Triangolo rosso
I GRANDI DELLA DEPORTAZIONE
Primo Levi
Da partigiano ebreo ad Auschwitz
Primo Levi è nato a Torino il 31 luglio del 1919. Nel 1930 entra nel ginnasio-liceo “D’Azeglio”. Nel 1937 si iscrive all’Università di Torino, facoltà di chimica. Nel 1938 vengono promulgate le leggi razziali, che vietano agli ebrei la frequentazione in tutte le scuole e le università del regno. Levi, però, ammesso al secondo anno di università, può continuare gli studi. Si laurea con pieni voti e lode nel mese di luglio del 1941. Dopo l’8 settembre del 1943 inizia la sua attività nelle file della Resistenza. Catturato dai fascisti il 13 dicembre del ‘43, assieme a un gruppo di partigiani, in seguito a una delazione, viene trasferito nel campo di Fossoli, che lascia il 22 febbraio del ‘44 per essere trasferito nel campo di sterminio di Auschwitz. Viaggia in un convoglio di 12 vagoni piombati, dove vengono assiepati 650 ebrei: uomini, donne, vecchi, bambini. L’arrivo ad Auschwitz è il 26 febbraio, alle ore 21. Ad Auschwitz Primo Levi resta 11 mesi, fino al 27 gennaio, giorno della liberazione ad opera dell’Armata Rossa. Torna in Italia, nella propria casa di Torino, il 19 ottobre del ’45, dopo 35 giorni di viaggio, partenza da Sluzk, in Bielorussia. La prima edizione di Se questo è un uomo, rifiutato da Einaudi, esce nel 1947, pubblicato dalla casa editrice di Franco Antonicelli, con prefazione di Alessandro Galante Garrone. Solo nel 1958 il libro verrà pubblicato da Einaudi, con una tiratura di 2000 copie. Tra il ’63 e il ’67, in seguito a un crescente successo di pubblico e di critica, il libro uscirà prima nella collana “I Coralli” e successivamente nei “Nuovi Coralli”, realizzando un totale di 330.000 copie vendute fino al 1994. A queste sono da aggiungersi le 427.000 copie dell’edizione scolastica. Nel 1963 venne pubblicata da Einaudi La tregua, che vinse il Premio Campiello, mentre nel ‘79 Levi vinse il Premio Strega con Se questo è un uomo. Molti gli altri libri di Levi pubblicati in Italia e all’estero e molti i temi trattati, legati alla deportazione. Sconvolgenti quelli che riguardano la “zona grigia”. Nessuno può chiamarsi fuori di Auschwitz. Già nel 1955, scrive Levi in un articolo intitolato “Deportati”: «Siamo uomini, apparteniamo alla stessa famiglia umana a cui appartennero i nostri carnefici. Davanti all’enormità della loro colpa, ci sentiamo anche noi cittadini di Sodoma e Gomorra; non riusciamo a sentirci estranei all’accusa che un giudice extraterreno, sulla scorta della nostra stessa testimonianza, eleverebbe contro l’umanità intera. Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz; siamo vissuti in quel secolo in cui la scienza è stata curvata, ed ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro di essere immune dall’infezione?». Altro tema che non cessa di turbare: la vergogna di essere sopravvissuti. Così Francine, una pediatra parigina, amica di Primo Levi, scampata ad Auschwitz, confessa: «È difficile spiegarla. È l’impressione che gli altri siano morti al tuo posto; di essere vivi gratis, per un privilegio che non hai meritato, per un sopruso che hai fatto ai morti. Essere vivi non è una colpa, ma noi la sentiamo come colpa». Primo Levi fu trovato morto ai piedi della tromba delle scale della propria abitazione l’11 aprile del 1987. Scrive Ernesto Ferrero nel libro Primo Levi. La vita, le opere, pubblicato da Einaudi: «La sua fine non ha avuto testimoni diretti, e non può nemmeno essere classificata come suicidio. La “nebulosa di spiegazioni” (così lo stesso Levi a proposito del suicidio di Jean Amèry, avvenuto dieci anni prima) è bene che rimanga tale».
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Bruno Vasari
Al di qua del bene e del male. La visione del mondo di Primo Levi
A vent’anni dalla scomparsa di Primo Levi è naturale che se ne parli con interesse, con ammirazione per la versatilità, per il valore della testimonianza, per la profondità del suo pensiero. A suo tempo l’Aned, l’Associazione degli ex deportati, gli è stata particolarmente vicina come doveroso per un grande compagno. Ma ha voluto fare anche qualcosa di più e ha indetto un convegno “Al di qua del bene e del male. La visione del mondo di Primo Levi” presieduto dal professor Marziano Guglielminetti. Per spiegare “qualcosa di più” penso di riportare il mio saggio incluso nel volume da me immaginato e voluto, per approfondire il pensiero del grande compagno.
Ci sia consentito di partecipare alla “lettura filosofica” dell’opera di Primo Levi. Abbiamo sognato questo convegno annunciato nell’introduzione del volumetto Primo Levi per l’Aned-l’Aned per Primo Levi e realizzato mercé la convergenza e l’impegno di tante forze intellettuali e morali ed il patrocinio del Consiglio regionale del Piemonte rappresentato dal presidente Sergio Deorsola e dal vice presidente Andrea Foco. Un particolare ringraziamento al professor Marziano Guglielminetti e al dottor Enrico Mattioda che si sono intensamente ed efficacemente prodigati per la buona riuscita dell’iniziativa nonché ai relatori. I testi di Primo Levi sui quali ci soffermeremo sono principalmente: - Se questo è un uomo; - I sommersi e i salvati ricorrendo talvolta a scritti minori. La novità, la vastità della materia trattata, senza precedenti, le sofferenze subite in un clima di violenza, di disprezzo e di odio, lo spettacolo continuo di disumani trattamenti e di atrocità, rendono più che giustificate certe oscillazioni nel pensiero di Primo Levi, prima di poter giungere a conclusioni lineari come ci riserviamo di illustrare e come era da aspettarsi data la sua formazione scientifica. I temi che indicheremo interessano sia i deportati sopravvissuti al lager (quindi anche il numero 114119 di Mauthausen) sia coloro che si occupano della testimonianza (nel nostro caso i due requisiti coesistono). I temi sono seguenti:
La memoria dell’offesa
L’attenzione di Primo è rivolta con particolare insistenza alle “derive” della memoria, alla necessità di analisi rigorosa delle testimonianze, mentre nei fatti non le respinge, per conoscere, e far conoscere, il lager e soltanto ne I sommersi e i salvati ammette la funzione insostituibile della memoria.
Il complesso del sopravvissuto
Il complesso sul quale ci soffermiamo (ci sono anche altri complessi, ad esempio quello “di non aver fatto nulla o non abbastanza contro il sistema in cui eravamo stati assorbiti”) è l’impressione di imbarazzo anche traumatico che affligge l’ex deportato sensibile in presenza di familiari di un compagno che non ha fatto ritorno. Primo prende atto di questo complesso ma tende a liberare chi ne è afflitto senza alcun fondamento.
Le cause della sopravvivenza
Infinite sono le combinazioni di eventi che possono favorire o impedire la sopravvivenza - sempre parlando dei deportati che non hanno prevaricato procurandosi ingiusti privilegi dalla autorità del campo - e la conclusione alla quale perviene Primo è che sono determinanti il caso o la fortuna. Riprendiamo ora con maggiori estensioni i temi sommariamente su indicati.
La memoria dell’offesa
Primo, nel suo intervento al Convegno internazionale del 1983 “Il dovere di testimoniare” indetto dall’Aned con il patrocinio del Consiglio regionale del Piemonte, si esprime in termini molto severi sulle “derive” della memoria e mette in guardia sulla necessità di applicare dei filtri alle testimonianze fondate sulla memoria. La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. È questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi nella pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti strani. Lo sanno bene i magistrati: non avviene quasi mai che due testimoni oculari dello stesso fatto lo descrivano allo stesso modo e con le stesse parole, anche se il fatto è recente, e se nessuno dei due ha un interesse personale a deformarlo. Primo distingue le memorie delle vittime da quelle degli oppressori interessate, deformate, inattendibili. Pure Primo aveva approvato le interviste agli ex deportati organizzate dall’Aned per raccogliere le loro storie di vita e tenne una lezione durante il corso organizzato dall’Università di Torino per addestrare i giovani intervistatori. Ancora Primo in occasione della successiva pubblicazione del volume La vita offesa a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla, Franco Angeli/Storia 1986, antologia di brani delle storie di vita, aveva scritto la prefazione espressione della sua convinta approvazione. Per il reduce, raccontare è impresa importante e complessa. È percepita ad un tempo con obbligo morale e civile come un bisogno primario, liberatorio, e come una promozione sociale: chi ha vissuto il lager si sente depositario di un’esperienza fondamentale, inserito nella storia del mondo, testimone per diritto e per dovere, frustrato se la sua testimonianza non è sollecitata e recepita, remunerato se lo è. Perciò, per molti di noi l’intervista che ha preluso a questa antologia è stata un’occasione unica e memorabile, l’evento che aveva atteso fin dal giorno della liberazione, e che ha dato un senso alla sua liberazione stessa. Infine Primo in un articolo del 1983 sull’organo del Consiglio Regionale Notizie della Regione Piemonte, numero speciale 8 settembre 1943-25 aprile 1945, aveva confermato la sua adesione alla raccolta. Perciò è apparsa doverosa e pia l’iniziativa, presa dall’Associazione nazionale ex-deportati politici, e appoggiata dal Consiglio regionale, con la collaborazione di Istituti storici della Resistenza e dell’Università, di invitare tutti i superstiti (in Piemonte sono 267) a sottoporsi a una intervista di carattere storico e sociologico, in modo che ciascuno di loro avesse agio di trasmettere, a futura memoria, la sua “microstoria”. Di tali interviste, al momento in cui scriviamo, 192 sono già state raccolte. A lavoro ultimato, i dati in esse contenuti saranno minutamente elaborati da studiosi: ne risulterà un contributo non trascurabile alla storia della deportazione, fenomeno parallelo alla Resistenza e a essa indissolubilmente commisto. Primo si riconcilia definitivamente con la memoria ne I sommersi e i salvati con le parole che riproduciamo per esteso: Un’apologia è d’obbligo. Questo stesso libro è intriso di memoria: per di più, di una memoria lontana. Attinge dunque ad una fonte sospetta, e deve essere difeso.
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Alberto Cavaglion
Una mostra in ricordo di un amico d’infanzia
di Alessandra Chiappano
Lo storico Alberto Cavaglion conosceva Primo Levi fin da quando era adolescente. Ora ha organizzato una mostra in suo onore. Qual è il tuo ricordo di Primo Levi?
Erano gli anni dell’adolescenza, Primo Levi era amico di mio padre, sono nati lo stesso anno. Noi vivevamo allora a Cuneo e Primo veniva a presentare i suoi libri e spesso la sera si fermava a cena da noi. Io allora avevo letto pochissimo di lui, conoscevo Se questo è un uomo, ma lo avevo letto con occhi molto distaccati. In realtà la passione, la conoscenza e la fascinazione verso Levi mi è venuta leggendo il Sistema periodico che continuo a ritenere una delle sue opere più ricche di fascino, la chiave di volta per comprendere Levi. Di quegli incontri a pranzo ricordo la sua timidezza: era un uomo capace di comunicare con pochissime parole. Sapeva però, con brevissime frasi, descrivere un personaggio, raccontare un episodio; si capiva la profondità della persona forse più dai silenzi che dalle cose che raccontava.
Ti sembrava malinconico?
Sì, c’era in lui una malinconia che però poteva immediatamente esplodere in un sorriso, in una battuta ironica, nel ricordo di un episodio anche comico. Aveva vistosissimo il senso della comicità e dell'ironia.
E in seguito come si sono evoluti i vostri rapporti?
In seguito poi i miei interessi mi hanno portato veramente molto lontano. Mi sono riavvicinato a Levi quando la mia fidanzata di allora, oggi mia moglie, ha fatto la tesi su di lui. Ricordo di aver seguito le fasi della lunga intervista che lei
gli fece e che quando fu discussa questa tesi, inaspettatamente, all’ultimo momento, in fondo alla sala, vedemmo entrare Primo Levi: ascoltò con interesse e fu molto gentile, con quel suo stile particolarissimo. L’ultima volta che ho visto Levi, poco prima che mancasse, era inverno, alla Biblioteca nazionale, e lo si seguiva alle presentazioni dei libri, dei convegni, fintanto che vi prese parte: fino all’ultimo non mancò mai a quelli organizzati qui a Torino dall’Aned e dal Consiglio regionale. Come studioso, mi sono occupato di Levi soltanto negli ultimissimi anni, dopo la sua morte. Appartengo a una generazione che nutre, sia come persona, sia come studioso un grande senso di colpa verso Levi, perché ci siamo accorti di lui molto tardi, e tristemente, solo dopo la morte.
Veniamo appunto all’Alberto studioso, parlami della mostra: come è nata, perché, con quali intendimenti.
La mostra nasce da un progetto del Centre d’Histoire de la Résistance et de la Deportation della città di Lione ed è nato alcuni anni fa, poi si è sviluppato attraverso una collaborazione che ha visto come attori il Centro di Lione, la Fondazione Fossoli e l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza. Tale collaborazione si è tradotta in una versione italiana e in una francese. A Torino come a Carpi, abbiamo pensato a degli ampliamenti specifici sul legame fra Levi e la sua città. È una mostra didascalica, senza effetti speciali, è stata pensata per introdurre il visitatore nel mondo di Levi, con l’intento di sottolineare i nodi problematici della sua esistenza.
Quali sarebbero secondo te questi nodi? Quali le novità della mostra?
La parte più nuova della mostra è la parte iconografica, perché la mostra si avvale di una raccolta di immagini, di fotografie, di documenti, per lo più inediti, provenienti da archivi familiari di amici, di conoscenti di Levi e dall’archivio del suo biografo, Ian Thomson. La mostra si sofferma poi su alcuni nodi non propriamente biografici. La parte principale riguarda la genesi dei suoi libri, c’è una sezione molto importante che dimostra come Se questo è un uomo, al contrario di quel che si pensa, sia un libro che ha avuto una lunghissima gestazione. Ci sono poi sezioni su alcuni nodi importanti: la passione per la montagna, l’attività professionale, il suo particolarissimo modo di vedere la chimica, i suoi antenati.
Che cosa intendi dire?
Che la scrittura di Levi si nutre di elementi a volte dissonanti, ma in realtà omogenei, che hanno aiutato il testimone a raccontare gli eventi tragici di un’esperienza così dolorosa come quella concentrazionaria.
A me una delle sezioni che è piaciuta di più è proprio quella della montagna….
Hai ragione perché si appoggia su alcune immagini molto belle che vengono dall’album fotografico di Silvio Ortona, che fu uno dei suoi compagni di escursioni alpinistiche. Poi recentemente abbiamo trovato una conferenza di Levi, inedita, che abbiamo esposto nella mostra, e di cui poi curerò la pubblicazione. Nel 1961, Levi e Bassani si trovarono insieme al Teatro Comunale di Bologna e pronunciarono una testimonianza in appoggio ad una lezione sull’antifascismo. Mentre Bassani parlò dell’assalto alla sinagoga di Ferrara del 1943, Levi rese una bellissima testimonianza sulla sua esperienza, dall’arresto in Valle d’Aosta, fino alla liberazione del campo. Sono sette pagine molto belle, commoventi da rileggere dopo tanti anni.
Quali altri nodi vuoi segnalare, immaginando che i lettori non abbiano ancora visto la mostra.
Un altro nodo importante è quello che riguarda i suoi antenati, la sua straordinaria passione per il Piemonte e soprattutto per la città di Torino: non c’è scrittore torinese che abbia manifestato una testimonianza di affetto così profonda verso la sua città. C’è una prima parte, che è per me molto significativa, perché ho lavorato tanto su Argon, un racconto del Sistema periodico, che riguarda appunto gli antenati di Levi e la sua giovinezza. Ci sono molte foto e molte immagini che ricostruiscono la sua infanzia, la sua giovinezza e la sua fedeltà a questo mondo, quello dei suoi antenati, che sembra un piccolo mondo lontano, ma è in realtà il laboratorio linguistico a cui Levi attingerà continuamente, perché la sua passione per il dialetto è forse pari, appunto, a quella per la chimica. Conosceva moltissime lingue, ma era soprattutto un grande studioso dell’etimologia delle parole. I suoi antenati ottocenteschi costituiscono per lui per lui un repertorio straordinario, attraverso di loro può compiere vagabondaggi nella storia della lingua, nella storia dei dialetti.
Questo è un aspetto che tu hai approfondito in quello straordinario libro che è “Notizie da Argon” difficile, ma molto poetico.
Sicuramente in questo libro c’è una dimensione autobiografica: in uno dei suoi passaggi, Levi lasciò a mio padre il dattiloscritto di una prima versione di Argon. Mio padre lavorava nel commercio dei tessuti, come gli antenati di Levi e Primo in quegli anni raccoglieva espressioni del gergo ebraico piemontese, soprattutto quelle particolarmente colorite, per abbellire il suo racconto. Lasciò a mio padre il manoscritto, che costituiva una prima versione di Argon chiedendogli di arricchire questo lessico familiare. Io, in coerenza con quello che ti dicevo prima, ho completamente dimenticato per trent’anni di avere in casa queste carte. Me ne sono ricordato molto tardi e mi sono accorto dell’importanza che avevano, anche per le varianti che presentano rispetto all’edizione a stampa. Questo è stato per me uno stimolo per fare i conti con Levi, partendo però dalla mia storia personale. E allora mi sono detto proviamo a raccontare la storia di Levi passando attraverso la storia dei suoi antenati e, in particolare, attraverso la storia di questo racconto, che è a mio giudizio, uno dei più belli che abbia scritto.
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Diego Novelli
Quando Einaudi gli rifiutò il libro
L’antico amico e compagno Ibio Paolucci mi ha chiesto un breve ricordo di Primo Levi. Assolvo a questa richiesta anche perché è un’occasione per salutare il direttore di Triangolo rosso, Gianfranco Maris mio indimenticabile difensore in tribunale quando venivo processato a ripetizione per diffamazione e calunnia per aver scritto su l’Unità che alla Fiat c’era un “sindacato giallo”. Erano gli anni in cui Valletta perseguitava gli antifascisti e gli esponenti della sinistra attraverso una organizzazione capeggiata da due rottami della provocazione antioperaia: Luigi Cavallo ed Edgardo Sogno. Per la cronaca, anche grazie alla valentia di Maris, in dieci processi subiti, dieci sono state le assoluzioni con formula piena. Ma veniamo alla richiesta di Ibio. Ho conosciuto personalmente Primo Levi, poco più che ragazzo: lavoravo, sedicenne, presso un grande distributore di libri (organizzazione Mario De Stefanis, c.so Re Umberto 94 Torino). Avevamo la rappresentanza per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta, di importanti case editrici a partire dall’Einaudi, Bietti, Baldini Castoldi (quella originale), Viglongo, Vallecchi, Hoepli e tante altre che ora non ricordo. Il mio datore di lavoro (non aveva nulla del padrone), aveva il pallino delle piccole case editrici messe in piedi nell’immediato dopoguerra da coraggiosi e un po’ avventurosi intellettuali. Lo viveva come una missione. A Torino, era nata per iniziativa di una forte personalità come quella del professor Franco Antonicelli (presidente del Cln piemontese, liberale-liberale, futuro senatore della sinistra indipendente nel 1968), una piccolissima casa editrice chiamata “Francesco De Silva” (dal nome di un editore piemontese del Seicento). Nel catalogo della De Silva figurava un testo rifiutato dal Grande Editore, Giulio Einaudi: Se questo è un uomo di Primo Levi. Molti anni dopo, diventato amico di Giulio, fu lui stesso a raccontarmi di quel diniego. Da poco era finita la grande tragedia della seconda guerra mondiale. Il comitato di lettura (formato tra gli altri da Natalia Ginsburg e Cesare Pavese) aveva ritenuto di non dover insistere sugli orrori dei campi di sterminio. Non si doveva intristire ulteriormente l’animo dei lettori. La De Silva disponeva di un saloncino e una stanzetta poste negli ammezzati di un palazzo che guardava su via Viotti, a due passi dalla centralissima “Torre Littoria” di piazza Castello. Ogni settimana, nella mia veste di agente dell’organizzazione “Mario De Stefanis” (se volete molto più prosaicamente di “piazzista”) andavo dal ragionier Ventre amministratore, direttore, impiegato e fattorino, della De Silva (era l’unico dipendente) per rendere conto delle vendite e avere informazioni sulle novità. Fu lì, in quel saloncino, che incontrai per la prima volta Primo Levi. Piccolo di statura, minuto di corporatura, timidissimo nel confabulare. Ero un ragazzo curioso (non per niente ho poi scelto di fare il giornalista: ripeto curioso, ma non pettegolo) e per ragioni non solo professionali, leggevo quasi tutti i libri che andavo ad offrire alle libro-cartolerie della mia città. Se questo è un uomo mi aveva profondamente impressionato e l’incontro con il suo autore era stata un’occasione ghiotta per la mia sete di curiosità. Con grande ritegno in occasioni successive al primo incontro, mi chiese conto anche delle vendite, purtroppo scarsissime. Conservo nella mia biblioteca, tra i libri più preziosi, una copia della prima edizione di Se questo è un uomo. Purtroppo nei vari maneggiamenti dei miei libri è andatasciupata la sovraccopertina che personalmente Franco Antonicelli aveva voluto per il libro di Levi a differenza degli altri volumi della stessa collana. Pochi anni dopo entrai alla redazione piemontese de l’Unità (allora diretta da Mario Montagnana) e mi capitò più volte, come cronista, d’intervistare Primo Levi, diventato uno dei maggiori scrittori italiani. Ma la nostra conoscenza (non oso dire amicizia, perché potrebbe apparire presuntuoso), si rafforzò in due circostanze successive. Suo figlio frequentava il “D’Azeglio” negli stessi anni in cui mio figlio, Edoardo, era allievo di quel ginnasio-liceo nel quale, tra l’altro, insegnava storia dell’arte mia moglie Silvana. Primo, come confidenzialmente avevo iniziato a chiamarlo, venne eletto presidente del consiglio di istituto e svolse un ruolo fondamentale nei drammatici anni del terrorismo considerato che proprio in quella scuola, tra quelle mura, nacque uno dei primi nuclei della cosiddetta lotta armata: “Senza Tregua” successivamente diventata “Prima Linea”. Primo Levi collaborò nel decennio del mio mandato di sindaco (1975-1985) con l’amministrazione comunale e fu con Norberto Bobbio uno dei curatori di “Torinoenciclopedia”, un corso di pubbliche conferenze-dibattiti sui pregiudizi, il razzismo e il fanatismo religioso. Parafrasando il suo libro conosciuto ormai in tutto il mondo, senza toni retorici, posso dire di aver incontrato in Primo Levi, un uomo vero.
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Philip Roth
Lo scrittore americano a colloquio con Levi
Lo scrittore americano Philip Roth venne a Torino per incontrare Primo Levi. I colloqui durarono alcuni giorni a seguito dei quali Roth pubblicò l’intervista di cui qui di seguito riportiamo alcuni brani.
Roth Se questo è un uomo si conclude con un capitolo in titolato Storia di dieci giorni, nel quale tu descrivi, in forma di diario, come hai resistito dal 18 al 27 gennaio del 1945 tra un piccolo manipolo di malati e moribondi nell’infermeria improvvisata del campo, dopo la fuga dei nazisti verso Ovest con circa ventimila prigionieri sani. Quel racconto mi suona come la storia di Robinson Crusoe all’inferno, con te, Primo Levi, nei panni di un Crusoe 2 che strappa ciò che gli serve per vivere ai magmatici avanzi di un’isola irriducibilmente spietata. Ciò che mi ha colpito in quel capitolo, come in tutto il libro, è quanto il pensare abbia contribuito a farti sopravvivere, il pensare di una mente pratica, umana, scientifica. La tua non mi pare una sopravvivenza determinata da una animalesca resistenza biologica o da una straordinaria fortuna, ma radicata semmai nel tuo mestiere, nel tuo lavoro, nella tua condizione professionale, nell’uomo della precisione, nell’uomo che verifica esperimenti e cerca il principio dell’ordine, posto di fronte al perverso capovolgimento di tutto ciò che per lui era un valore. Sì, il pezzo numerato di una macchina infernale, ma un pezzo numerato con un’intelligenza metodica che deve sempre capire. Ad Auschwitz dici a te stesso: “penso troppo per resistere sono troppo civilizzato”. Ma secondo me l’uomo civilizzato che pensa troppo è inscindibile dal sopravvissuto. Lo scienziato e il superstite sono una cosa sola.
Levi Benissimo! Hai colpito nel segno. È proprio vero che, in quei memorabili dieci giorni del gennaio 1945, io mi sono sentito come Robinson Crusoe, ma con una importante differenza. Robinson si era messo al lavoro per la sua individuale sopravvivenza; io ed i miei due compagni francesi eravamo consci, e felici, di lavorare finalmente per uno scopo giusto e umano, quello di salvare le vite dei nostri compagni ammalati. Quanto al perché della sopravvivenza, è una questione che mi sono posto più volte, e che molti mi hanno posto. Insisto: regole generali non ce n’erano, salvo quelle fondamentali di entrare in lager in buona salute e di capire il tedesco. A parte questo, ho visto sopravvivere persone astute e stupide, coraggiose e vili, pensatori e folli (ad esempio, quell’Elias che ho descritto in Se questo è un uomo). Nel mio caso personale, la fortuna ha avuto un ruolo essenziale in almeno due occasioni: nell’avere incontrato il muratore italiano a cui ho accennato prima, e nell’essermi ammalato una volta sola, ma al momento giusto. Tuttavia, quello che tu dici, e cioè che per me il pensare, l’osservare, è stato un fattore di sopravvivenza, è vero, anche se a mio parere ha prevalso il cieco caso. Ricordo di aver vissuto il mio anno di Auschwitz in una condizione di spirito eccezionalmente viva. Non so se questo dipenda dalla mia formazione professionale, o da una mia insospettata vitalità, o da un istinto salutare: di fatto, non ho mai smesso di registrare il mondo e gli uomini intorno a me, tanto da serbarne ancora oggi un’immagine incredibilmente dettagliata. Avevo un desiderio intenso di capire, ero costantemente invaso da una curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica, quella del naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso ma nuovo, mostruosamente nuovo.
Roth Il seguito di Se questo è un uomo è La tregua. Il tema è il tuo viaggio di ritorno da Auschwitz in Italia. C’è davvero una dimensione mitica in questo tormentato viaggio, specialmente nella storia del tuo lungo periodo di gestazione in Unione Sovietica, in attesa di essere rimpatriato. Ciò che sorprende ne La tregua - che avrebbe potuto, e comprensibilmente, essere stata improntata al lutto, a un’inconsolabile disperazione - è l’esuberanza. La tua riconciliazione con la vita si compie in un mondo che a tratti pareva simile al caos primordiale. Eppure tu vi appari straordinariamente interessato a tutto, pronto a ricavare da tutto divertimento e cultura al punto che mi sono domandato se nonostante la fame, il freddo e le ansie, persino nonostante i ricordi, davvero tu abbia mai vissuto mesi migliori di quelli che definisci una parentesi di disponibilità illimitata, un provvidenziale ma irripetibile regalo del destino. Tu sembri una persona la cui esigenza più profonda è innanzi tutto di aver radici - nella professione, nella razza, nel luogo, nella lingua, eppure, quando ti sei trovato più solo e sradicato di quanto si possa essere hai considerato quella condizione un regalo.
Levi Un amico, ottimo medico (era fratello di Natalia Ginzburg: conosci i suoi libri ? È una Levi anche lei, ma non mia parente), mi ha detto molti anni fa: “I tuoi ricordi di prima e di dopo sono in bianco e nero; quelli di Auschwitz e del viaggio di ritorno sono in technicolor”. Aveva ragione. La famiglia, la casa e la fabbrica sono cose buone in sé, ma mi hanno privato di qualcosa di cui ancora oggi sento la mancanza, cioè dell’avventura. Il mio destino ha voluto che io trovassi avventura proprio in mezzo al disordine dell’Europa devastata dalla guerra. Tu sei del mestiere, e sai come vanno queste cose. La tregua è stato scritto quattordici anni dopo Se questo è un uomo; è un libro più consapevole, più letterario, e molto più profondamente elaborato, anche come linguaggio. Racconta cose vere, ma filtrate. E stato preceduto da innumerevoli versioni verbali: intendo dire, ogni avventura era stata da me raccontata molte volte a persone di cultura diversa (spesso a ragazzi delle scuole medie), e aggiustata a poco a poco in modo da provocare le reazioni più favorevoli. Quando Se questo è un uomo ha cominciato ad avere successo, e io ho cominciato a intravedere per me un futuro come scrittore, mi sono accinto alla stesura. Volevo divertirmi scrivendo, e divertire i miei futuri lettori; perciò ho dato enfasi agli episodi più strani, più esotici, più allegri: soprattutto ai russi visti da vicino. Ho regalato all’inizio e alla fine del libro i tratti, come tu dici, di lutto e di disperazione inconsolabile. A proposito del radicamento, della “rootedness”: è vero che io ho radici profonde, e che ho avuto la fortuna di non esserne stato privato: la mia famiglia è stata in buona parte risparmiata dalla strage, e oggi io continuo ad abitare addirittura nell’alloggio dove sono nato. La scrivania su cui scrivo sta esattamente nel luogo in cui, secondo la leggenda, sono stato partorito. Perciò, quando mi sono trovato sradicato quanto più non si potrebbe, ho certo provato sofferenza; ma questa è stata compensata dal fascino dell’avventura, dagli incontri umani, dalla dolcezza della “convalescenza” dal morbo di Auschwitz. La mia “tregua” russa, nella sua realtà storica, ha cominciato ad apparirmi come un dono solo molti anni dopo, quando l’ho depurata rivivendola e scrivendola.
da Primo Levi: conversazioni e interviste, Einaudi 1997
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Umberto Ceriani
Interpretai in teatro “Se questo è un uomo”
Lo incontrai nel 1966. Gianfranco De Bosio aveva messo in scena Se questo è un uomo: Una scelta coraggiosa visto i tempi e la complessità del testo e della messa in scena. Alla riduzione teatrale aveva lavorato lo stesso Primo Levi. La prima era prevista a Firenze, alla Pergola. Ma l’alluvione – eravamo in novembre – ci costrinse a cambiare piazza: la compagnia si spostò a Torino, al Carignano e lì debuttammo. Primo Levi lo incontrai più volte durante le prove. Ero molto emozionato. Come sai, in Se questo è un uomo, Primo Levi è Aldo, e io lo impersonavo. Una responsabilità molto forte, avevo ventidue anni! Entrambi molto timidi, non fu facile scambiarsi impressioni e soprattutto per me capire come valutava il mio personaggio, che poi era il suo, quello che era passato per la tragedia di Auschwitz, e che io portavo in scena. L’occasione per parlarci erano dunque le prove. E in quelle occasioni, spesso accadeva che seguivamo parti dello spettacolo in cui io non ero in scena. Ho un ricordo vivissimo di due episodi a cui assistetti: in una delle scene più toccanti tre musicisti suonano Rosamunda per accompagnare ai lavori forzati i prigionieri. Primo Levi, che era seduto accanto a me, come partirono le prime note, si alzò rapidamente e uscì quasi di corsa dal teatro. Vi rientrò dopo un’ora, forse più. Gli chiesi con molta delicatezza il motivo di quel suo comportamento, di quella fuga. Mi rispose che quella musica gli ricordava le marce forzate che compivano i suoi compagni in condizioni drammatiche e che spesso questa o altre marcette simili venivano intonate per accompagnare impiccagioni. Un’altra volta, quasi per farmi capire la complessità dei rapporti che si stabilivano tra quanti erano nel campo e tra chi poi stava nella stessa baracca o addirittura nello stesso letto a castello, mi spiegò quanto fosse importante comunicare, parlarsi, poiché spesso non bastavano gli occhi. Mi raccontò di un giovane francese che gli chiedeva di insegnargli l’italiano e lui gli recitò un po’ impacciato quella terzina dell’Inferno di Dante, ove rimprovera Ulisse: “Considerate la vostra semenza, fatti non foste per viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza”. Quasi a sottolineare l’inferno in cui lui e il suo giovane amico si ritrovavano. Seguendo la scena lo vidi commuoversi. Della mia interpretazione, dopo che assistette alla prima, non mi disse nulla. Qualche giorno più tardi, venne in teatro e mi consegnò un biglietto, che conservo gelosamente e che ora è esposto nella mostra a Torino a lui dedicata. “Mi piace moltissimo come mi impersona: la stimo moltissimo”. Primo Levi.
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Giovanna Borgese
In quella foto che scattai scorsi il suo dramma
Ho incontrato Primo Levi nel 1986, quando venne a Milano a presentare I sommersi e i salvati. Non l’avevo mai visto prima, ma mi sembrava di conoscerlo da sempre attraverso i suoi scritti. E quest’ultimo libro mi aveva fatto capire tante cose, forse più degli altri, se possibile. Eravamo nella piazzetta vicino alla libreria Einaudi, in una bella serata di primavera. Io stavo in mezzo al pubblico, lo fotografavo da lontano, senza che lui se ne accorgesse. Lo guardavo, attenta a quello che diceva: ascoltando la sua voce mi sentivo profondamente coinvolta, come lo sono di rado quando fotografo, e anche commossa, vicina a lui: avevo quasi l’impressione di cogliere nel suo volto qualcosa di intimo, di segreto. Mi ritornavano nella testa le parole del suo libro: “Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed, in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere… È una supposizione, ma rode, si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride”. Quando ho stampato le foto, ho ritrovato tutto questo in una sola delle 36 pose del rullino: il suo dolore profondo - quel tarlo che lo rode - mi sembrava che affiorasse dal suo sguardo, triste e insieme di una infinita dolcezza, dal quale sembra trasparire il senso dell’intera sua vita. Primo Levi è morto un anno dopo. Spesso riguardo questa fotografia che ho incorniciato nel mio studio. Provo sempre la stessa emozione e insieme uno strano e confortante senso di serenità.
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Dopo la liberazione in un treno merci
Da Varsavia a Genova sulla via del ritorno
Il lungo viaggio di un mese attraverso la Polonia, la Biolerussia, l’Ucraina, l’Ungheria, l’Austria in un clima di grande allegria
di Ibio Paolucci
Nella Tregua, scritto nel 1961, Primo Levi racconta la liberazione del campo di sterminio con l’arrivo ad Auschwitz il 27 gennaio del 1945, verso mezzogiorno, dei primi tre soldati dell’Armata Rossa a cavallo, mentre lui e Charles stanno deponendo in terra il cadavere di un compagno di baracca, morto nella notte. Finalmente l’inferno aveva termine e “Charles si tolse il berretto per salutare i vivi e i morti e a me dispiacque di non avere il berretto”. Nel libro l’autore parla del ritorno e dei labirintici, paradossali e insensati passaggi di cui mai riuscì a farsene una ragione, probabilmente perché semplicemente non c’era. Come spiegare, infatti, il motivo per cui dalla stazione di Katowice, assieme ad altri numerosi italiani, invece di essere imbarcato su un treno diretto se non verso l’Italia per lo meno in direzione dell’occidente, venne catapultato molto più ad Oriente, a Sluzk, nella repubblica sovietica della Bielorussia? Primo Levi non seppe mai spiegarselo e neppure io, che mi ritrovai in una situazione abbastanza simile, riuscii a trovare una spiegazione accettabile. Dopo la liberazione, Primo Levi, convalescente dopo un mese di ricovero in una infermeria organizzata dai russi, fece tappa prima a Cracovia e successivamente a Katowice, dove era stato approntato un campo di transito per gli stranieri in attesa di rimpatrio. Un transito che durò parecchi mesi. Prima perché ci fu l’attesa dell’8 maggio, vale a dire della fine della guerra, successivamente perché lo stato delle ferrovie era disastroso e non meno disastroso, per la sua allegra imprevedibilità, era lo stato della burocrazia sovietica: “Una indecifrabile burocrazia, oscura e gigantesca potenza, non malevola verso di noi, ma sospettosa, negligente, insipiente, contraddittoria e negli effetti cieca come una forza di natura”. Valga anche il mio caso. Mentre Primo Levi era a Katowice, io ero arrivato alla vigilia del primo aprile, domenica di Pasqua, a Rembertow, un borgo a pochi chilometri da Varsavia o, per meglio dire, dal quartiere di Praga, posto ad oriente della Vistola, giacché Varsavia, allora, era un cumulo di macerie, un immenso cimitero. Nel casermone di Rembertow c’era il pieno di stranieri, specialmente italiani e francesi, ma anche belgi, cecoslovacchi, ungheresi, inglesi. Questi ultimi sostavano solamente qualche giorno, facendo parte di una nazione vincitrice e dunque privilegiata per il rientro dei suoi cittadini. Anche gli jugoslavi restavano poco, ma questo perché allora sovietici e jugoslavi si consideravano due stati fratelli, governati entrambi da un regime comunista. A Varsavia, dove eravamo assolutamente liberi e potevamo fare quello che volevamo, anche noi rimanemmo parecchi mesi, dopodichè, il giorno in cui fummo avviati alla stazione, anziché dirigerci, come credevamo, verso l’Italia, finimmo anche noi a Sluzk. Difficile dire se la nostra permanenza coincise, per lo meno per qualche tratto, con quella di Primo Levi e se ci fu fra noi e lui un qualche fuggevole incontro. Sluzk, peraltro, era una costellazione di villaggi. Quello di Levi si chiamava Staryje Doroghi (Vecchia Strada), del mio non ricordo il nome, ammesso che lo avesse. Noi, tutti italiani e tutti uomini, la maggior parte dei quali era costituita dagli Imi (Internati militari italiani), eravamo sistemati in una specie di grande palestra al primo piano, all’interno di un palazzone e dormivamo sul pavimento. A mangiare andavamo alla mensa, sistemata al pianterreno, in un altro grande salone. Il cibo non era un gran che, migliore comunque, di quello, decisamente pessimo, che ci veniva distribuito a Varsavia. Un “rancio”, se si può definire così, peraltro simile a quello dei soldati sovietici. L’Urss aveva battuto la Germania nazista e aveva innalzato la bandiera rossa con la falce e il martello sul Reichstag a Berlino, ma era stremata. In ogni casa un lutto e sterminati territori dell’Unione Sovietica devastati e depredati dalle orde hitleriane. Contrariamente alla zona che c’era stata assegnata a Sluzk, dove, sostanzialmente, c’era soltanto la nostra presenza, nel quartiere di Praga si trovavano distese di bancarelle, dove era possibile acquistare generi alimentari, vendendo tutto quello che possedevamo, per esempio la biancheria che c’era stata consegnata dai russi o qualsiasi altra cosa. Io riuscii a piazzare per 100 zloty persino un giaccone talmente sudicio e rattoppato che, col primo caldo, pensavo di buttarlo in un immondezzaio. E invece trovai, senza neppure cercarlo, un acquirente che mi offrì quella somma, con la quale, grosso modo, potei comprare circa un chilo di pane bianco, che divisi, com’era nelle abitudini, con gli altri tre compagni di sventura: un ferrarese più o meno della mia età, un vicentino maggiore di qualche anno e un senese, di nome Pianigiani, un piccolo proprietario di Colle Val d’Elsa, che aveva una ventina d’anni più di me, che ricordo per la sua bonaria saggezza contadina. Ed è difficile immaginare ora, in una società dei consumi, circondati da ogni ben di dio, quale immensa delizia rappresentasse per noi una grossa fetta di pane bianco. A Sluzk le occasioni per possibili distrazioni erano pressoché inesistenti. Passavamo le giornate sul prato, quando non ci spingevamo nel vicino bosco. Qualche volta, visto che eravamo in piena estate, ci fermavamo a dormire all’aperto. Rammento una notte, attorno al giorno di san Lorenzo, incantato per ore a guardare lo spettacolo delle stelle cadenti. Inutile dire che il desiderio comune espresso nel vedere la prima stella filante, che pare portasse fortuna, era quello di tornare al più presto a casa. I russi erano sempre disponibili nel rassicurarci con grandi manate sulle spalle: “Do domu, do domu, italianski do domu”, a casa a casa. E noi, per nulla tranquillizzati: “Kagdà? Ma quando?”. Domanda che restava senza risposta. A Varsavia eravamo rimasti, in attesa, oltre tre mesi. Ma qui, fino a quando? Però non si stava male a Sluzk. Qualcuno nel nostro casermone aveva organizzato anche una squadra di calcio, che era fortissima, perché allenata da un ex terzino del Bologna, che, persino io, che di calcio masticavo pochissimo, sapevo che era lo squadrone “che tremare il mondo fa”. Vincemmo, difatti, il torneo fra le nazioni, la cui finalissima si tenne in un campetto in altra zona, dove quasi tutti noi ci recammo per sostenere la nostra squadra e forse, quel giorno, fra gli spettatori è del tutto possibile ci fosse anche Primo Levi. Pure per noi, dunque, il viaggio di ritorno, oltre che lungo, fu tortuoso e snervante, ma probabilmente il tutto, più che alla burocrazia, era dovuto alle tremende distruzioni di allora. Io, appena liberato dall’Armata Rossa, mi recai, dalla casa contadina dove mi ero rifugiato, con altri compagni, nella vicina cittadina di Noenburg. Lì ci trovammo con una ventina di altri italiani e lì, essendo ad occidente della Vistola, dovemmo sostare molti giorni, in attesa del ripristino di un ponte sul grande fiume. Volantini in almeno tre lingue lanciati dagli aerei informavano che il campo di transito che c’era destinato era, per l’appunto, quello di Varsavia. Giunto il momento di traversare il fiume iniziammo una lunga marcia a piedi, guidati da un sergente russo, per arrivare al primo posto funzionante delle ferrovie. Tre giorni di cammino sotto una neve ghiacciata e, per la notte, quello che si trovava sulla rotta: case disabitate ovviamente senza riscaldamento e in una occasione fortunata una sala d’aspetto di una stazione ferroviaria, con, al centro, una stufa, naturalmente spenta, ma che non dovemmo faticare ad accendere essendo situata nelle immediate vicinanze di un bosco. E finalmente arrivammo alla stazione funzionante, da dove uno sgangheratissimo treno merci ci portò a Varsavia. I russi, quando non indossavano gli abiti ufficiali, che li rendevano burocraticamente scostanti, erano molto cordiali. A Sluzk, oltre al cibo ci distribuivano anche un tabacco chiamato “makorka”, un tabacco di scarto, in forma di minuscoli stecchi, difficili da arrotolare, in assoluta mancanza di cartine. Così, ad imitazione dei russi, usavamo pezzi della Pravda, che ci veniva consegnata gratis pressoché quotidianamente. Una o due volte ci fu distribuito anche L’Alba, il periodico in lingua italiana diretto ai nostri prigionieri di guerra, redatto, fra gli altri, da Edoardo D’Onofrio e Paolo Robotti, dirigenti di primo piano del Pci, ma a noi completamente sconosciuti. E fu da quel giornale, fra l’altro, che, con grosso ritardo, appresi i dettagli della liberazione della mia città, Genova, ad opera dei partigiani, che avevano imposto, come è noto, l’atto di resa a un generale tedesco. E finalmente anche per noi, a Sluzk, arrivò il giorno della partenza per l’Italia, se ben ricordo il primo settembre. Viaggiammo in un treno merci con le porte sempre aperte, in un clima di grande allegria, per un mese intero, attraversando l’Ucraina, un pezzo della Romania, l’intera Ungheria, l’Austria, sempre accompagnati da un gruppetto molto simpatico di militari dell’Armata Rossa, che provvedeva a procurarci i viveri e che ci consegnò alle autorità italiane a Udine, dove ricevemmo dai nostri militari una minestra calda, che ci parve di una bontà senza eguali.
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Michele Sarfatti
L’importanza della scelta del settembre del ’43
Nelle prime pagine di Se questo è un uomo, Primo Levi ci segnala che lui era stato partigiano, sia pure per poche settimane, per via dell’immediata azione repressiva della Repubblica sociale italiana. Da quanto scrive, sembra che ce lo segnali solo per inquadrare e “motivare” i perché dell’arresto – avvenuto il 13 dicembre 1943 – e dei conseguenti internamento a Fossoli e deportazione ad Auschwitz. Levi svilisce alquanto la propria decisione di salire in montagna: “coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione”; “mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata”. Ma a mio parere questi sono nient’altro che echi di quella modestia intelligente e arguta che costituisce – assieme alla pacatezza e alla sapienza – una delle caratteristiche della sua personalità e una delle forze attrattive della sua narrazione. In realtà, di là dalle sue parole, il fatto è che Levi venne arrestato perché partigiano. Era un giovane ebreo “fortunato”: non aveva parenti tanto anziani o deboli da avere bisogno di lui per difendersi dagli arrestatori nazisti o fascisti. Per questo, poté interrogarsi su cosa fare e poté scegliere di fare ciò che giudicava maggiormente giusto. Avrebbe potuto decidere (e ne avrebbe avuto buoni motivi) di restare con i familiari, o di rifugiarsi in Svizzera. No, decise di salire in montagna e di combattere. È questo suo aspetto che oggi voglio ricordare. Sì, il suo nome fa parte della nostra storia per via della sua insostituibile testimonianza della deportazione ebraica e del lager. E fa parte della nostra cultura per via della sua preziosa scrittura letteraria e saggistica. Ma, a mio parere, Primo Levi deve rimanerci caro anche perché volle e seppe ribellarsi, perché fu partigiano. Come è noto, la sua banda era tanto entusiasta quanto disorganizzata. Ed è vero che forse errarono i loro dirigenti torinesi, a inviarli sui monti in quelle condizioni. Ma, compiendo quella scelta, arruolandosi e venendo arruolato in una formazione militare in difesa della nazione, Primo Levi (come altri mille partigiani ebrei nella penisola) riannodò concretamente quel legame tra Italia e “cittadino ebreo” che il fascismo aveva reciso nel 1938. Oltre che ribelle, egli fu – già in quell’autunno 1943 – ricostruttore della comune italianità di ebrei e non-ebrei. Il suo “stato di servizio” partigiano non riporta strenui combattimenti o gloriose epopee. Ma ritengo che anche quella sua scelta del 1943 abbia contribuito, nel lungo e doloroso anno seguente, a fargli mantenere viva la dignità, dalla quale sono dipese sia la sua sopravvivenza fisica, sia la sua capacità di raccontare. Meditando che “questo è stato”, ricordiamoci anche del suo “deciso e concreto senso di ribellione”.
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Rita Levi-Montalcini
Chi erano davvero i “mostri” nei lager
Nel mio saggio Senz’olio contro vento del 1996, edito da Baldini e Castoldi, ho rivissuto la tragica e straordinaria esperienza di Primo Levi nel lager nazista di Auschwitz, descritta nel suo libro Se questo è un uomo. Desidero ricordarlo con un breve passo a lui dedicato:“Nell’inferno di Auschwitz, la colpa di non appartenere alla razza ariana dominatrice non era oggetto di punizione nel senso dantesco, ma di sofferenze inflitte con sadica ferocia e meticolosa accuratezza da parte dei Kapo preposti alla sorveglianza. Tuttavia, malgrado gli orrori che non descrivi, ma che emergono da ogni evento che delinei con lo stesso rigore che mettevi nel redigere i protocolli dei tuoi esperimenti, raggiungi lo scopo che consciamente o inconsciamente ti eri prefisso, e cioè di suscitare nei lettori più che odio per i carnefici pietà e vergogna per l’appartenenza a una specie che si è macchiata di tanti delitti. Tu stesso non vedi nella maggioranza di loro dei mostri, ma esemplari della specie umana che il caso, più che un’innata perversità, ha portato ad agire come hanno agito. Ritorni a più riprese su questa tesi, non assolutoria, ma recisamente contraria a demandare ai geni la colpa dei comportamenti dei singoli”.
Triangolo Rosso, giugno/settembre 2007