Triangolo rosso
Le nostre storie
Enrico Berté racconta ai ragazzi la sua vicenda da militare a internato
“Applaudivo alla guerra, poi divenni il 66655 nel lager nazista”
L’ex prigioniero militare Enrico Berté racconta a 83 anni nelle scuole la storia drammatica degli Internati militari italiani (I.m.i.). L’orgoglio e la sofferenza, i morti e i sopravvissuti, la speranza e il ritorno. Architetto e artista, nei suoi numerosi libri di poesia ricorda, oltre 60 anni dopo, le tappe di un’esperienza tragica che i giovani ascoltano con vivo interesse e partecipazione.
La Giornata della Memoria che si è svolta nell’aula magna dell’Università dell’Insubria di Varese, gremita di studenti, è stata anche l’occasione di una conversazione con l’architetto Enrico Berté, che, con il professor Romolo Vitelli, già docente di storia e filosofia al liceo classico della città, è stato uno dei protagonisti dell’iniziativa.
Venni catturato dai tedeschi - ricorda Berté – a Bressanone il 9 settembre 1943, all’indomani dell’armistizio. Impensabile ogni resistenza. Avevo 19 anni.
La mia prigionia è durata fino al 12 aprile 1945, giorno della liberazione da parte delle truppe americane. I ricordi tristi e dolorosi li ho trasmessi nei miei libri di poesie e nei miei disegni in essi inclusi. Gli internati militari italiani sono stati umiliati, trattati come animali, privati di quel minimo di cibo e di trattamento umano come stabilito per i prigionieri di guerra dalla Convenzione di Ginevra e dalla Croce Rossa Internazionale. Eravamo considerati dei traditori. Ogni giorno ero in balia della sorte. Ci portavano tra urla e percosse dove occorreva mano d’opera per sgomberare macerie, per scaricare vagoni di carbone, per portare sacchi di cemento, per riparare i binari dei treni e per lavorare in condizioni inumane e disagevoli in qualche fabbrica, secondo il fabbisogno.
Molti dei tuoi compagni sono morti. Tu come ti sei salvato? Che cosa ti ha aiutato a sopravvivere?
Molti dei miei compagni non sono tornati stremati dalla fame, dal freddo e dalle
malattie. Il mio amico più caro Giorgio Moroni, operaio di Milano, è morto tra mille sofferenze di leucemia pochi anni dopo il ritorno. Alfredo Ragazzi di Como è pure deceduto a distanza di qualche anno, per i postumi della prigionia. Di tanti altri non so più nulla. Io mi sono salvato forse per due fattori. Primo perché ero di costituzione fisica ridotta rispetto ad altri con corporature più robuste e che quindi avevano bisogno di maggiore calorie per sopravvivere. Secondo, perché provengo da una famiglia di credenti e la fede mi è stata di conforto e mi ha sorretto nei giorni più difficili, dandomi la forza per lottare e sopravvivere. Anche a Schandelah, dove ho visto morire deportati di varie nazionalità, stroncati dal trattamento brutale, dai patimenti, mi bastava fare il segno della croce, di nascosto dalle SS per ritrovare la speranza. Avevo un’acuta nostalgia della mia famiglia ma mi confortava sapere ch’ero l’unico dei familiari ad essere prigioniero. Infatti per fortuna mio padre e mio fratello erano a casa al sicuro.
Vuoi raccontarci brevemente il tuo ritorno ? Come sei stato accolto? Come hai trovato l’Italia?
Dopo la liberazione da parte delle truppe americane il 12 aprile 1945, ho dovuto aspettare fino al 10 luglio per il mio turno su una tradotta che mi ha portato a Pescantina presso Verona, dopo una sosta di alcuni giorni a Mittelwald per la disinfestazione, quindi in treno fino a Milano ridotta in macerie, dove sono arrivato il 18 luglio. Finalmente a casa con mio padre, mio fratello e mia sorella! La sera ero a Malnate. L’incontro con mia madre, mia nonna e i numerosi parenti ed amici nella stazione è stata una festa molto commovente. Dopo una faticosa ripresa fisica (pesavo 35 chili) ero tornato quasi una persona normale; ho continuato gli studi interrotti per tre anni e studiando di giorno e di notte sono riuscito a laurearmi in poco più di cinque anni, senza andare fuori corso. Spesso la commozione aveva il sopravvento e versavo lacrime sulle dispense e sui fogli da disegno, a causa talvolta delle difficoltà nello studio, ma spesso sconvolto dai ricordi della guerra e della prigionia; sovente pensando ai cari compagni “sommersi”, che non si sono salvati.
In seguito agli avvenimenti tragici vissuti da ex deportato I.m.i. hai ricevuto qualche onorificenza?
Troppo a lungo i governi del nostro Paese hanno sottovalutato o addirittura ignorato la tragedia degli Imi, la loro ammirevole resistenza, le loro sofferenze. Soltanto nel 1964 a Roma, Ferruccio Parri, nel discorso pronunciato per l’inaugurazione del decimo congresso dell’Associazione nazionale ex internati ha ricordato gli I.m.i. e reso omaggio alla loro scelta coraggiosa. Successivamente sono stato nominato Cavaliere della Repubblica. E in seguito mi è stata anche concessa dal ministero della Difesa la medaglia “Volontario della libertà”, che ho ricevuto il 4 gennaio 1988, cioè 43 anni dopo il ritorno in patria. Poveri Giorgio ed Alfredo e tanti altri I.m.i. privati di qualsiasi riconoscimento!
Un posto importante oggi, accanto al lavoro di architetto, riveste la tua vasta e variegata attività di poeta. Sono molte le poesie che richiamano, accanto a momenti sereni e felici, la tua dolorosa esperienza di ex-internato. Scrivi – come ricordi - perché sei stato risparmiato per parlarne? Perché senti il bisogno di tramandare la memoria?
Ho pubblicato sette libri di poesie e, se mi resterà qualche anno ancora, spero di pubblicare l’ottavo. Anche il prossimo conterrà una serie di poesie dedicate alle memorie della guerra e alla sofferenza della prigionia. Perché noi sopravvissuti abbiamo il dovere di scrivere e parlare affinché non si dimentichi ciò che è stato e perché i giovani possano cogliere quel messaggio di pace tra i popoli e contro ogni forma di razzismo. Il 10 giugno del 1940 (dichiarazione di guerra dell’Italia fascista alla Francia e all’Inghilterra), in piazza del Duomo a Milano ho partecipato anch’io, gridando, in mezzo ad una folla oceanica esultante: “Guerra! Guerra!”. È uno dei miei rimorsi più grandi.
Quali tra le tante tue poesie ami di più? Sfogliando la tua ricca produzione mi ha colpito molto: Canzoncina di Terezin, potresti raccontare come è nata?
L’ho scritta di getto una notte dopo una specie di incubo. Avevo studiato la storia di Theresienstadt o Terezin, campo di sterminio di circa 15.000 bambini ebrei, per parlarne agli studenti di classi elementari e medie nel salone della Coop di Malnate che, con l’aiuto dell’Anpi, aveva predisposto la mostra di fotografie, disegni e poesie di quei bambini. Dopo circa una settimana d’incontri, ho sognato di essere anch’io un bambino ebreo nella l’ex fortezza di Terezin.
Nelle poesie, ai versi – come è stato scritto, “fanno da preziosi compagni numerosi tuoi bellissimi ed evocativi disegni,” che permettono all’occhio di intravedere a posteriori la crudeltà della disperazione. In quei disegni, “sembra che la voce del poeta e la mano dell’artista visivo vogliano evocare entrambi una possibile rivincita del Bene contro il Male”. È così?
Sì è così! Disegni e schizzi sono autobiografici e ricordano momenti tristi e dolorosi vissuti nei vari lager dove sono stato e particolarmente nel campo di lavoro forzato di Schandelah. Ho voluto riportare quel senso di gelo e solitudine. Tuttavia io ero certo della rivincita del Bene sul Male ed ho sempre sperato nel ritorno alla libertà. Mi è particolarmente cara Il cielo a testimone, dedicata ai deportati caduti a Schandelah.
Le tue poesie figurano in diverse antologie e riviste culturali. Hai vinto numerosi premi letterari. In particolare nel 1991, il “Lions Milano al Cenacolo Vinciano” e nel 2006, mentre presentavi al pubblico di Malnate la tua ultima “fatica poetica”: Momento magico hai ricevuto la targa dell’Associazione per il premio “Librex Montale”. Qual è il tuo ricordo di quella bella serata?
Quando Paolo Tempo, presidente responsabile del premio Librex Montale, mi ha assegnato la targa, ero sorpreso e l’unica cosa che ho saputo dire è stato, “ma io non la merito”. Ciò perché ho un grande rispetto della Poesia con la P maiuscola. Tuttavia ne ero lusingato e mi ha fatto molto piacere.
Spesso vai nelle scuole a parlare della tua esperienza. Perché lo fai? Come reagiscono i giovani al racconto della tua vicenda e allo sterminio in Europa in genere?
Noi sopravvissuti siamo ormai in via d’estinzione. Essendo della classe 1924 ero uno dei più giovani Imi. Anche se talvolta è faticoso e commovente io sento il dovere morale di andare nelle scuole a raccontare le mie esperienze per due ragioni. La prima, perché i libri scolastici di storia non raccontano tutta la verità o la raccontano in un modo superficiale. La seconda ragione è perché l’incontro diretto tra i sopravvissuti e gli studenti è utile alla comprensione di quelle vicende più di qualsiasi lettura e alla fine i giovani pongono domande intelligenti e pertinenti sull’intera problematica dello sterminio, su quella che tu spesso definisci, negli incontri, con un’espressione del filosofo Adorno, come la più grave ”rottura d’umanità.” Anche quest’anno in occasione del Giornata della Memoria sono stato invitato insieme a te a raccontare agli studenti la mia vita di deportato e ad alimentare l’impegno a non dimenticare. Ero il numero 66655. Prima di parlare ai ragazzi mi faccio dare i loro libri di storia e sempre con dispiacere devo constatare che alla tragedia dei circa 600.000 Imi sono riservate soltanto poche righe. Devo tuttavia sottolineare la mia soddisfazione, ed il mio compiacimento e penso che anche tu sia dello stesso avviso, per la partecipazione attenta e commossa dimostrata durante i nostri incontri. Sono rimasto colpito dall’attenzione partecipe durante i filmati sullo sterminio, e soprattutto dell’interesse quando ho mostrato loro la rara documentazione che sono riuscito a portare in Italia nel 1945, dopo la liberazione, nonostante le numerose perquisizioni subite dalle SS nel campo di Schandelah e dai soldati della Wehrmacht negli altri lager. Dapprima al liceo classico statale “E. Cairoli” di Varese, poi alla biblioteca di Ispra, e a quella del comune di Locate Varesino, all’Università degli Studi dell’Insubria di Varese, al liceo statale Marie Curie di Tradate, alla scuola media di Ferno e ancora in aprile alle medie di Ispra, ho apprezzato la partecipazione attenta di centinaia di giovani e meno giovani.
Gli studenti del corso A, del liceo classico “E. Cairoli” di Varese, serbano un vivo ricordo della tua testimonianza, in occasione della preparazione dei due viaggi d’istruzione a Ravenna, Carpi- Fossoli; e Praga, Mauthausen (Austria) e Terezin (Rep. Ceca). Che ricordi hai quell’esperienza?
Uno dei ricordi più belli. L’attenzione con la quale mi hanno ascoltato, la preparazione che avevano acquisito sulle tematiche dello sterminio, le domande che mi hanno rivolto, le espressioni dei loro volti quando ho raccontato e mostrato loro rari documenti, è stato per me emozionante.
Di fronte alla crescente violenza, a tanto fanatismo religioso, al risorgente antisemitismo e a tanto “bullismo” tra i giovani, non pensi che la famiglia, la società civile e la scuola debbano adoperarsi e cooperare con le proprie competenze e responsabilità, per arginare questo grave fenomeno? Come vuoi concludere questa conversazione?
Dopo essere diventato un uomo libero e non più l’Imi 66655, mi chiedo ancora oggi, trascorsi più di sessanta anni : “Ma gli uomini che cosa hanno imparato dalle tragedie legate all’ultima guerra mondiale, ai lager, ai gulag, all’Olocausto, ai bombardamenti aerei, alle bombe atomiche e alle guerre civili?” Niente? Alcune delle stesse tragedie tuttora incombono sull’umanità. L’uomo dimentica e Caino è più forte di Abele? No! Come a Schandelah, ancora oggi ho fede e speranza, nelle giovani generazioni, nelle famiglie, nella scuola e nella società civile che, insieme possano creare una società pacifica più umana e giusta. In altre parole credo che si saprà porre la fratellanza umana al di sopra di qualsiasi differenza di colore, di religione, o di cultura.
Testimonianza raccolta da Romolo Vitelli
Chi erano gli I.m.i.
Dopo l’8 settembre ben seicentomila soldati italiani internati in Germania
La storia di Enrico Berté non è dissimile da quella dei 600.000 militari italiani catturati, nel 1943 all’indomani dell’8 settembre, dai tedeschi ed internati nei lager. Ad Enrico Berté venne chiesto, così come agli altri soldati italiani abbandonati a loro stessi dal re e da Badoglio, fuggiti lasciando l’esercito allo sbando, se aderire alla neonata e fascista Repubblica Sociale di Salò “per salvare – come si diceva facendo ricorso ad una consunta demagogia - “l’onore della Patria”, che però era stata già consegnata dagli stessi fascisti al padrone tedesco. Si trattava di scegliere se tornare a combattere al fianco dei tedeschi, o essere considerati dei traditori e trattati di conseguenza. Era un grande dilemma, ma dei tanti militari interpellati, solo un’esigua minoranza aderì. La stragrande maggioranza rispose, dicendo il suo “Nein” chiaro e forte e tra questi Enrico Berté, affrontando volontariamente con dignità la prigionia, piuttosto che combattere nuovamente al fianco dei nazisti e dei fascisti. La testimonianza che abbiamo raccolto si ripropone di contribuire alla conoscenza di un’insolita resistenza, che giustamente Alessandro Natta definì in un suo libro, L’altra Resistenza. Come dice Vittorio Bellini in Lezioni sulla deportazione (a cura di Giovanna Massariello Merzagora, Aned Fondazione della Memoria della Deportazione, Franco Angeli, 2004): Fu una lotta disarmata, senza altre armi che la dignità di uomini e la fedeltà di militari. Essa completa con quella armata delle brigate partigiane e quella inerme, civile ed operaia delle staffette per lo più femminili, una triade (tre resistenze in una), che ha coronato l’unità dell’ancora giovane e indivisibile Italia”.
Triangolo Rosso, gennaio/aprile 2007