Triangolo rosso
Antonino Morabito
Genova-Bolzano e ritorno
Ricordi di un partigiano deportato nel Lager delle SS
PREMESSA
Antonino Morabito, classe 1925, è scomparso nel 2005, a ottant’anni. Nato a Genova il 7 luglio, non aveva ancora vent’anni quando fu arrestato con i partigiani, nel settembre del 1944. Deportato il 7 ottobre dello stesso anno nel Durchgangslager di Bolzano, vi fu registrato con il numero di matricola 4866. Dal Lager principale di Bolzano Morabito fu quindi trasferito alla fine di novembre nel sottocampo di Vipiteno. E di lì, ancora, alla fine di marzo, in Germania, dove alla fine della guerra fu liberato dall’Armata Rossa. È stata la figlia Luciana, all’indomani della sua morte, a raccogliere questi fogli di memorie del padre che pubblichiamo, alla vigilia del 25 Aprile 2007, per rendere onore a Antonino Morabito e a tutti quelli che dai campi nazisti non sono tornati. Il testo è stato lasciato come lo scrisse l’autore. I titoli e le note sono di Luciana Morabito e di Dario Venegoni. In copertina, una foto dell’autore nel dicembre 1945.
INTRODUZIONE
Mio padre cominciò a scrivere queste pagine alcuni anni fa quando una grave forma di cardiopatia dilatativa lo costrinse a una permanenza forzata in casa. Non scrisse mai in maniera continuativa perché ormai anche i gesti più banali erano diventati faticosi e d’altronde non volle mai dettare a qualcuno i suoi ricordi. Se lo avesse fatto, il testo sarebbe sicuramente risultato più lungo e completo. Da anni desiderava raccontare in forma scritta la sua storia di partigiano e deportato, ma gli era sempre mancato il tempo. Il lavoro – era titolare con il fratello Bruno di una ditta che produceva tende da sole – lo aveva distolto dai suoi progetti. Possedeva solo la licenza elementare, ma lesse sempre molto, soprattutto letteratura e politica. Fu un uomo amato da tutti e per una serie di circostanze diventò anche amico di un ufficiale tedesco che alla fine della guerra restò a Genova, facendo piccoli lavori e dormendo in un pollaio. Io sono nata nel 1951, ricordo quell’uomo: era alto, aveva capelli biondi cortissimi e indossava sempre un cappotto militare grigioverde. Della vita nel lager ricordava soprattutto gli insulti e gli sputi della popolazione di Bolzano quando i prigionieri uscivano per andare a lavorare e poi il freddo, la fame e le urla dei poverini che cadevano sotto le grinfie dei due ucraini . La notte precedente la sua morte, nel delirio, riaffiorarono probabilmente i ricordi legati al momento della cattura da parte dei fascisti: ”No! Non voglio! Lasciatemi stare! I fascisti!…” Due giorni prima sembrava aver riacquistato un po’ di forze: si era messo alla sua macchina da scrivere: ”Luglio 1944. Facevo parte a quel tempo del distaccamento Ravera della brigata Severino…..”
Luciana Morabito
INFANZIA
Sono nato il 10/10/1925 da una famiglia povera. Ero il quarto di cinque fratelli e due sorelle. Mio padre era netturbino e mia madre faceva i lavori di casa. In primavera mio padre preparava il terreno per fare l’orto: seminava insalata, pomodori, fagioli… Mangiavamo sempre minestrone e la domenica a mezzogiorno mia madre cucinava il sugo con “le ossette”, di sera c’era il brodo con il riso. Quando mio padre prendeva la paga, mia madre andava ad aspettarlo all’uscita dal lavoro e insieme passavano da un pastificio di via Canevari dove vendevano la pasta rotta di diverse qualità che, non potendo essere venduta così, costava meno e ne compravano 5-6 chili. Mia sorella Giustina andò per anni ad imparare a ricamare senza essere pagata; più tardi iniziò a lavorare in casa, ma chi le procurava il lavoro pagava poco… Mio fratello Leo a 12 anni andò a lavorare presso un fabbro di Via Moresco, sul greto del Bisagno, dove c’erano le officine di maniscalchi, vetrai, falegnami ed un deposito dell’O.E.G. Mio fratello Beppe veniva a scuola con me. Anna e Gioacchino erano ancora piccoli. Mio padre ci riparava le scarpe, ci tagliava i capelli e riparava i mobili rotti. In estate di sera lo aiutavo nell’orto: andavo nel rio sotto casa e prendevo due latte di acqua, poi le infilavo in una stanga e le portavo in spalla. Una sera scivolai da un’altezza di circa tre metri tra il distacco della casa ed il muro di sostegno dell’orto, rompendomi una gamba. Nessuno lì per lì si accorse della mia assenza; per fortuna dopo un’ora passò un amico di mio padre che mi vide e chiamò aiuto. Allora arrivò tanta gente, chiamarono un’ambulanza della Croce Verde e mi portarono all’ospedale Pammatone in Portoria, poi distrutto dai bombardamenti. L’ambulanza era un carro a due ruote trainato a mano e ricoperto da un telo bianco. Mi ricordo di una suora che al mattino mi portava pane e latte. La gamba era ingessata e potevo camminare solo con l’aiuto delle stampelle. Dopo un mese mi tolsero il gesso e mi mandarono a casa. Mio padre mi costruì una stampella di legno e piano piano ripresi a camminare. Alla fine dell’anno scolastico, essendo di famiglia numerosa, avevo diritto a frequentare i campi solari presso il Parco di Villa Gambaro in Albaro. Qui si mangiava bene, si poteva giocare e studiare dentro casette di legno in cui erano sistemati tavoli e panche. Le cuoche cucinavano al primo piano di una di queste costruzioni e noi mangiavamo sotto a dei tendoni fissati a telai di ferro. Il parco era ricco di pini marittimi carichi di pigne. Noi bambini raccoglievamo quelle che erano cadute e ne prendevamo i pinoli. Nel 1937, finite le elementari, andai a lavorare come ragazzo di bottega presso una drogheria-pasticceria in via Nizza. Il proprietario si chiamava Ghilarducci. Lui e la moglie erano toscani e avevano due figlie. La prima volta che mi vide, mingherlino e con la testa rapata, mi disse: “Prendi pure tutto quello che vuoi!!!” Ma dopo due settimane mi raccomandò di mangiare un po’ meno perché altrimenti lo avrei mandato in rovina. Come compenso non mi davano soldi ma, una volta alla settimana, un etto di caffé ed un chilo di zucchero. Al mattino mi alzavo presto perché il percorso da Quezzi-Pedegoli (dove abitavo) a Via Nizza era lungo. A mezzogiorno mangiavo un panino. La drogheria era la succursale della famosa ditta Bardola e Crastan sita in via XX Settembre accanto al teatro Margherita: il mio compito era portare i rifornimenti da un negozio all’altro con una cassetta di legno. Ghilarducci era un bell’uomo e lo venivano a trovare molte donne. In particolare una certa Viola. Si appartavano nel retro e ne uscivano dopo una ventina di minuti; poi andavano a prendere un caffé. La donna se ne andava sempre con un pacco pieno di ogni ben di Dio! A fianco della drogheria c’erano due belle ragazze che gestivano un negozio di frutta e verdura. Io le aiutavo a mettere le ceste dentro la bottega. Una mattina vidi all’interno della cesta una busta di tela fatta come un portafogli, la presi e la infilai sotto la maglia. Dopo qualche minuto arrivò il mio principale, aprì il negozio e cominciai a fare le pulizie. Mi infilai nel sottoscala per prendere l’acqua e aprii la busta: c’erano tessere fasciste, una foto di Mussolini con dedica e 4.280 lire. Mi misi i soldi in tasca ed il giorno dopo infilai la busta in una cesta. Quella sera, tornato a casa, diedi a mia madre 4.000 lire e tenni per me il resto. Dopo tre giorni mio padre portò me ed i miei fratelli in un negozio di abbigliamento in via Della Maddalena. Comprò quattro cappottini per noi piccoli ed un paio di pantaloni e di scarpe per Beppe. Mia madre pagò la bottegaia presso cui comprava a credito ed io con i soldi che mi ero tenuto mi comprai per molto tempo panini con la farinata, torta di riso o di bietole…. Qualche volta, con un ragazzo che lavorava lì vicino in un’osteria, andavo a mangiare in una trattoria (in via Caffa vicino a piazza Tommaseo) dove di solito ordinavamo spezzatino; la proprietaria però aggiungeva sempre qualcosa gratis a quello che ordinavamo. Nel 1939 Ghilarducci venne richiamato dalla milizia e mandato in Africa dove, come seppi alla fine della guerra, morì. Il negozio fu chiuso dopo un mese. Intanto avevo compiuto 14 anni, feci il libretto di lavoro e mi iscrissi al collocamento. Dopo tre giorni iniziai a lavorare presso una ditta che fabbricava tende da sole i cui proprietari erano Parodi e Pieri. Il mio lavoro consisteva nel togliere le bavature dalle fusioni di ottone. I due titolari avevano diversi fucili e munizioni: l’ing. Parodi era un seniore fascista, l’altro un ufficiale dell’esercito e bisticciavano sempre per motivi politici. Il terzo giorno di lavoro capitò che il corriere che con un carro trainato da un cavallo faceva i trasporti, si dimenticasse di ritirare un tubo lungo 4 metri in via Delle Palme a Nervi dove alcuni operai stavano montando le tende presso l’omonimo albergo. Così mandarono me e feci a piedi il tragitto andata e ritorno (circa 4 ore). In questa officina eravamo in molti a lavorare. Il capo operaio, Adriano, era poco socievole e quando faceva i lavori di saldatura si metteva in disparte, forse per evitare che, vedendolo lavorare, imparassimo. Maccaferri era gentile con tutti e ci insegnava a lavorare. Valfore era addetto alla zincatura ed Alvisi era un ragazzo la cui famiglia benestante era andata in malore. Abitava con la madre ed il padre nella casetta del custode di Villa Ravano. C’era anche un ragazzo barese che non sapeva parlare in italiano. Ricordo che nel mese di aprile del 1941 andai a mettere le tende nella casa del comico Gilberto Govi in un lussuoso appartamento di piazza della Vittoria. Tra i clienti c’era anche il commendator Parodi della Moto Guzzi. A quel tempo le tende da sole erano un lusso, ma i miei principali se le facevano pagare bene. Nel 1942 gli operai furono richiamati alle armi, il ragazzo barese se ne andò e rimanemmo io ed Alvisi. Era in costruzione il Palazzo Gaslini in piazza Dante e la ditta aveva preso l’appalto per fabbricare le tende oscuranti per tutto l’edificio, anche se cominciava a scarseggiare il materiale. Accanto all’officina in cui lavoravo c’era una baracca. All’interno c’erano due vasche per la zincatura, una carrozza antica e molte uniformi di carabinieri ormai in disuso. Il proprietario si chiamava Leoni (1) e possedeva anche un magazzino pieno di scaffali stracolmi di panno militare. A volte gli facevo delle commissioni e lui mi dava 5 lire d’argento. Il signor Leoni era ebreo. Verso la fine del ’43 venne denunciato, dietro compenso, da Pieri e fu mandato in campo di concentramento in Germania dove morì. Poi il mio principale ruppe i lucchetti dei suoi magazzini e vendette la merce. Intanto le ordinazione di tende da sole diminuivano e così Pieri acquistò l’attrezzatura per fabbricare lanterne da bordo in rame. Andava a comprare i vetri a Firenze. In officina ero rimasto solo, ma veniva un vecchietto che mi insegnava a saldare con lo stagno. Poi mancò anche il rame e così dovemmo accontentarci di lastre di zinco. Infine fui licenziato perchè non c’era più lavoro.
DOPO L’8 SETTEMBRE
L’8 settembre 1943, giorno della dichiarazione dell’armistizio, l’esercito italiano si disintegrava completamente. I Tedeschi occuparono l’Italia, il re scappò con 5 motovedette cariche di beni dello Stato ed i fascisti tirarono su la testa. A Quezzi le persecuzioni delle brigate nere cominciarono ai primi di novembre. Tra le prime denunce quella di uno squadrista, un certo Del Bianco, che la domenica era solito passare con i figli – tutti vestiti di nero – su un’auto scoperta con autista. Il 25 luglio i mobili della sua casa in piazza Fereggiano erano stati buttati fuori dalla finestra ed incendiati. Una sera si presentò in casa mia una squadra di metropolitani (P.S). Erano comandati da un certo Fedde, un conoscente di mio padre. Quando si incontravano andavano sempre a bere qualcosa insieme e facevano anche qualche partita a carte. Io dormivo, mio padre mi svegliò. Il capo disse che si trattava di un semplice controllo e che sarei stato rilasciato il giorno dopo, ma – oltrepassato il ponticello – mi misero le manette. Arrivati in piazza Fereggiano mi accorsi che dentro l’abitacolo di legno della fermata del tram c’erano Gia (un amico), quattro ragazzi della mia età e tre uomini che conoscevo. Uno di questi era tra quelli che avevano buttato dalla finestra i mobili del fascista Del Bianco (che io riconobbi perché, andando a lavorare, mi ero fermato a guardare). Questo tizio aveva fatto la spia per salvarsi ed infatti fu liberato dopo tre giorni. Ci portarono in Questura, in celle separate. Alla fine della guerra seppi che eravamo stati arrestati perché accusati di furto aggravato, saccheggio e devastazione. Il Del Bianco aveva infatti detto che gli erano stati rubati tre chili d’oro tra gioielli e monete. Mi mandarono al carcere di Marassi e dopo dieci giorni fui rilasciato. Verso la fine di novembre del ’43, passeggiavo con il mio amico Aldo per Via Del Piano. Andavamo dietro a due ragazze della nostra età. Queste erano entrate in un negozio e io dissi che, se volevamo attaccare discorso, sarebbe stato meglio entrare anche noi. Ma Aldo pensava che fosse meglio aspettare fuori, e così ci appoggiammo alla ringhiera del Bisagno in attesa di vederle uscire. Ad un tratto arrivò un’auto di grossa cilindrata con quattro persone a bordo. Scesero tre uomini con la pistola in pugno, si qualificarono e ci fecero salire: ci portarono al Commissariato di Via Tortosa. Ci fecero accomodare in una camera con la porta aperta e così potemmo vedere un ragazzo della nostra età picchiato con calci e pugni al viso da due poliziotti. Senza dirci una parola, dopo 15 minuti, ci rifecero salire sull’auto e ci portarono in Questura in un camerone pieno di persone: ladri comuni, borsaioli, contrabbandieri di sigarette che, non essendo stati ancora perquisiti, cercavano di liberarsi dei pacchetti gettandoli nelle celle di fronte attraverso i cancello. Dopo una notte insonne, al mattino vedemmo arrivare dalla riviera di levante i famigerati Spiotta (fucilato alla fine della guerra al poligono di tiro di Quezzi), Faloppa, Righi (2) ed altri tre. Dopo 2 giorni verso le 17 arrivò il generale Bertone-Rossi. Era claudicante e si appoggiava ad un bastone: ricordo che aveva un monocolo all’occhio destro ed era accompagnato dal suo attendente. Era ancora ricercato alla fine della guerra. Mi rilasciarono dopo 10 giorni. Fino a gennaio del ’44 lavorai presso un’impresa che faceva blocchi di sbarramento in cemento armato sulla spiaggia di Chiavari. Si mangiava bene e si dormiva in una colonia in riva al mare. Altri operai dormivano in alcune aule della scuola. Poi rimasi senza lavoro perché ci licenziarono. Con i miei compagni ci vedevamo tutte le sere nella cascina vicino a casa in cui per sicurezza dormivo. Parlavamo di politica. Tra noi c’era un vecchio compagno che ci parlava di liberazione, di comunismo, di socialismo. (3) Io ero addetto al trasporto delle armi ai Gappisti, ma era un lavoro di poco conto. Avrei voluto andare in montagna, ma sino ad aprile non si sarebbe potuto perché l’organizzazione dei vari distaccamenti non era ancora pronta. Nel mese di febbraio fui avvicinato da un certo Rena Gardelli, il quale mi disse che in occasione del primo maggio bisognava innalzare una bandiera rossa sul forte dei Ratti sulle alture di Quezzi. La notte stessa partii per compiere l’azione con Mou (Boero). Salii su un torrione e vi legai la bandiera. Poi,con Aldo Faccio e Mario Lagomarsino, ripetei la stessa cosa in un piccolo stabilimento di via Fereggiano. Distribuivo anche manifestini antifascisti con Aldo che era un impiegato delle OEG. Un giorno eravamo su un tram in piazza Tommaseo. Una squadra di brigate nere fermò il mezzo e fece scendere i passeggeri. Il mio compagno mi affibbiò il pacco dei volantini. Fortunatamente riuscii a nascondermi dietro ad alcune persone, con passo lesto mi recai verso via Caffa e nel giro di un’ora mi ritrovai nella cascina in cui dormivo. Il giorno dopo vidi Aldo, mi lamentai del suo comportamento e gli dissi che non avrei mai più compiuto azioni con lui. Il 15 maggio del 1944 ci fu l’attentato al cinema Odeon (4). Ricordo due uomini che vi parteciparono: erano sulla cinquantina, alti, magri e con i capelli neri. Partirono da Quezzi e si diressero verso Borgo Incrociati. Qui entrarono in un portone e ne uscirono vestiti da soldati tedeschi. Il loro compito era fare da copertura a chi doveva mettere la borsa con la bomba alle 19,30.
IN MONTAGNA
Ci venne finalmente detto che, volendo, potevamo andare in montagna perché tutto era pronto. Dovevamo andare a Montoggio (20 chilometri da Genova) e, prima del ponte per Bromia, imboccare la strada per Gazzolo e – passate le prime due case sulla sinistra – cercare di Ninni. Allora, due giorni dopo alle cinque del mattino partimmo io, Italo, Bren, Ciuffa e Franco. Ci avviammo verso i monti di Quezzi e, attraverso salita Dell’Olmo, arrivammo a Sant’Eusebio. Scendemmo verso il Bisagno, raggiungemmo la sponda opposta ed arrivammo alla Croce di Creto. Sulla cima c’erano la batteria antiaerea presidiata dalla milizia fascista ed enormi fari di luce. Noi prendemmo un sentiero che ci portò dritti dritti davanti ad un gruppo di bersaglieri, tutti giovani come noi; facendoci coraggio passammo in mezzo a questi militari che probabilmente avevano più paura di noi e non ci dissero nulla. Sempre attraverso i sentieri raggiungemmo Acquafredda superiore, Tre Fontane e finalmente Montoggio. Ci avviammo verso la chiesa, nella zona alta del paese, e poi scendemmo verso Gazzolo. Incontrammo un uomo, gli chiedemmo di Ninni… era lui. Alla nostra risposta negativa se avessimo mangiato ci diede delle mele e poi, molto frettolosamente, ci indicò la strada. In due ore di ripidi sentieri arrivammo nel paese in cui c’era il distaccamento. Si fece avanti un signore elegantemente vestito, con un cappello color panna stile cow-boy, che si presentò come comandante “C.”. Con lui c’era il cognato “G.”. Erano di Busalla. C’erano anche una ventina di ex militari, e un gruppo di giovani del Lagaccio (quartiere popolare di Genova). Tre volte la settimana partivano dieci uomini per compiere delle azioni. Eccetto noi, tutti avevano soldi. Un giorno ci mandarono a prelevare un fascista a Montoggio. Di sera entrammo in azione. Era sul terrazzino di casa sua e parlava con altre persone. Ci avvicinammo e gli intimammo di venire con noi. Intanto le persone presenti si erano dileguate. Lo perquisimmo, aveva una pistola calibro 6,35. Arrivati al paese dove eravamo accampati ci rendemmo conto di alcuni cambiamenti. La sentinella – un omino piccolo piccolo chiamato Leone – era stato sostituito da una specie di gigante che si chiamava Buddu ed era di Montoggio. Alto circa 2 metri, aveva in mano un fucile mitragliatore e ci fece passare solo dopo 10 minuti di trattative. A Carsegli c’erano 5 ragazzi della nostra età, il nuovo comandante Sirio (un comunista operaio dell’Ansaldo), il commissario politico (pure lui comunista) Carletto Duè (ex alpino) ed altri due. Uno di questi si chiamava Ottavio, faceva il cuoco ed era scappato da una traduzione di detenuti da Genova verso Pisa in seguito ad un bombardamento. L’altro era un muratore antifascista di 62 anni. Subito il nuovo comandante ci fece consegnare l’arma al fascista prigioniero e lo lasciò libero. Poi ci disse che “C.”, il cognato ed altri cinque erano ricercati dai partigiani della VI zona della brigata Garibaldi, con a capo “Bisagno” (5), perché erano soliti derubare l’uomo che portava nei vari paesi il sale ed i tabacchi e poi rivendere la merce al mercato nero. Dopo due giorni ci venne ordinato di spostarci e così, caricati i muli, ci avviammo verso Pentema. Alla sera arrivammo davanti ad una chiesa circondata da aiuole ben tenute e vi ci accampammo dentro. C’erano delle panche rotte, alcune statue ed un crocifisso. Tutto era sottosopra; appoggiati al muro c’erano dei fasciamenti di legno. La mattina dopo un contadino di passaggio ci disse che quasi tutti i giorni venivano persone da fuori e portavano via il materiale che era nella chiesa. Restammo lì alcuni giorni, con poco cibo perché a Pentema nessuno ci dava da mangiare. Poi ci recammo, sempre attraverso i monti, verso il monte Antola al rifugio del Piccettu. Davanti c’era la casa di un contadino che viveva lì con la moglie e con la figlia. Intanto in località Laccio, al bivio che da una parte portava a Torriglia e dall’altro a Lavagna, vennero uccisi due tedeschi. Da quel momento cominciarono piccoli rastrellamenti da parte di nazisti e brigate nere. Ogni giorno arrivavano giovani e meno giovani. Arrivammo ad essere 35 e c’era un problema… il cibo. Un pomeriggio arrivarono un militare russo prigioniero che lavorava all’Ansaldo, un militare tedesco scappato con tutto il suo armamento e tanti altri. Il mattino dopo il comandante decise di andare a Bobbio per cercare del cibo. Dentro a un magazzino trovammo dei militari americani tirati a lucido, Bisagno, Canepa, Denis ed altri. C’erano farina, forme di formaggio, scatolame. Due cuochi stavano preparando il pranzo: lasagne con il pesto. Noi, malvestiti e con le scarpe rotte, eravamo fuori luogo in mezzo a quegli uomini che sembravano turisti. Ci diedero una ventina di chili di farina, un po’ di fagioli, alcune scatole di carne e tonno ed una piccola damigiana d’olio, ma non ci invitarono a mangiare con loro. Tornammo a Torriglia e, caricata la merce su un mulo, ci avviammo verso la base. Dopo due giorni arrivò l’ordine di andare al forte Diamante, sulle alture di Genova, a prelevare armi e munizioni. Partimmo di giorno attraversando il paese pieno di villeggianti che ci guardavano con sospetto. Come al solito, nessuno ci diede niente. Il forte Diamante era presidiato dalla milizia fascista. Il russo disarmò la sentinella ed entrammo; c’erano dei fascisti che giocavano a carte. Noi, tenendoli a bada, prendemmo armi e munizioni che caricammo sui muli. Sulla strada del ritorno incontrammo due uomini con due mucche. Il comandante ne riconobbe uno come ladro di professione e lo perquisì. Gli trovò addosso 800 lire, due anelli e due catene d’oro. Li legammo e ce li portammo appresso. In paese il comandante parlò del fatto con il padrone dell’osteria che riuscì a risalire ai derubati, cui consegnò la refurtiva. Poco dopo cominciò un via vai di gente: ci portarono cibo e vino. All’imbrunire ripartimmo verso la base, ma ci informarono che tedeschi, fascisti e mongoli con i cani lupo avevano iniziato i rastrellamenti. Una sera,verso la fine di agosto 1944, io e il russo eravamo di guardia rivolti verso Donnetta. Ad un certo punto capimmo che davanti a noi, tra i cespugli, c’erano dei militari; sentimmo sparare e rispondemmo con qualche fucilata. Con un balzo il mio compagno saltò sopra il muretto che avevamo alle spalle, ma quando fu il mio turno cominciarono a sparare colpi di mortaio. Una scheggia mi colpì all’anca destra, tuttavia lentamente riuscii a risalire verso l’Antola. Qui c’erano Bisagno e Denis a cavallo. Tra la confusione ci indicarono un sentiero da seguire e camminammo per due ore. Non si vedeva nessuno, solo una nuvola di fumo dalla casa del contadino che abitava davanti al nostro rifugio: i fascisti l’avevano bruciata. Io non potevo più camminare. Un compagno mi portò al Mulino Vecchio dove c’era un antifascista che aveva la macchina. L’uomo si vestì da camicia nera e mi portò all’ospedale psichiatrico di Quarto. Fui condotto nei fondi con l’aiuto di un infermiere. Verso le cinque del mattino arrivò il Prof. Daneo che mi prestò le prime cure. Il medico estrasse una scheggia che si era fermata vicino all’osso. Veniva a controllarmi due o tre volte al giorno. Dopo 8 giorni mi diedero dei vestiti decenti e di sera mi portarono vicino a casa mia. Andai subito nella baracca dove di solito mi nascondevo e rimasi fino a tarda notte; poi andai da mia madre che subito mi preparò da mangiare. Il giorno dopo venne a trovarmi Mario. L’intenzione era tornare subito in montagna e perciò presi appuntamento con lui: ci saremmo incontrati il mattino dopo alle 5,30. Alle 4 del 17 settembre venni invece svegliato da una raffica di spari: la mia baracca era circondata da 15 fascisti armati fino ai denti. Un partigiano, arrestato dalle brigate nere, mi aveva denunciato il giorno prima che io andassi la prima volta in montagna. I miliziani della Guardia nazionale mi presero di peso e dandomi calci e pugni mi portarono davanti alla casa dei miei. Mi fecero inginocchiare e un certo Cosmini Ercole estrasse la pistola e me la puntò alla tempia, ma una voce forte gridò: ”Non qui, prima ci divertiamo un po’”. Mi portarono in via San Nazaro, al primo piano di una ex scuola adibita a caserma della G.N.R. (Guardia nazionale repubblicana). La stanza era piena di repubblichini tra cui un bambino di 10/12 anni vestito da fascistello con il teschio sul fez. In mano teneva un moschetto e con questo cominciò a colpirmi. (6) Il comandante De Santis mi fece togliere maglia e scarpe. Io rimasi in pantaloni e canottiera e a turno cominciarono a colpirmi sui piedi con il calcio del moschetto e sul corpo con un quadrello di gomma cui era attorcigliato un filo elettrico. I piedi mi sanguinavano; volevano sapere dove fossero i miei compagni e che armi avessero in mano, ma io non dissi nulla. Verso le 2 arrivarono quattro fascisti che mi portarono in via Zara, anche qui in una scuola. Mi consegnarono ad un agente in borghese che mi portò nei fondi dove c’erano quattro o cinque celle con i cancelli alle porte. Si vedeva una grande pianura che arrivava a via De Gaspari. Il fascista mi disse di non fare lo stupido perché in quella piana avevano già ucciso e tumulato 5 partigiani ed io sarei stato il sesto. Rimasi in cella due giorni. Venivano a vedermi in tanti; qualcuno mi insultava, qualcuno mi diceva “Fatti coraggio!”. Il terzo giorno mi portarono al primo piano e mi fecero entrare in un ufficio dove era seduto il famigerato Faloppa. (7) Non mangiavo da tre giorni. Pure lui mi interrogò, ma non parlai. Ad un certo punto mi disse: ”Vedrai che ora parli”. Consegnò un foglio a due guardie e mi fece portare alla Casa dello studente. Una delle guardie, che era un cantore delle squadre di canto genovesi, mi disse in siciliano: ”Non cercare di scappare perché ti spariamo”. Per tutta risposta gli dissi di parlare pure in genovese perché tanto lo avevo riconosciuto. Alla Casa dello studente mi consegnarono ad un ex carabiniere di nome Risi: lo avevo già conosciuto in questura: mi accompagnò nei fondi, in una cella che sarà stata un metro per un metro. Al centro c’era una sedia con un pezzo di pane secco ed in un angolo un fiasco con un po’ d’acqua. Il mattino dopo mi presero e mi portarono in un salone enorme e spoglio, ai muri le foto di Hitler e Mussolini. Ad una enorme scrivania era seduto un ufficiale delle SS che teneva in braccio un cagnolino bianco. Si alzò, posò l’animale in terra (che mi si avventò alla gamba destra) e mi disse: ”Tu partigiano?”. Io feci un gesto con la mano, lui mi diede uno schiaffo che mi mandò a terra. Poi chiamò il carceriere e mi fece condurre a Marassi, IV sezione, con un camion che era posteggiato sotto l’androne delle scale. Mi misero in una cella con un certo Gonzatti Franco “Leo” e con un impiegato del consolato rumeno titolare con la moglie di una cartoleria in via Fereggiano. Seppi, a fine guerra, che era stato incarcerato su ordine dell’amante fascista della moglie. Due giorni dopo fui messo in un camerone in cui c’erano detenuti politici, ladri ed un fascista dei battaglioni M che, arrestato per rapina, si vantava dei misfatti compiuti in Yugoslavia (lui ed i suoi camerati avevano bruciato paesi ed ucciso molte persone), un antifascista impiegato in porto, un tenore spagnolo che cantava sempre la stessa aria: ”Una furtiva lacrima”. Una notte uno dei detenuti buttò addosso al fascista una coperta e lo massacrò di botte. Il mattino dopo fu trasferito. Il vitto consisteva in una specie di brodaglia di verdura con vermi. Stetti due giorni senza mangiare e poi cedetti. La mattina del 6 ottobre 1944 alle quattro svegliarono quelli che dovevano essere deportati, tra cui me. Ci condussero al piano terreno in una stanza enorme piena di detenuti tra cui molti ebrei; non sapevamo dove ci avrebbero condotto. Un uomo sulla cinquantina si mise in un angolo, tirò fuori dalla tasca un cilindro che luccicava largo circa un centimetro e lungo dieci. Poi estrasse dalla tasca della giacca quattro biglietti da mille lire, li arrotolò bene bene e li infilò nel tubicino. Si abbassò i pantaloni e infilò l’oggetto nell’ano. Poiché si accorse che lo guardavo mi spiegò che era un ergastolano evaso da una traduzione a causa dei bombardamenti, ma era stato nuovamente arrestato in casa della sua donna. Disse che ”siccome i soldi risolvono molti problemi”, quel denaro avrebbe potuto rappresentare la sua salvezza.
VERSO BOLZANO
Alle sette, dopo averci perquisito, ci riconsegnarono i documenti e ci fecero uscire nel cortile dove c’era già in attesa un camion con il rimorchio. Eravamo circa 80 persone. Gli ebrei vennero sistemati sul rimorchio, gli altri in piedi sulla motrice perché era impossibile stare seduti. Eravamo scortati da due camionette blindate e diverse motociclette con sidecar su cui erano montate delle mitragliatrici. Piovigginava ed il camion era scoperto. Dopo 10 minuti dalle nostre teste si alzò una nube di vapore puzzolente… Passammo in via Del Piano: la gente ci guardava e qualcuno ci salutò con il pugno chiuso in segno di solidarietà. In piazza Di Negro ci fermammo 10 minuti in attesa dell’arrivo di un camion di militari tedeschi in assetto di guerra. Arrivati a Pavia, non potemmo traghettare subito perché il ponte era distrutto. Io ero sempre scalzo, con le piaghe ai piedi che non si rimarginavano e senza camicia. Arrivò un gruppo di donne. Ci chiesero chi fossimo e dove ci avrebbero portato. Dopo mezz’ora ritornarono con pane e polenta e, siccome non potevano avvicinarsi, buttavano il cibo alla rinfusa, un po’ qua e un po’ là. Ciascuno di noi cercava di prenderne il più possibile; gli Ebrei invece divisero in parti uguali il cibo raccolto. Arrivò il traghetto. Giungemmo alla sponda opposta dove c’erano in attesa due pullman. Ci fecero salire e ci condussero nel carcere di Pavia, pieno di brigate nere. Qui ci venne offerta la possibilità di salvarci, arruolandoci nelle fila fasciste. Il mattino dopo ripartimmo su dei pullman; noi pensavamo che ci avrebbero portato a Verona, invece proseguimmo per Trento, senza mangiare e senza la possibilità di soddisfare i bisogni fisiologici. Si orinava in un angolo della parte posteriore del pullman. Nella piazza principale della città era giorno di mercato. Ricordo i banchi di frutta e di stoviglie. C’era anche una bella ragazza vestita di pelle nera, con un berretto pieno di fregi nazisti. In mano teneva un frustino con tre lacci alla cui estremità erano attaccate delle palline di piombo. Si mise a parlare con i militari della scorta. Ripartimmo dopo mezz’ora. Fatti pochi chilometri i tedeschi ci fecero scendere in un piazzale e sistemarono le motociclette con le mitragliatrici contro di noi, come se volessero ucciderci. Invece si erano solo divertiti a spaventarci.
IL CAMPO DI BOLZANO
La nostra destinazione era Bolzano, nel campo di concentramento da cui erano smistati i prigionieri. Arrivammo davanti ad un grande cancello con ai lati due torrette all’interno delle quali c’erano dei soldati armati di mitragliatrice. Il campo era circondato da un muro alto circa 2 metri e mezzo alla cui sommità erano sistemati cinque fili spinati, uno sopra l’altro, e dei grossi fari. C’erano altre torrette con soldati armati. Ci fecero entrare in una baracca di legno. C’era un lungo corridoio. Ci fecero spogliare e, nudi, attendemmo il nostro turno per la rasatura dei capelli (fatta con una macchinetta da un prigioniero); poi dei militari ci consegnarono un paio di zoccoli di legno, un giubbotto e dei pantaloni di canapone écru. Indossata la divisa mi fecero una croce rossa sulla schiena e mi diedero una striscia di stoffa bianca con sopra un numero di colore nero – 4866 – ed un triangolo rosso, il segno degli internati politici. I rastrellati per le strade avevano un triangolo rosa, gli ebrei lo avevano giallo (ed una stella di Davide sulla schiena). Mi assegnarono al blocco B. C’erano capannoni e baracche di legno ben costruite in cui lavoravano falegnami, fabbri, muratori. Alla parte opposta all’entrata stavano costruendo le prigioni. All’interno del capannone a cui ero stato destinato c’erano due file di letti a castello alti circa 2 metri e mezzo con cinque posti letto. Eravamo circa 120 prigionieri. In fondo, verso il centro, c’era un barile che fungeva da gabinetto (c’era scritto “BUGLIOLO”). Il pavimento era in pendenza e perciò, non appena il bidone era pieno, i liquami traboccavano. Al mattino due internati pensavano a pulire (si fa per dire…). La sveglia era alle 5. Ci facevano uscire e facevano la conta degli internati di tutti i blocchi. A volte il capo baracca ci contava, altre volte ci chiamava per numero. Gli internati con il triangolo rosa lavoravano fuori e la sera portavano dentro al campo mele, castagnaccio, farina di castagne e altro che poi vendevano a caro prezzo. I politici lavoravano all’interno. C’era un’infermeria per i tedeschi mentre per noi c’era un medico canadese, internato pure lui, che curava tutte le malattie con il sublimato e le ferite con il catrame. Una mattina venne un sergente: cercava un fabbro e, siccome nessuno si faceva avanti, lo feci io.”Tu fabbro?” mi chiese. Risposi di sì, mi sorrise e mi ordinò di seguirlo. Mi diede martello e scalpello e mi disse di togliere l’anello mezzo tondo che era in cima ai fusti di benzina da 200 litri. Guardò e poi mi disse: ”Bravo, bravo uomo”. Quando facevo quel lavoro come compenso mi dava un pezzo di pane con la margarina. Nel campo si mangiava poco: un po’ di orzo bollito in una brodaglia una volta al giorno. Dove lavoravo c’era una porta con due SS di sentinella. Un giorno sentii parlare in napoletano, mi girai, ma vidi solo le due guardie (erano loro che parlavano napoletano). A volte ci chiamavano per andare a scavare pietrame sulla riva dell’Adige; dovevamo caricarlo su carretti di ferro e portarlo sulla strada. Per spingere un carretto – il dislivello era di circa due metri – occorrevano tre persone. Per arrivare al fiume passavamo in mezzo a villette ad un piano, ben costruite, divise da vialetti. All’interno c’era merce rubata in Italia: tappeti, pellicce, biancheria, casse piene di scatole di tonno e carne, di pasta, di sapone e altra merce. Una mattina, era la fine di novembre, mi chiamarono insieme con altri cinque detenuti. Ci fecero salire su un motocarro coperto con due SS di guardia. Pioveva. Quando ci fermammo eravamo a Vipiteno. Entrammo in una grossa ex caserma di alpini o di artiglieria da montagna: ci avviammo verso una bassa costruzione. All’interno era tutta piastrellata; sembrava di essere in una ghiacciaia, perché le piastrelle erano coperte di ghiaccio. Dentro c’erano una ventina di detenuti, i soliti letti a castello con pagliericci di trucioli di legno. La mattina dopo mi chiamarono con Antonio (un siciliano ex militare), Gaetti (genovese) (8) ed un greco ex campione olimpico di lotta libera. Dovevamo rompere il ghiaccio davanti alla caserma. Dopo 10 minuti di lavoro i pantaloni erano rigidi come stoccafisso. Verso le dieci ci riportavano dentro. Non si mangiava male. Tra noi c’era un ex cameriere del Rex che, sapendo molte lingue, faceva da interprete ad un sergente. Alla sera arrivava sempre con una latta da 20 litri piena di cibo, buttato lì alla rinfusa. La caserma era adibita all’addestramento di giovani militari di 14/15 anni: entravano con la camicia arancione ed uscivano con la divisa delle SS. Erano tutti cattivi come la popolazione del posto che ci sputava addosso quando passavamo. I militari fissi della caserma erano al 90% altoatesini ed alcuni erano veri aguzzini, come i due ucraini a Bolzano (9). Intanto si facevano sempre più numerosi i bombardamenti degli alleati. Tutte le notti bombardavano il medesimo ponte, e la mattina ci facevano portare il materiale per rimetterlo in sesto (c’erano anche alcuni civili). Una mattina chiamarono me, Gaetti e il greco. Uscimmo dalla baracca: fuori c’erano il siciliano con una scure in mano ed una sentinella cecoslovacca. Dopo un chilometro arrivammo al bivio della strada che va verso il confine. C’era una baracca con un enorme cortile in cui erano ammassate grandi quantità di legna da ardere: arrivavano enormi tronchi di abete che dovevamo tagliare e spaccare. Dentro la baracca c’erano quattro maiali a cui tutte le mattine un vecchietto portava una gerla di metallo piena di patate. Quando usciva ne prendevamo tre o quattro ciascuno. Però una mattina il vecchietto tornò indietro e ci vide. A mezzogiorno ci portò una pentola piena di patate e salsiccia. Non disse nulla. Un giorno, mentre eravamo intenti a tagliare dei tronchi di pino (la ditta per cui le SS ci facevano lavorare si chiamava”Margotto”) nel cortile mi sentii chiamare. Mi voltai e riconobbi un mio vicino di casa, un certo Dario Villa detto “U Mattu” che mi disse che quando ero bambino mi aveva tenuto in braccio. La sentinella tedesca, vedendo questo movimento, si avvicinò con il mitra e cercò di mandare via lui e le altre persone che lo accompagnavano: per tutta risposta Dario gli diede uno spintone. La sentinella rimase immobile senza fare nulla. La sera mi portarono pane, margarina e salumi tedeschi. Non li rividi mai più. Vicino alla baracca, a fianco del cortile, c’era una casetta a due piani piena di ogni ben di Dio; persino moto Guzzi imballate e pellicce, quadri, sapone di tutti i tipi. Ci avevano fatto chiudere ai lati una tettoia che dava riparo a due auto blu di grossa cilindrata. Nel pavimento c’erano tre buche (per la riparazione delle macchine) piene a tappo di merce di ogni qualità. A volte ci portavano in certe fattorie vicino a Merano dove ci facevano costruire delle buche che poi erano stivate di benzina, nafta ed olio. Ai primi di febbraio del 1945 chiamarono me, Gaetti, il siciliano, il greco e Pippo (di Thiene). Salimmo su un camioncino e ci portarono a Fortezza dove c’era un monte di pietra scavato. All’interno c’erano gallerie con camerette piene di armi ed altro materiale. Dal lato della strada questa roccaforte era quasi a strapiombo. Invece dalla parte che costeggiava il fiume c’era un grande cancello chiuso, con all’interno due sentinelle armate. Entrati a piano terra, ci ordinarono di abbattere un muro (si vedeva che era stato costruito da poco) oltre il quale c’erano in successione due cancelli. Passati oltre il secondo cancello ci dissero di fare tre buche 200x 150x120. Da un lato c’erano sei casse di ferro: ne mettemmo due per buca e ricoprimmo tutto con del pietrisco e della sabbia fine. Mentre stavamo per uscire arrivarono dei militari armati, c’era una grande confusione. Dopo otto ore di lavoro, senza mangiare né bere, tornammo a Vipiteno. Era il 20 marzo e faceva molto freddo, 20 gradi sotto zero. Dopo alcuni giorni ci richiamarono e ci portarono alla stazione. Salimmo su un vagone merci in cui c’erano già altri prigionieri. Dopo tre ore di viaggio scendemmo e prendemmo un altro treno. Arrivammo a “Konisher” (Koeniggsse?). Ci fecero salire su un pullman, eravamo 38 in tutto tra svizzeri, francesi, polacchi, italiani, greci più un militare alleato. Dopo un’ora arrivammo davanti ad un grande cancello di legno con due sentinelle armate di fucili simili a quelli da caccia. Entrammo nel cortile: c’erano cinque baracche adibite a dormitorio, ben costruite e pulite. Sentinelle e militari erano vestiti dimessamente, solo un ufficiale era in divisa, ma disarmato: sembrava quasi un campo di …riposo. L’impressione era che aspettassero la fine della guerra. Al mattino ci facevano alzare alle sei, facevano la conta e alle 11 ci davano patate, orzo bollito e, qualche volta, un pezzo di pane nero. Quelli che andavano a lavorare nelle campagne dicevano che fuori c’erano molti ragazzini dai 12 ai 15 anni in divisa e armati di moschetto.
LIBERI
Aspettavamo gli americani, invece arrivarono i russi che ci lasciarono nelle baracche, ci diedero riso, stufato, pane di segale e coperte nuove. Speravamo nell’arrivo della Croce Rossa o dell’Auxilium (10) per avere un lasciapassare, ma nessuno arrivò. Allora io, il siciliano ed il ragazzo di Thiene decidemmo di scappare. Ci avviammo verso la stazione che era mezzo distrutta. Salimmo su un treno ed arrivammo ad una stazione. Per le strade c’era confusione: camion militari abbandonati, auto, cavalli, armi… Antonio trovò una P38 con un astuccio pieno di proiettili. Li prese e li mise in tasca. Girovagammo per questa cittadina; c’erano militari russi e tedeschi malandati, ragazzini che indossavano ancora la divisa delle S.S. Ogni tanto passava una pattuglia di guardie rosse con ufficiali nazisti in divisa. Era il 22 aprile. Antonio propose di salire su un camion dei pompieri abbandonato e partire. Prendemmo tre fusti di nafta e Antonio si mise alla guida. Le strade erano interrotte e i ponti caduti. Ogni tanto buttavamo via qualche attrezzo che era sul camion. Dopo quattro giorni arrivammo a Innsbruck dove c’erano gli americani. Pippo vide due bei cavalli in mezzo alla strada piena di mezzi militari e decise di prenderli per tornare a casa. Ci salutammo e partì in sella ad uno dei cavalli, tenendo l’altro con una corda. Io e Antonio mangiammo qualcosa ad una postazione della Croce Rossa e ci avviammo verso il Brennero. Ci fermammo a Vipiteno; da pochi giorni erano arrivati gli americani, ma non era cambiato nulla. Andammo in comune; lì c’erano i nostri aguzzini in borghese e con la fascia tricolore al braccio che parlavano con due ufficiali e tre militari americani. Ce ne andammo disgustati. Riprendemmo il viaggio, ma a Trento il camion ad un tratto si fermò. Eravamo in una piazzetta dove fortunatamente c’era un meccanico che, guardato il motore, ci disse che lo avrebbe riparato. Ovviamente non avevamo denaro, ma lui non ci chiese nulla e ci offrì un panino con la pancetta e un bicchiere di vino. Riprendemmo il viaggio. Nei pressi di Milano il camion perse una ruota e così, nell’impossibilità di proseguire con quel mezzo, prendemmo le nostre poche cose e ci avviammo a piedi. Lungo la strada un camionista ci vide, si fermò e, dopo averci fatto qualche domanda, ci caricò e ci accompagnò alla stazione Centrale. Qui c’era un ufficio dell’Auxilium: ci chiesero i dati, ci diedero una bevanda calda con del latte ed una busta che conteneva due panini, un pezzo di formaggio ed una gassosa. Salimmo sul treno e ci sedemmo in uno scompartimento vuoto. A Tortona salì una signora che si sedette davanti a noi, ci guardò e ci chiese se eravamo militari. Il siciliano rispose di no e le mostrò il triangolo rosso con il numero… La donna rimase senza parola. Io avevo un giubbotto di tela con sotto una canottiera senza spalline legata ai lati con dello spago, scarpe con la suola di legno e la tomaia di cuoio, senza calze, pantaloni di canapa e non avevo mutande. Il mio compagno, più o meno, era come me. Alla stazione Principe il siciliano scese, ci salutammo con le lacrime agli occhi e poi lui proseguì per Savona. Arrivai molto tardi alla stazione Brignole. Attraverso il sottopassaggio arrivai in Via Canevari e proseguii per Quezzi. In piazza Fereggiano vidi alcuni giovani che conoscevo. Ci salutammo e mi avviai verso casa. Oltrepassato il ponticello bussai alla porta: si affacciò mia madre e appena mi vide si mise a gridare dalla gioia. Poi scese con mio padre ed i miei fratelli e mi aprì la porta. Voleva farmi da mangiare, ma io non avevo fame…
A CASA
Mia madre mi preparò il letto, ma essendo pieno di pidocchi dovetti dormire in terra. Il giorno dopo mio padre tornando dal lavoro comprò in farmacia un preparato a base di canfora. Il farmacista gli spiegò che avrei dovuto cospargermi il corpo con quella crema tre volte al giorno, dopo aver fatto un bagno caldo. Il problema si risolse in poco tempo. Era maggio e faceva caldo. Essendo senza lavoro andavo al mare con i miei amici e qui, ai bagni Bruzzone, incontrai una bellissima ragazza dai capelli rossi che sarebbe diventata mia moglie due anni dopo. Feci domanda alla questura di Genova per essere arruolato nelle guardie ausiliarie della polizia. Mi chiamarono dopo tre giorni e fui assegnato al comando di reclutamento. Il brigadiere si chiamava Scaletti ed era il dirigente dell’ufficio coadiuvato da una guardia di nome Croce, poi arrestato nel ‘46 per avere estorto del denaro ad un ebreo. Mi trovavo bene, cominciavo a scrivere a macchina e sbrigavo delle pratiche da spedire a Roma. Il comandante era un partigiano di nome Ettore. Un giorno mi recai in salita delle Fieschine, dove c’era la polizia stradale per consegnare un documento. Qui mi trovai davanti l’ex comandante “partigiano” “C.” (della banda di ladri di cui ho riferito in precedenza): era vestito da ufficiale e lo chiamavano capitano. Non faccio commenti. Nel mese di giugno, entrando nell’ufficio del commissario Fabbri, vidi una foto sulla scrivania. Era il generale fascista Bertone Rossi. Il commissario mi chiese se lo conoscessi, risposi di sì. Il giorno dopo fui chiamato per il riconoscimento, ma non fui creduto. Una mattina il capitano ordinò a me e ad un mio compagno di portare un detenuto a Pavia con l’auto della polizia. Consegnato il prigioniero, ci dissero che saremmo potuti partire solo il giorno dopo perché dovevano interrogarlo. Per quanto riguarda il vitto e l’alloggio ci dissero che avremmo dovuto arrangiarci. Mangiammo un grosso panino con la mortadella e bevemmo un caffé perché avevamo pochi soldi e dormimmo in macchina. Al ritorno a Genova espressi il mio disappunto per non aver potuto mangiare né dormire decentemente. La risposta fu che non c’erano soldi. Il mattino dopo riprendemmo il detenuto: era il vice direttore dello zuccherificio “Genova Zuccheri” ed era stato arrestato per il furto di trenta quintali di zucchero. Un giorno in questura arrivò il comandante partigiano Battista. Convocò me ed altri ragazzi di Quezzi e, senza mezzi termini, ci disse che se fosse successo qualcosa al fascista Del Bianco (v. pag. 8) ci avrebbe fatto uccidere dai suoi uomini. Feci i miei calcoli e dopo due giorni diedi le dimissioni.
(1) Probabilmente Augusto Leoni, nato a Verona il 3 gennaio 1879, arrestato a Chiavari (GE) il 1° dicembre 1943, deportato da Milano il 6 dicembre e ucciso all’arrivo ad Auschwitz l’11 dicembre dello stesso anno. Liliana Picciotto, Il libro della memoria, Mursia, Milano 2002, p. 389.
(2) Autista del segretario del fascio di Chiavari Vito Spiotta.
(3) Si tratta probabilmente del prof. Corradino Nuzzi, insegnante di fiosofia, più tardi iscritto al partito fascista. Venne fucilato nel 1945 dai fascisti come traditore. Alessandro Cipriani, La Silvio Parodi, CEI 2005.
(4) L’esplosione di un ordigno provocò la morte di 6 marinai tedeschi. Il capo delle SS di Genova Friedrich Engel ordinò per rappresaglia il massacro di 59 italiani al Passo del Turchino. Pierpaolo Rivello Il processo Engel. Un percorso lungo i confini tra ricostruzione giudiziale e memoria storica, Le Mani - Microart’s Edizioni, Recco (GE) 2005, online all’indirizzo: www.anpi.it/libri/engel.pdf
(5) Aldo Gastaldi, decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria. Scheda biografica in: www.anpi.it/uomini/gastaldi_aldo.htm
(6) Antonio Gibelli in Il popolo bambino, Einaudi, Torino 2005, affronta il fenomeno dei minori reclutati dal fascismo. Dai documenti della Corte D’Assise straordinaria di Genova risalenti al dopoguerra emergono episodi che vedono giovani di 12/14 anni collaborare nelle pratiche di tortura rivolte ai partigiani.
(7) Livio Faloppa comandante e commissario federale della 31° brigata nera “Silvio Parodi”. Nato a Saluzzo nel 1908 fu dichiarato criminale di guerra dal CNL di Genova. Evitò il carcere e la fucilazione fuggendo in Spagna. Fu riabilitato dal governo italiano negli anni ’50. Morì nel 1988 a Barcellona.
(8) Rinaldo Gaetti, nato a Genova il 9 aprile 1917, fu deportato da Bolzano a Mauthausen, da dove fortunatamente riuscì a tornare. Dario Venegoni, Uomini, donne e bambini nel Lager di Bolzano, Mimesis, Milano 2005, p. 191.
(9) Michael Seifert e Otto Sain, noti nel campo come “Mischa” e “Otto”. Giovanissimi si resero colpevoli di innumerevoli atti di violenza e uccisero con le proprie mani molti prigionieri delle Celle del campo. Michael Seifert è stato condannato all’ergastolo in contumacia dal Tribunale di Verona nel novembre 2000. L’Italia ha avanzato richiesta di estradizione al Canada, paese dove il criminale si è rifugiato fin dal 1951. Di Otto Sain si sono perse le tracce dall’immediato dopoguerra. Giorgio Mezzalira e Carolo Romeo (a cura di), “Mischa” l’aguzzino del Lager di Bolzano, Circolo Culturale ANPI di Bolzano, Bolzano 2002.
(10) Organizzazione di assistenza che faceva campo alla Chiesa cattolica.
Triangolo Rosso, gennaio/aprile 2007