esponenti del Partito comunista, dopo aver subito un lungo ed insistente interrogatorio, venne inviato ai Castelli Romani, entrando, l’ultimo giorno di settembre, a far parte di una banda di partigiani nella zona di Genzano. Più precisamente a Tor Palazzo. È dal suo diario che ci è possibile conoscere non solo il suo operato nei mesi successivi ma anche la genesi della resistenza nell’area dei Castelli. La sua squadra era inizialmente composta di sette partigiani, al comando di Orlando Gabbarino.

L’addestramento con i partigiani nella zona dei Castelli

Tre i romani e tra questi gli ebrei Alberto Terracina e Marco Moscati (“maresciallo Moscato”) al quale, da quel momento, rimarrà legato da profonda amicizia. Pino dovrà procurarsi le armi e nell’unico modo possibile in quel momento: prendendole ai tedeschi. Gli viene affidato, essendo stato ufficiale del regio esercito, il compito di istruttore militare, per insegnare ai suoi compagni l’uso delle armi che in un primo momento venivano recuperate tra quelle abbandonate dai militari italiani sbandati. Le giornate trascorrono tra l’impegno del trovare armi, l’addestramento dei compagni, la ricerca di cibo, lo sfuggire ai rastrellamenti e il mettere in atto tutta una serie di azioni di disturbo e di sabotaggio delle installazioni militari nazifasciste. Il 18 ottobre 1943 lo raggiunge la notizia del rastrellamento degli ebrei di Roma. Mentre Marco Moscati si reca, con grandi rischi, a Roma per sapere qualcosa dei suoi e per capire meglio ciò che era accaduto, Pino è angosciato al pensiero che identica sorte possa essere toccata ai suoi genitori, alla sua famiglia. Due giorni dopo i suoi timori si riveleranno infondati. Riceve infatti una lettera del padre e della madre. Ed una del fratello che lo informa di essere riuscito ad avere documenti falsi e di sentirsi così più tranquillo. Al ritorno da Roma, Marco Moscati porta notizie tremende e gli racconta con quale ferocia i nazisti abbiano caricato sui camion gli ebrei romani. Indifferenti, spesso infuriati davanti a bambini, donne incinte e vecchi paralizzati. Il 26 ottobre Pino si trova ad affrontare la prova più drammatica per un uomo: uccidere un altro essere umano.

“Non avevo mai sparato in vita mia contro nessun essere vivente, perché la caccia non mi piace e non immaginavo proprio che fosse così facile ammazzare un uomo. Ma i tedeschi sono uomini? […] Ma sentivo gli sguardi dei miei due compagni pesare così fortemente su di me, che finalmente il mio dito ha ubbidito non già alla mia volontà, che in quel momento era assente, ma al proposito, formulato nel pomeriggio e rafforzatosi in quelle due ore di attesa al freddo della notte, di far fuori il primo tedesco che capitasse a tiro. Il rombo del fucile mi ha rintronato le orecchie e mi ha inaridito la gola; il tremito e il freddo, che fino a quel momento mi avevano soggiogato, sono scomparsi e un calore intenso e piacevole si è diffuso per le vene. Ho sparato da meno di due metri, verso la macchia chiara del viso […]. Siamo rimasti per qualche secondo immobili e silenziosi. Immobile e silenzioso era pure il buio della campagna dopo il fragore della motocicletta e lo sparo. Poi un cane ha cominciato a latrare. Lontano”.

Anche in questo frangente è al suo fianco Marco Moscati, che lo aiuta a recuperare gli scarponi ed il revolver del tedesco ucciso. Scarponi assolutamente necessari per potersi muovere con minore difficoltà nel fango dei boschi, intrisi di pioggia. Il giorno dopo Pino si trova a pensare quale sarà lo stupore di suo padre quando gli racconterà questa avventura. Il 30 ottobre, sulla via Appia, tra Genzano e Velletri, la sua con altre squadre provvedono al lancio dei chiodi a quattro punte. Quei famosi chiodi, forgiati furtivamente, che cadendo al suolo lasciavano sempre una punta in grado di danneggiare le ruote dei camion e con i quali la resistenza romana causò fastidi e danni insospettabili ai nazifascisti, ostacolando soprattutto i trasporti di uomini e materiali bellici. Saranno soprattutto i piloti della Royal Air Force britannica a sollecitare questo tipo di azioni di sabotaggio, che rendevano loro più facile colpire le colonne naziste, una volta immobilizzate. Il 2 novembre gli viene affidato il comando militare di tutte le squadre, assieme a Fabio Braccini e Ferruccio Trombetti. Affronterà subito la riorganizzazione delle squadre, incontrando non poche difficoltà. Un problema non da poco è rappresentato dalla indisciplina di alcuni partigiani, di alcuni capisquadra che non si curano degli ordini ricevuti. Soprattutto scontrandosi con un malcompreso concetto di autonomia che porta ad inopportune azioni individuali, non concordate e a rischio di esporre le squadre a inevitabili azioni di rappresaglia dei nazifascisti. Intanto si viene organizzando quella che avrebbe dovuto essere la più importante azione partigiana, in quelle giornate autunnali: l’attacco dinamitardo, sulle linee ferroviarie Roma - Formia e Roma - Velletri, a due convogli militari tedeschi.

Due squadre partigiane, con l’aiuto dei minatori...

L’attacco avrà luogo la notte dell’11 novembre. Due squadre, appositamente create, con l’aiuto di minatori di Marino, sistemano l’esplosivo nei binari, ma il successo non arriderà, a causa dell’imperfetto funzionamento dell’innesco, a Pino ed ai suoi compagni, operanti lungo la linea Roma - Velletri. Il 23 novembre Pino si reca a Roma dove apprende dal fratello che i genitori sono stati catturati dai tedeschi. La notizia era stata portata a Roma da uno zio, sfuggito ai nazisti. Pino e suo fratello non li rivedranno mai più. Aronne Nino Levi e Emma Cavaglione, arrestati a Genova il 16 novembre, imprigionati nel carcere della loro città e poi in quello di Milano, deportati il 6 dicembre, verranno assassinati al loro arrivo ad Auschwitz-Birkenau, l’11 dicembre 1943. Il 2 dicembre 1944, si uniscono ai partigiani dei Castelli venti prigionieri russi provenienti da una banda operante a Monterotondo, sfuggiti ad un rastrellamento tedesco. Pino farà così la conoscenza di Wassily, un siberiano che porta sulla schiena le cicatrici molto evidenti delle scudisciate ricevute dai tedeschi.

“Enorme, ha la faccia angolosa rasata, capelli bruni e naso un po’ largo. Non sorride mai; quando parla dei tedeschi il suo viso si contrae in una smorfia di odio. Se fossi un tedesco non vorrei trovarmi a tu per tu con lui”.

I russi entreranno subito in azione e saranno tra i più validi combattenti e collaboratori di Pino, che a stento, più volte, riuscirà a frenare la loro estrema determinazione. Intanto, tra continue azioni di sabotaggio, con le squadre di Marino e di Frascati, si va organizzando una operazione ad alto rischio ma di fondamentale importanza: colpire un trasporto militare. Si tratta di colpire il Ponte Sette Luci, nel momento in cui transiterà un trasporto di soldati. Una seconda squadra colpirà il nemico lungo la linea ferroviaria Roma - Cassino. L’azione prende il via nella notte tra il 19 ed il 20 dicembre. I partigiani si sentono piccoli davanti ai piloni del Ponte Sette Luci, in preda allo sconforto, pervasi da un senso di inutilità. Tuttavia, poco dopo la mezzanotte, i binari sul ponte sono minati. Resta solo da aspettare. Quando il treno, che viene dal sud, arriva sul ponte, tutti si trovano preda dell’ansia, nel timore che anche questa volta l’azione potesse fallire.

... e con un boato esplode la locomotiva sul ponte

Poi un boato terribile. La locomotiva si impenna e scompare e il convoglio è invaso dalle fiamme. Esplosioni continue e altre fiamme mostrano i vagoni contorti e rovesciati. Da dietro le colline arriva un altro rombo: anche all’altra squadra il colpo è riuscito, distruggendo un treno che portava munizioni e carburante al fronte di Cassino. Scriverà Pino nel suo diario:

“No, dannati tedeschi, questa volta il colpo non vi è venuto dal cielo, non vi è venuto dagli aviatori inglesi. Vi è venuto da noi! Da noi che in questo momento ci sentiamo orgogliosi di essere italiani e partigiani e non cambieremmo i nostri laceri abiti bagnati e fangosi per nessuna uniforme”. Esplodendo nell’invettiva: “Vi odiamo. Vi odiamo a morte”.

Sul Ponte Sette Luci i tedeschi perderanno, tra morti e feriti, circa 400 uomini. Di giorno in giorno le azioni partigiane si intensificano, con l’intento di disturbare, se non bloccare, le colonne di rinforzi che i tedeschi fanno affluire alla volta di Cassino. Purtroppo il 27 gennaio viene colpita e duramente dal fuoco dei grossi calibri dell’artiglieria inglese. Case distrutte e morti sotto le macerie. E nel pomeriggio bombardamento degli angloamericani. E i tedeschi di una colonna motorizzata, in transito, che ridono alla vista di rovine e morte. Verso la metà di febbraio, spostatosi a Palestrina, Pino ha modo di conoscere Aldo Finzi, l’ebreo che era stato sottosegretario agli Interni nei giorni del delitto Matteotti. Pino era già a conoscenza che Finzi faceva pervenire ai partigiani russi tabacco e generi alimentari. Gli era stato però detto di evitare di incontrarlo per il suo passato. Pino lo incontrerà nella sua bella villa, ottenendo la promessa che il Finzi avrebbe intensificato i rifornimenti e avrebbe fornito notizie sui movimenti delle truppe tedesche. Sollecitato, forse con poca sensibilità, a parlare dell’assassinio di Matteotti, Finzi, scotendo il capo, gli dirà: “Dopo la liberazione potrò pubblicare come stanno veramente le cose. Io non ho nessuna colpa”. Al consiglio di lasciare Palestrina, facendo spallucce, rispose che sarebbe stato peggio. Su di lui non c’erano sospetti e così poteva così dare un qualche aiuto ai resistenti. Ma della sua clandestina attività, invece, si accorsero e Finzi finì i suoi giorni alle Fosse Ardeatine, il 24 marzo 1944. Il 20 febbraio Pino sfugge fortunosamente alla cattura e il 27 febbraio si trasferisce definitivamente a Palestrina, dove ritrova, con grande sorpresa, Marco Moscato. Il 4 marzo viene arrestato da tre tedeschi mentre si trova nella casa di un contadino, ma riesce a fuggire, nascondendosi per una intera notte in un canneto. Deciso a raggiungere Frascati, incappa di nuovo nei tedeschi. Portato in una casetta, nei pressi di San Cesareo, decide che morto per morto tanto valeva tentare ancora di liberarsi. Gettatosi da una finestra, in preda alla paura, si butta per la campagna, senza nemmeno guardarsi alle spalle, nemmeno per una volta. Lo soccorrerà un carrettiere che, dopo avergli offerto una sigaretta e del pane con del salame, lo porterà fino alle porte di Roma, prima del coprifuoco. Potrà riposare a casa dell’amico Loris, rinfrancato anche da un bicchierino di cognac. Nel suo diario, tutto ciò accade alla data del 4 marzo 1944. Troverà rifugio nel convento di S. Onofrio, dove lo raggiungerà la notizia dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Con profondo dolore apprenderà che tra le vittime c’è il fraterno amico Marco Moscati. Sfuggirà, per vero miracolo, alla razzia del Quadraro. “Poi una notte uscimmo in festa per salutare il primo carro armato americano che ci comparve davanti…” Alla fine della guerra, tornò nella sua città natale, iniziando la professione di avvocato. Nel 1961 il regista Nanni Loy, ispirandosi anche e in particolare ai ricordi partigiani di Pino Levi Cavaglione, realizzerà il film Un giorno da leoni. Levi Cavaglione è deceduto nel 1971. Poco prima di morire, in occasione della pubblicazione del suo diario da parte dell’editore La Nuova Italia, scrisse una breve introduzione, riandando con il ricordo a quegli anni crudeli, facendo conoscere i motivi, le tensioni che lo portarono alla lotta armata.

“Se gli italiani non avessero provato un brivido di sdegno alle notizie delle uccisioni di massa e della deportazione degli ebrei, e di slavi e di altre popolazioni soggiogate; se negli ebrei, negli antifascisti, nei renitenti alla leva fascista non fosse insorto il terrore di finire nei campi di concentramento, di venir torturati o bestialmente uccisi, non vi sarebbe stata quella esplosione spontanea e improvvisa di energie umane e di elementi oscuri e selvaggi che, unitamente all’istinto di conservazione e di difesa, spinse molti ad andare alla macchia per combattere”. […] Io ho lottato perché sentivo di non aver più riparo nel passato, né garanzia, né impegni: perché volevo vendicare mia madre e mio padre e le innumerevoli vittime dei tedeschi e dei fascisti”.

Triangolo Rosso, giugno/settembre 2007

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