Triangolo rosso

UN MASSACRO IGNORATO COMPIUTO DAI NAZISTI

Perché pochi studi sulla tragedia degli zingari italiani?

 

di Mario Abbiezzi

 

Porrajmós per i rom sta a significare divoramento; Samudaripen per i sinti grande uccisione, quello che noi definiremmo eccidio: e fu veramente un eccidio, oltre 500 000 i morti, sebbene le prime stime indicassero un numero dimezzato, 250 000. Circa venti anni fa, il ricordo della tragedia fu dimezzato perché il portone di Auschwitz, aperto a tutte le comunità convenute per ricordare la Shoah, per la comunità dei rom e dei sinti non si aprì, fu negato loro l’ingresso e vennero esclusi; metterli all’ultimo posto della graduatoria della tragedia è escludere il prezzo pagato da loro in quegli anni. Un’esclusione che dura ormai da troppo tempo. È per questo motivo che iniziare una riflessione seria, approfondita storicamente e documentata è non solo necessario ma importante per ridare dignità al popolo del vento. Mentre nel resto d’ Europa, e non da oggi, la tragedia degli zingari è entrata nel patrimonio comune di tutte le comunità coinvolte nell’Olocausto, in Italia si stenta a discuterne e al massimo si mette, rigorosamente all’ultimo posto, il popolo zingaro quasi fosse un obbligo citarli ma come consolazione di noi, i buoni, nei loro confronti. In quei giorni in cui il silenzio, la notte, il grande freddo, le parole urlate dalle SS e quelle bisbigliate dai deportati, erano la colonna sonora della immane tragedia che accadde nel XX secolo, era logico che nascesse una sorta di pudore del ricordo. Oggi, a più di sessanta da quei fatti è giunto il momento di chiamare le cose con il loro nome, il loro cognome, il loro intrinseco significato. Eppure, non sempre ciò accade: è sempre miglio ricordare gli zingari per ultimi, in fin dei conti cosa chiedono? Quante volte nel corso dei secoli sono stati esclusi? E allora, tentiamo una riflessione. In Europa gli studi di questo periodo, zingari inclusi, se non moltissimi sono certamente numerosi. In Italia invece, tranne qualche tentativo anche di alto livello, non è stato ancora scoperchiato il vaso di Pandora dove le sofferenze di un popolo vengono, con ostinazione, rinchiuse. Tentiamo in poche righe di spiegarcene il motivo: il primo è il pudore che rom e sinti italiani hanno nei confronti del ricordo. Un popolo che deve vivere l’oggi, non ha il tempo di pensare al passato, lo comprova la testimonianza di Gnugo De Bar che ci racconta di come i sinti, internati in Emilia, descrivevano quei giorni, li chiamavano “quando eravamo dal contadino”. E lui indignato, ne fece una ragione di principio, lui il saltimbanco si mise a scrivere le memorie di famiglia e chiamò le cose per nome. Descrisse l’internamento a Prignano, la partecipazione dei suoi alla lotta di Liberazione, la loro umanità nei confronti dei vinti. Non volevano vendette. Chiedevano, unicamente, giustizia. Allora, tocca a noi riflettere e ritessere la tela della storia, sistemando la trama e l’ordito di quei lontani anni. La prima constatazione che dobbiamo fare è su di noi, perché abbiamo trascurato la loro tragedia e perché continuiamo a farlo? La seconda è perché il popolo del vento, ha rescisso il cordone ombelicale, la memoria, che lo teneva legato alla storia? Tentiamo in poche righe una spiegazione. Presi come eravamo dal contingente ci siamo, semplicemente, dimenticati delle sofferenze degli altri: la ricostruzione, l’impegno quotidiano dell’oggi che la società ci imprimeva accelerando il nostro ritmo di reazione, ci hanno fatto ricordare un solo segmento di storia; che rimane incompleta, spuria e infine dimezzata. Per il mondo dei rom e dei sinti in Italia, occorre ricordare che non solo la tradizione orale implica, se non che in pochi esempi personali, tenere a mente quanto diventa indispensabile oggi, mettendo in un angolo quanto è già accaduto, quanto ormai non è più indispensabile. Sedimentandosi questo modo di vivere, ci troviamo, oggi, a ricucire gli strappi, nel tentare di uscire da questa secca che ci arena per poter ricominciare a navigare in mare aperto. Ecco, ora, cosa – a mio avviso – è necessario: approfondire la ricerca storica della deportazione in Italia e la partecipazione dei rom e dei sinti alla Resistenza, delle loro speranze che, negli anni della lotta antifascista, avevano in una società migliore. Infine, e non ultimo, rimettere le cose al loro posto: ridare dignità a un popolo, riconoscerne i diritti fondamentali e con loro tentare di analizzare quanto dal passato possiamo utilizzare per vivere il presente e il futuro in cui la parola democrazia abbia nella prassi il suo significato più intrinseco.

 

Jaja Sattler: il primo nomade missionario

 

Quanti Sinti sono morti ad Auschwitz-Birkenau per fame ed epidemie? Quanti Ungrika Roma? Quanti Lalleri? Quanti sono stati spinti nelle camere a gas? Non vogliamo valutare ancora una volta le cifre, vogliamo ricordare solo uno dei morti: Jaja Sattler, il “rashai”, il predicatore. Era cristiano, era missionario a Berlino, nel Brandeburgo, nella Pomeriana fra i Lovari e i Kalderari, apparteneva alla sfera delle chiese cristiane eppure è dimenticato. Maria Michalsky-Knak aveva cominciato nel 1906 la sua attività di missionario nei campi di sosta a Berlino, scriveva nel 1945. «È stato anche possibile mandare nel convento Tabor a Marburg Jaja, che si è fatto notare nel nostro lavoro fra i ragazzi e indubbiamente ha doti evangeliche, Là ha imparato a lavorare manualmente e mentre studiava, ha cominciato a tradurre il Vangelo di Giovanni. Quando è tornato dalla sua gente e ha cominciato a narrare loro la storia della salvezza nella sua lingua materna, l’hanno ascoltata in modo diverso di quando noi annunciamo la parola in tedesco». Tornato da Marburg a Berlino, Jaja Sattler andò di campo in campo e annunciò al suo popolo il messaggio di Gesù, soprattutto ai bambini. Frieda Zeller-Pinzner, una “missionaria degli zingari” come si autodefiniva, racconta: «Che chiasso! Bisognava tapparsi le orecchie! Si gridava in due lingue l’uno verso l’altro. Per fortuna Jaja, il missionario zingaro, era capace di gridare più forte. Hanno un grande rispetto per lui e lo chiamano “Rashai”, che vuol dire prete». Jaja Sattler era un Lovar. Ha tradotto oltre al Vangelo di Giovanni, alcuni salmi nella sua lingua. La Società biblica inglese ed estera ha stampato nel 1930 la traduzione di Sattler, un libretto di settantasei pagine rilegato in rosso. Dalla primavera all’autunno i Sinti di Berlino, i Lovari e gli Ungrika Roma erano in viaggio. Per la maggior parte erano commercianti di cavalli. Non appena la traduzione della Bibbia fu stampata, Jaja Sattler si mise in viaggio verso i mercati di cavalli della Pomerania. La Società biblica lo aveva incaricato di predicare ai Lovari e di vendere il libretto. «Tre giorni prima mi sono comprato un calendario dei mercati di cavalli per potermi orientare nella Pomerania. Il 4 luglio cominciai il mio viaggio. La mia prima meta era Lauenberg. Là trovai alla vigilia del mercato dei cavalli, trentaquattro carrozzoni con circa duecento Roma. Molti che mi conoscevano da tempo, gridarono: “Arriva il rashai”. Per prima cosa dovetti raccontare le novità dei Roma di Berlino». [Diario di Jaja Sattler] Egli avrebbe portato con sé un “libro meraviglioso”, diceva Jaja Sattler, senza rivelare che era scritto nella loro lingua. Un’ora dopo i viaggianti erano accoccolati sul prato per farsi leggere dal rashai il libro misterioso. «Li stupiva che io pregassi prima di leggere ma io invocavo formalmente Dio che volesse rivelarsi nella sua parola e lessi loro il capitolo terzo del Vangelo di Giovanni con il meraviglioso versetto sedicesimo.» [Diario di Jaja Sattler] Per settimane Jaja Sattler andò di mercato in mercato, di campo sosta in campo sosta, predicò e vendette il suo libretto. Nell’estate 1931, egli compì il suo secondo viaggio missionario, accompagnato da un altro rom. Questa volta aveva un carrozzone tirato da cavalli. Il veicolo, comperato con i mezzi della Società biblica e della Missione degli zingari, era vecchissimo, ma prima di partire lo avevano ridipinto a nuovo: bianco, rosso e verde. La Società biblica e la Lega missionaria per l’Europa sud-orientale avevano dato un contributo, ma non era sufficiente. La traduzione della Bibbia di Sattler trovò eco fra i Roma. Anche i Kalderari comprendevano il suo testo, ma non i Sinti. Dei duemila esemplari stampati dopo quattro anni ne erano stati venduti milleduecento. Dato che a quel tempo ben pochi Lovari e Kalderari sapevano leggere, è una vendita stupefacente. Chi era Jaja Sattler? Una fotografia mostra il rashai ben vestito, con cravatta, mantello scuro e cappello. Portava i suoi capelli radi con la riga in mezzo e i baffi ben curati. Si sa poco della sua vita. Apparteneva a quei Lovari che nel 1906 erano migrati dalla Romania verso l’Inghilterra. Quando furono cacciati da quel paese, vennero in Germania. D’estate viaggiavano per commerciare cavalli e d’inverno sostavano a Berlino. Là la Missione degli zingari scoprì il giovane intelligente. Dapprima Sattler aveva lavorato come fantino. Arruolato durante la prima guerra mondiale, fu ferito. Nel 1935, sarebbe avvenuta la sua conversione. La Lega missionaria per l’Europa sud-orientale lo avrebbe formato come missionario per la Bucovina (distretto di Glatz). Poco dopo Jaja Sattler frequenta il convento Tabor a Marburg e inizia la traduzione del Vangelo di Giovanni. Non si sa che cosa è stato di lui dopo i viaggi missionari del 1930 e 1931. Certe sono le circostanze della sua morte. Nel marzo 1944 Jaja Sattler fu deportato nel campo di Auschwitz-Birkenau e ucciso. Lo attesta Tadeusz Pobozmiak nella sua Grammatica del dialetto dei Lovari, pubblicata a Cracovia nel 1964, per la quale si è servito della traduzione biblica di Sattler. Le chiese cristiane commemorano molti religiosi, che hanno perduto la vita nei campi di concentramento o sul patibolo dell’aguzzino nazista. Jaja Sattler, che i Roma chiamavano rashai, parroco, cappellano, lo hanno dimenticato.

Triangolo Rosso, dicembre 2006

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