Triangolo rosso

Le nostre storie

Fu uno dei componenti del Centro estero del Pci. Nel primo dopoguerra gettò le basi della casa editrice “l’Unità”

È morto il partigiano Mario Ferro. Aiutò “Valerio” a catturare Mussolini

 

di Franco Giannantoni

 

Se n’è andato in silenzio, il 12 febbraio scorso, in linea con il suo carattere schivo, Mario Ferro, 87 anni, comunista, partigiano, antifascista sino dai momenti più bui della storia nazionale. Lascia la moglie Adele Conconi, sposata nell’immediato dopoguerra, e il figlio Raffaello. Quasi nessuno in questo Paese senza memoria ha speso una parola significativa per la sua morte. Lo facciamo noi con commozione e riconoscenza perché quest’uomo ha rappresentato in un frangente unico, quello che poneva la pietra tombale sul fascismo repubblichino, il grimaldello per permettere alla missione di Aldo Lampredi “Guido” e Walter Audisio “colonnello Valerio” decisa dal Comitato Insurrezionale del Clnai-Cvl formato da Luigi Longo, Sandro Pertini, Leo Valiani, Emilio Sereni, di raggiungere il 28 aprile 1945 l’alto lago di Como e fare giustizia “in nome del popolo italiano” di Mussolini e dei gerarchi. Mario Ferro era un uomo garbato, equilibrato, rigoroso, fedele agli ideali del su Partito. Ha speso tutta la vita nella lotta politica e nel movimento cooperativistico per la causa dei lavoratori. Era nato a Rovigo nel 1919 e aveva percorso con il fratello Giovanni, iniziando dal Polesine, l’intero itinerario cospirativo che si completò a Milano nel 1935 (era appena sedicenne!), città dove la famiglia si era trasferita. Collaboratore di “Soccorso Rosso”, impegnato negli espatri clandestini verso la Svizzera dei compagni in difficoltà con la dittatura, arrestato con i fratelli Giovanni e Sisto, una volta liberato, fu costretto a riparare in Francia. L’Ovra gli era alle calcagna. Fu Oltralpe, accanto ad alcuni personaggi storici del comunismo italiano, da Donini, a Galiussi, da Sereni a Clocchiatti, da Nicoletto a Barontini, a Mordini, Platone, Scotti, Dozza, e tanti altri, che si formò come quadro dirigente, diventando uno dei principali attori nella vita del Pci clandestino. Con il nome di copertura di “Romagnosi”, raggiunta Tolone per sviare la polizia, dopo aver attraversato l’intera Francia centrale occupata dai nazisti, venne destinato dai superiori a “studiare” nel dettaglio un piano per eliminare il ras di Cremona Roberto Farinacci. Ma il capitolo della sua vita che gli era più caro e che con me, più volte, ripercorse aiutato da una memoria prodigiosa, furono le fatali ore del 28 aprile 1945. Era giunto da poche ore a Como da Mendrisio nel Canton Ticino dove si era rifugiato una volta uscito il 20 agosto 1943 dal carcere di San Gimignano dove era stato detenuto dal settembre 1942. In quello sfortunato autunno era stato sorpreso, al rientro dalla Francia, dalla polizia fascista che era sulle sue tracce da parecchi giorni. All’alba del 28 aprile 1945 come prima cosa Ferro si era recato alla Federazione del Pci di via Natta di Como per salutare i vecchi compagni, primo fra tutti il segretario Giovanni Aglietto, futuro segretario di Togliatti. Lì, sulle scale della Federazione, aveva incontrato, molto preoccupato per non essere stato riconosciuto da nessuno, Aldo Lampredi disperatamente alla ricerca di qualche compagno che lo potesse “accreditare” presso il Partito e che, in tale veste, lo accompagnasse a Bonzanigo nella casa dei coniugi De Maria dove erano custoditi il duce e la Petacci. La carta vincente fu Mario Ferro. Ferro e Lampredi erano amici da lunga data. Nel 1942 fu infatti proprio Lampredi, fra i responsabili del Centro esteri del Pci in Francia, a decidere che i primi comunisti italiani (fra cui Mario Ferro) rientrassero in Italia per fare opera di proselitismo e di propaganda in attesa che il regime cadesse.

Quando Valerio accompagnò Lampredi fino a Dongo, ad arrestare Mussolini…

L’Ovra non era stata a guardare e, come detto, appena Ferro arrivò a Ventimiglia, fu individuato, seguito e arrestato una volta giunto a Milano. Fu quel forte sodalizio a permettere a Ferro di sbrogliare la intricata matassa. “Garantisco io” disse ad Aglietto. Da quel momento iniziò la fase più delicata della missione. Ferro accompagnò Lampredi sino a Dongo mentre “il colonnello Valerio” raggiunse la zona in modo autonomo. I due con Michele Moretti, “Pietro”, commissario politico della 52a brigata “Garibaldi” “Luigi Clerici”, conoscitore dei luoghi, portarono a compimento il loro programma. Ferro non andò a Bonzanigo e a Giulino di Mezzegra. Restò a Dongo. Si occupò d’altro. Affari ugualmente delicati. Con Luigi Canali, “il capitano Neri”, identificò ed interrogò sommariamente nel municipio di Dongo gli altri gerarchi, da Pavolini a Zerbino, a Mezzasoma, a Ruggero, a Bombacci, e a tutti gli altri. Redasse brevi verbali di quell’atto che non ritrovò mai più malgrado negli anni successivi li avesse cercati. Assistette alle 16 del 28 aprile alla fucilazione sul muretto affacciato sul lago. Poi alle 18 prese posto sul camion che aveva a bordo i corpi dei giustiziati, diretto a Milano. Un viaggio irto di ostacoli, compreso quello imprevisto del blocco alla Pirelli di Milano della colonna partigiana da parte di altri partigiani “bianchi” insospettiti da quegli uomini laceri e stanchi presi per fascisti disperati. Lo spettacolo dei cadaveri sotto il tendone del grosso automezzo chiarì per fortuna l’equivoco. Qualche anno fa per ricordare i compagni dell’esilio francese ma anche il “dopo” scrisse un bel libro Diario di un antifascista. Dall’Italia alla Francia alla Svizzera fino a Dongo 1919-1945, Teti Editore, con prefazione di Raffaele De Grada, in cui elencò in sintesi la sua vicenda personale e dove in una preziosa appendice raccolse brevi curricula dei personaggi comunisti. Venne a parlare anche a Varese accolto da un bel pubblico. In quell’occasione mi donò una copia del libro con una dedica semplice ma che leggo con nostalgia: “Al caro Franco con la massima stima, Mario Ferro. 18 novembre 1999”. Il “dopo” per Ferro fu all’altezza dell’affidabilità e del rigore del personaggio. Il Pci gli aprì le porte della Radio di corso Sempione, con Giorgio Veronesi e Raffaele De Grada, per preparare il primo bollettino di informazioni della sera del giornale radio. Non solo: Ferro ebbe più tardi l’incarico di gettare le basi della Casa editrice “l’Unità” che pubblicò numerosi testi sul marxismo con la collaborazione di Albe Steiner, Mario De Micheli, il pittore Gabriele Mucchi e poi quello di amministratore del Fronte democratico popolare. L’ultima tappa, che percorse sino quasi alla fine dei suoi giorni, con passione e competenza, chiamato da Giulio Cerreti, vecchia conoscenza dei tempi di Parigi, fu quella della Lega nazionale delle Cooperative e Mutue di cui era ispettore e dirigente.

La sua vita nel Diario di un antifascista

 

di Giorgio Cavalleri

 

Con Mario Ferro se n’è andato un singolare interprete del Novecento. Nato a Rovigo il 23 novembre 1919 da una famiglia di tradizione socialista ed antifascista sin dal sorgere della dittatura (il padre era un artigiano sarto che lavorava con due macchine da cucire in una camera di casa e la mamma una fervente cattolica ma non bigotta) Ferro ha avuto per qualche decennio una vita particolarmente intensa. Impegnato già a 16 anni contro il regime, esule in Francia dove era stato in contatto con il Centro esteri del Pci, imprigionato per undici mesi nelle carceri di Genova e Roma, rifugiato in Svizzera tra l’autunno del 1943 ed il 27 aprile 1945, vissuto nel dopoguerra in varie città italiane, era approdato poi definitivamente a Como come vice presidente della Federazione provinciale delle Cooperative. Una decina di anni orsono con efficace e coinvolgente semplicità, aveva ricostruito le sue vicende nel volume Diario di un antifascista. Tante le pagine intense della sua autobiografia, dal primo arresto subito a Milano all’espatrio clandestino nel 1938, alle molte e precarie esperienze lavorative fra Parigi e la Francia di Vichy talvolta in un forzato isolamento, dalla ripresa dei contatti con il suo Partito al rientro nell’Italia liberata, sino all’inattesa e del tutto imprevista presenza all’epilogo fascista del 28 aprile 1945 a Dongo. Senza retorica né tantomeno personali risentimenti, Mario Ferro ha documentato una storia non facile di una minoranza coraggiosa che ha osato opporsi con fierezza alla dittatura e ha contribuito con il sangue alla rinascita dell’Italia. Di particolare interesse il capitolo dedicato all’ “epilogo dell’alto lago”. Nella prima mattina di sabato 28 aprile 1945 Ferro giunge infatti a Como proveniente dalla vicina Confederazione e, salendo le scale dell’ex Casa del Fascio (nuova sede del Pci) incontra un amico dell’esilio francese, quell’Aldo Lampredi “Guido”, uomo di fiducia di Luigi Longo, affiancato a Walter Audisio, “il colonnello Valerio” nella sua delicata missione. Così Mario Ferro andrà a Dongo con loro. Quando nel primo pomeriggio, la Fiat 1100 guidata da Giovanni Geninazza con “Valerio” e Michele Moretti, si dirige verso Giulino di Mezzegra, Lampredi lo vorrebbe con loro ma l’auto è già al completo……. Ferro ricorda con sobrietà quei drammatici lontani eventi, nulla concedendo alle tante assurde e fantasiose ricostruzioni a tavolino fatte decenni dopo da tanti, troppi, “ricercatori”. Una sobrietà ed una modestia che lo hanno sempre contraddistinto nel corso della sua esistenza, spesa a sostegno della democrazia e della libertà.

Triangolo Rosso, gennaio/aprile 2007

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