Triangolo rosso
Mauthausen
Diffuse nel lager la notizia della liberazione di Parigi ascoltando la BBC
Pierre Serge Chumoff
La “voce segreta” che rincuorava i deportati
Era utilizzato dai nazisti in quanto esperto radiotecnico
di Angelo Ferranti
“In questo lager, non dei peggiori, sono morte più di centodiecimila persone. L’immagine più terribile, forse più ancora della camera a gas, è la grande piazza in cui i prigionieri venivano raccolti e inquadrati per l’appello.“ È Claudio Magris che nel suo libro “Danubio” descrive la sua visita a Mauthausen.
Più avanti racconta della sua fatica scendendo dalla Scala della Morte che conduceva alla cava di pietra: “Su questi 186 alti gradini gli schiavi portavano macigni, cadevano per la fatica o perché le SS li facevano inciampare e rotolare sotto i sassi, venivano abbattuti a bastonate o a fucilate…”
Francese, nato a Parigi nel 1922, radiotecnico, prima della prigionia e della deportazione, viene arrestato nel marzo del 1943 in quanto membro della Resistenza francese. Imprigionato a Cherche-Midi, Fort de Romainville, campo di Compiègne, giunge nel campo di concentramento di Mauthausen il 1 aprile 1943 (prigioniero numero 25.699). Dal 28 aprile 1943 nel campo di concentramento di Gusen I (prigioniero numero 15.014 dal 23 gennaio 1944 numero 47.836); il 28 aprile 1945 di nuovo nel campo di concentramento di Mauthausen. Dopo la liberazione completerà studi in tecnologia e matematica, capo ingegnere in un gruppo tecnologico; è autore di saggi storici. Vive a Parigi.
Pierre Serge Choumoff è una persona minuta, ha un volto forte, occhi vivacissimi, che trasmettono. Ci fa capire subito che è molto lieto di rilasciare questa intervista a “questi amici italiani”- come ci tiene subito a sottolineare - a noi che gli chiediamo quali furono i rapporti con gli italiani.
I compagni italiani li ricordo tutti bene, con amicizia e affetto! Ho vissuto con molti di loro le stesse condizioni di tensione, paura di non farcela; era forte tra di noi la solidarietà e l’aiuto reciproco per resistere, organizzandoci in forme diverse. Ero arrivato a Mauthausen, il 1 aprile del 1943, e poco dopo trasferito a Gusen I, insieme a molti camarade francesi: ero stato arrestato in quanto membro della Resistenza. Come radiotecnico misi al servizio di quella lotta le mie conoscenze in quel momento strettamente vietate; durante quella attività fui costretto a cercare dei pezzi di ricambio, delle valvole… qualcuno mi seguì e fece il mio nome, venni fermato e incarcerato e solo per un caso non fui ucciso, il mio nome venne trascritto non con la Ch ma con la Sch, facendomi scivolare in fondo nell’elenco e ciò mi valse la salvezza: 116 compagni furono trucidati per vendetta e rappresaglia per l’attacco al cinema Rex. Il nostro trasferimento, mio e dei miei compagni, non avvenne nel solito modo, in carri bestiame pigiati e costretti in condizioni indicibili, ma con un piccolo convoglio, strettamente sorvegliati. Arrivammo a Mauthausen di notte e fummo condotti al lager con una marcia forzata. Quando dovetti riferire dei miei studi e dei lavori che avevo svolto, dissi che conoscevo il tedesco, un po’ di polacco, oltre al francese, che ero radiotecnico e avevo appreso il disegno tecnico e scrivevo bene… queste qualifiche furono fondamentali per la mia nomina ad aiutante dell’archivista del mio blocco. Devo anche dire che il mio nome di origine russa non sollevò particolari attenzioni. Ho svolto anche funzioni di controllo delle macchine utensili: ispezionavo alesatrici, torni, per le produzioni militari della Steyr che nei tunnel di Gusen doveva realizzare componenti per la V2. Uno dei modi per ostacolare la produzione stava nello scartare gli attrezzi per effettuare con precisione le lavorazioni. Data la difficoltà di reperire attrezzi sostitutivi, lo scarto degli utensili provocava ritardi e danneggiava la produzione. Ma torniamo al mio rapporto con i compagni italiani. La maggior parte di loro arrivarono nei primi mesi del ‘44. Erano politici e per di più considerati dei traditori in quanto oppositori della repubblica di Salò e del III Reich. Erano completamente impreparati. Sorpresi. L’impatto con l’organizzazione del campo e le sue regole feroci provocarono dei veri drammi. La giornata nel campo era segnata da un insieme di obblighi che dovevano essere rispettati rigidamente. Noi francesi, che eravamo già da mesi nel lager, cercammo di aiutarli in ogni modo. In quel periodo io mi occupavo del registro degli arrivi e una delle prime cose che mi sforzavo di far loro capire era di apprendere subito il numero che gli era stato assegnato, numero che tutti i giorni, mattino e sera, nell’adunata nel grande piazzale doveva essere ripetuto da ognuno di loro in tedesco.
A Choumoff chiediamo se si ricorda i nomi di alcuni di loro.
Sì, ricordo Tonussi, e con lui Maris, Belgioioso, Pagano, Albertini: li consideravo gli intellettuali del gruppo. E poi Ravelli e altri ancora, fraternizzammo subito, e furono molte le occasioni in cui ci aiutammo reciprocamente. Molti di loro erano compagni che avevano operato nelle formazioni partigiane e così fu possibile organizzare dei piccoli gruppi di resistenza nelle nostre baracche. Ricordo che Albertini rappresentò gli italiani nel comitato di resistenza internazionale clandestino che nella fase finale, prima della liberazione del campo da parte degli americani, trattò con la Croce Rossa.
Sappiamo che durante la sua permanenza nel campo di Gusen I si trovò nella singolare possibilità - dovuta alle sue conoscenze nel campo della radiofonia - di avere informazioni sull’andamento della guerra ascoltando i notiziari della Bbc che li trasmetteva sia in tedesco che in polacco. Come si concretizzò questa particolarissima circostanza ?
Agli inizi di giugno del 1944, fui richiesto dal responsabile dei servizi di trasmissione radio del campo per sostituire un compagno belga, trasferito da altra parte. Sostenni un esame che accertò le mie competenze. Questo posto era molto importante. Si trattava di mantenere in perfette condizioni di efficienza tutte le apparecchiature ricetrasmittenti. La stazione radio era il centro nevralgico del campo: qui arrivavano tutte le informazioni dello stato maggiore. In particolare scopersi che si potevano ricevere i notiziari della Bbc e di altre stazioni radio che trasmettevano in determinate ore del giorno, sempre le stesse, dando notizie sull’andamento della guerra e sull’avanzata dei diversi fronti, quello degli americani e quello dei russi. L’ufficiale delle SS che comandava la nostra postazione era molto energico, intelligente: sempre alle prese con il bisogno di trovare pezzi di ricambio per mantenere in buone condizione tutti gli apparati radio. Ricordo le sue sfuriate verso il comando di Liens, da cui si dipendeva per avere i pezzi sostitutivi; io ero molto sorvegliato. Avevo scoperto che l’unico modo per poter ascoltare per pochi minuti i notiziari in breve che venivano trasmessi alla fine dei giornali radio della Bbc in inglese e in polacco, alle dieci e qualche minuto di ogni giorno, era quello di segnalare un falso guasto a uno degli apparecchi riceventi. Il guasto per essere riparato richiedeva l’uso di una cuffia. Mi veniva consegnata sotto stretta sorveglianza e solo per pochissimi minuti, capite lo stress. Ero molto sorvegliato. In pochi minuti dovevo segnalare un guasto inesistente, per poter chiedere le cuffie e contemporaneamente simulare la riparazione affinché subito dopo quella stessa radio potesse essere nuovamente disponibile e soprattutto cercare di capire bene cosa veniva trasmesso dal notiziario della Bbc che ricevevo in cuffia. Ogni volta mi trovavo in uno stato di estrema tensione e al tempo stesso ero conscio della situazione eccezionale in cui mi trovavo: potevo conoscere il reale andamento della guerra e dare così speranze a tutti che forse la fine delle nostre sofferenze era prossima. Tenete conto che il tutto avveniva in uno spazio limitato e che alle mie spalle si muovevano altre due SS, pure esse addette alla sorveglianza e alle trasmissioni.
In che modo riuscì a diffondere le notizie che apprendeva dai notiziari, senza essere scoperto?
Potevo contare su una piccola rete di compagni di provata fiducia: belgi, jugoslavi, oltre ai miei compagni francesi. Ero sicuro che non mi avrebbero mai tradito. In seguito la rete si allargò includendo altri compagni di altre nazionalità . L’episodio più importante di cui fui protagonista fu quando appresi in anticipo la notizia della liberazione di Parigi, Marsiglia e Grenoble da parte delle forze alleate. Da settimane l’andamento della guerra mostrava che le armate del III Reich continuavano a subire grandi perdite e che il morale delle truppe era a terra. Anche noi subivamo continuamente bombardamenti da parte dell’aviazione degli alleati: le SS ci costringevano in migliaia a rifugiarci nei tunnel dove si lavorava alle produzione di un aereo. Dieci, quindicimila prigionieri, rinchiusi con la forza, con ogni volta decine di vittime dovute ai tentativi di sottrarsi alle spinte e alle pressioni di tanti corpi. Io mi nascondevo sotto il pavimento delle baracche: il giorno prima della liberazione di Parigi appresi la notizia nel solito modo. La diffusi immediatamente: lo scalpore fu grande. Le SS pensarono inizialmente a una notizia inventata. Trovarono successivamente conferma negli alti comandi tedeschi. Non riuscivano a spiegarsi come la notizia della caduta fosse giunta nel campo ancora prima che questo accadesse. Le conseguenze furono che tutte le radio vennero modificate. Venne soppressa la possibilità di ricevere in onde corte. La liberazione di Parigi da parte degli alleati avvenne il 24 agosto del ‘44.
Lei è stato uno dei protagonisti del gruppo internazionale che dirigeva la Resistenza. Che ruolo ebbe nei giorni del crollo? Come avvenne la liberazione del campo?
C’era un gruppo di resistenza internazionale nel campo. Per gli italiani Albertini. Alla fine di marzo del 1945 si capì dall’andamento della guerra che la Germania nazista stava crollando. L’ordine a Gusen come a Mauthausen era di uccidere tutti quanti vi erano rinchiusi. La camera a gas funzionava al massimo. Sapevamo che una delle possibilità di annientamento consisteva nel rinchiudere i prigionieri murandoli nei tunnel o farli saltare con la dinamite. Noi a Gusen diventavamo sempre più deboli. Non avevamo di che nutrirci. Decisi con altri compagni di trasferirmi a Mauthausen. Costituimmo piccoli gruppi di compagni per impossessarci di armi: incontrammo i rappresentanti della Croce Rossa, con me che facevo da interprete a Emile Valley nella trattativa con i Vigili del Fuoco e un drappello di soldati austriaci, che erano rimasti nel campo dopo la fuga delle SS e coi quali stabilimmo un patto di non belligeranza: “Voi non intervenite contro di noi e noi faremo altrettanto nei vostri confronti”. Il 5 maggio fummo avvertiti dell’ingresso degli americani nel campo. Il nostro gruppo era tra i più attivi. Con gli spagnoli e altri compagni ci recammo all’ingresso del campo e armi alla mano, all’una del pomeriggio, decidemmo di abbattere l’aquila che sovrastava l’ingresso del campo. Abbattendo quel simbolo ci sembrava di aver definitivamente sconfitto il nazismo! C’è una foto di quell’episodio in cui mi si vede con altri mentre con una corda tiriamo giù quel simbolo di morte. Le ore successive le passammo a organizzare l’accoglienza per l’arrivo degli americani. Ci sembrava di aver contribuito a liberarci. In quel momento erano almeno ventimila i superstiti. La situazione sanitaria era gravissima. Dovevamo dividere per nazionalità quanti erano rimasti vivi per portare loro soccorso. Organizzare la quarantena. Io nonostante tutto ero uno dei pochi superstiti validi e con una conoscenza diretta delle condizioni del campo. Ho aiutato come interprete Emile Valley nel negoziato con gli americani per rendere più facile il rilascio dei prigionieri e il rientro nei loro paesi. Sono arrivato a Parigi il 30 maggio 1945 attraverso la Svizzera. Ma ritornai nuovamente a Mauthausen il 2 giugno con Emile Valley. Fummo incaricati dal ministro francese dei veterani di garantire il rimpatrio di tutti i prigionieri e di recuperare i documenti che comprovavano la presenza di cittadini francesi all’interno del campo di concentramento di Mauthausen.
Serge Choumoff ci saluta calorosamente. Anticipa il suo rientro a Parigi. Domani si vota in Francia per le presidenziali e lui non vuole mancare. Ci racconta di un ultimo episodio, mentre il suo taxi lo attende.
Quello che resta oggi del campo di concentramento di Gusen è frutto di una scelta difficile: francesi e italiani decisero di acquistare un lotto di terreno per impedire che ogni traccia di Gusen sparisse. Scoprirono che quel terreno apparteneva alla moglie di una SS: la decisione di dare soldi a un carnefice fu quanto mai difficile da prendere. Prevalse la ragione: la memoria di quel luogo di sofferenze per quanti erano morti o lo avevano attraversato non doveva essere cancellata per sempre.
Triangolo Rosso, giugno/settembre 2007