Triangolo rosso

I LAGER CREATI DAL FASCISMO DOPO L’OCCUPAZIONE DELLA JUGOSLAVIA

Una tragedia dietro il cortile di casa

 

di Dario Mattiussi*

 

Il sistema concentrazionario creato dal regime fascista è uscito dall’oblio grazie ai lavori di storici come Carlo Spartaco Capogreco, Bozidar Jezernik e Tone Ferenc che ci hanno consentito di avere una conoscenza complessiva del fenomeno e delle sue dimensioni. L’indagine storiografica rischia però di rimanere fine a se stessa se non è accompagnata da una divulgazione scientifica, capace di rendere l’opinione pubblica consapevole anche delle pagine più buie della nostra storia. Parliamo ovviamente di un processo lungo, ostacolato anche dal silenzio sui campi di concentramento italiani nella manualistica scolastica

Soprattutto nelle nostre province di confine, sarebbe opportuno che se ne parlasse di più, anche perché i campi di concentramento italiani, I campi del Duce, come li ha definiti Capogreco, non raccolsero solo anziani, donne e bambini deportati dalle zone d’occupazione militare o di nuova annessione istituite dopo l’aggressione alla Jugoslavia. Un numero consistente di deportati era costituito da cittadini italiani delle province orientali di nazionalità slovena e croata. Persone a cui finora è stata negata, di fatto, anche la memoria delle sofferenze patite. L’Italia non è l’unico Paese in Europa ad aver cercato di rimuovere l’esistenza di un proprio sistema concentrazionario. Anche la Francia, ad esempio, ha atteso molti anni prima di avviare un dibattito storiografico sui campi di concentramento realizzati ai piedi dei Pirenei all’inizio del secondo conflitto mondiale, campi in cui furono detenuti anche molti reduci dalla guerra di Spagna, italiani e sloveni, originari delle nostre province. Non dobbiamo però cadere in facili generalizzazioni, cercando analogie tra i campi di concentramento italiani presi nel loro insieme e i lager o peggio i campi di sterminio nazisti. Inevitabilmente il confronto non farebbe altro che relativizzare l’orrore dei campi fascisti. È necessario invece tener conto delle diverse realtà e tipologie della deportazione. Molti dei campi di concentramento “regolamentari”, gestiti cioè dal ministero degli Interni, rispondevano a requisiti minimi di vivibilità, erano visitabili dalla Croce Rossa e vi era la possibilità per gli internati di ricevere viveri dall’esterno e poter così migliorare le proprie condizioni di vita. Diversa era invece la situazione nei campi destinati agli internati jugoslavi, i “campi dell’internamento parallelo” come li definisce Capogreco. Qui i prigionieri, per lo più donne, anziani e bambini, erano costretti a una disperata lotta per la sopravvivenza, completamente nascosti al mondo e impossibilitati a ricevere aiuti dall’esterno. L’esercito italiano aveva già alle spalle una certa esperienza nella costruzione di campi di concentramento, basti pensare ai campi realizzati in Libia dal generale Graziani in cui trovarono la morte migliaia di civili. Si tratta di eventi ugualmente rimossi dalla nostra storia e praticamente sconosciuti all’opinione pubblica nazionale. A favorire questa rimozione fu certamente lo stereotipo culturale, tanto superficiale quanto diffuso, degli italiani “brava gente”, del soldato italiano “buono”, sempre diverso nei comportamenti verso la popolazione civile dall’alleato nazista. Contribuì poi, a guerra finita, anche la volontà degli alleati di condonare i crimini di guerra italiani in nome di un superiore interesse strategico. A livello politico inoltre nessun partito aveva interesse allora a rimettere in discussione l’immagine del nostro esercito in un dopoguerra che l’Italia affrontava da paese aggressore sconfitto, aggrappato alla Resistenza come simbolo di un riscatto morale completo e definitivo della nazione. Tutti i campi realizzati dall’esercito durante la seconda guerra mondiale furono definiti ufficialmente “campi di concentramento”, ma la definizione non rende conto delle diverse modalità con cui avveniva l’internamento. Capogreco ha definito illegale o meglio “fuori legge” l’internamento dei civili sloveni e croati praticato dal regime fascista dopo l’invasione della Jugoslavia. Invasione che per altro avvenne da subito al di fuori di ogni legge di guerra con il bombardamento improvviso di Belgrado e poi con la trasformazione dei territori sloveni occupati nella Provincia di Lubiana. Occorre però distinguere tra la violenza espressa in queste zone dall’esercito italiano nel 1941, mirata a obiettivi politici e militari ben definiti e quanto avviene a partire dal 1942, quando viene decisa e attuata una vera e propria strategia del terrore verso la popolazione civile. Le nuove direttive impartite dagli alti comandi, in un quadro ideologico marcatamente razzista, prevedono l’utilizzo contro la popolazione civile degli stessi metodi applicati dai nazisti sul fronte orientale: dall’incendio dei villaggi alla fucilazione di ostaggi, alla deportazione in massa dei civili in campi di concentramento per creare il vuoto attorno al movimento partigiano. In questo quadro non dovrebbe sorprendere che il tasso di mortalità registrato nel campo di concentramento di Arbe - Rab, dovuto alla fame, al freddo e alle condizioni igienico – sanitarie, sia stato per lunghi periodi superiore a quello dei peggiori campi di concentramento nazisti, esclusi quelli di sterminio. La differenza consiste solo nella mancanza di un’efficiente “macchina della morte”, sostituita da condizioni di vita insopportabili di cui ovviamente sono i bambini a pagare il prezzo più alto. Si tratta in ogni modo di morti che non possono essere attribuite al caso. Sono invece il risultato di decisioni prese a tavolino con cui si programmava, ad esempio, un vitto del tutto insufficiente. Questo sia per non sottrarre risorse all’esercito, sia per rendere i prigionieri più deboli e quindi controllabili con il minor impiego di truppe. Non si condanna a morte quindi ma si lascia morire e questo non solo nell’inferno di Arbe. La posizione al di fuori della legge di molti campi ebbe ripercussioni pesantissime per tutti i civili internati, definiti cittadini italiani “per diritto di annessione” e quindi privati anche dello status di sudditi nemici che avrebbe consentito almeno l’invio di viveri e vestiario pesante da parte delle organizzazioni internazionali. Soltanto nell’agosto del 1943 il ministero degli Affari Esteri permise alla Croce Rossa di assistere i civili croati e sloveni internati in Italia, a condizione che ciò non modificasse la loro posizione giuridica e che ci si limitasse a semplici azioni di carattere umanitario. Esiste quindi anche un problema di continuità tra regime fascista e governo Badoglio che deve essere affrontato. I campi non vengono chiusi dopo il 25 luglio ma abbandonati solo dopo l’8 settembre, spesso a causa della fuga degli addetti alla sorveglianza. In alcuni casi con un ritardo tale da permettere la cattura degli internati da parte dei nazisti. Certo non mancano le eccezioni. Gruppi di internati furono rilasciati dopo pressioni della Chiesa o per decisione dei comandi militari. Non si trattò tuttavia di una liberazione generale, a testimonianza del fatto che le responsabilità italiane non cessarono con la destituzione di Mussolini e la caduta del regime fascista. Si muore nella desolazione dell’isola di Arbe - Rab, come a Gonars in provincia di Udine e se il trasferimento di donne e bambini stremati da Arbe - Rab incide anche sui tassi di mortalità degli altri campi, questo non indica cambiamenti significativi nella filosofia dell’internamento. Abbiamo già detto che le autorità militari italiane fecero proprie le direttive emanate dai comandi tedeschi per combattere la resistenza lungo il fronte orientale. Questo spiega le fucilazioni di ostaggi e l’incendio dei paesi situati vicino a luoghi in cui si erano avuti combattimenti con le forze partigiane o da cui risultavano mancare uomini presumibilmente arruolati nelle formazioni partigiane. La deportazione di donne e bambini come ostaggi rientra sicuramente in questa strategia. I numeri della deportazione sono però troppo alti per trovare una spiegazione esauriente in queste direttive; sono anzi così alti da sconvolgere anche le strutture predisposte per l’internamento dai comandi militari tanto da trasformarle rapidamente da luoghi di segregazione in luoghi di morte. I motivi del degenerare della deportazione e della crescita esponenziale dei numeri sono probabilmente risposte alla stessa situazione sul campo. Da una parte, la crescita della resistenza armata, e il suo riorganizzarsi dopo ogni offensiva condotta dall’esercito, sono la dimostrazione che l’uso indiscriminato della violenza avvicinava la popolazione alla resistenza anziché allontanarla, vanificando anche i successi militari ottenuti dall’esercito grazie all’utilizzo di milizie di collaborazionisti, infiltrati e delatori; dall’altra, l’inefficacia di questa strategia spinge i comandi italiani a ordinare misure repressive sempre più drastiche, fino a pianificare la distruzione e lo spopolamento attraverso la deportazione in massa dei civili di una vasta zona al confine tra Slovenia e Croazia lunga alcune centinaia di chilometri e larga più di una decina. Si innescava così una spirale di violenza in cui gli stessi obiettivi militari finivano con l’essere stravolti. La ritorsione sui civili veniva giustificata come una vendetta per le perdite subite durante i rastrellamenti ma la stessa spingeva anche gli incerti alla scelta della lotta armata. In questa tragedia la guerra finiva col perdere ogni traccia di umanità, se mai l’aveva avuta. La deportazione e la morte dei bambini potevano essere considerate un effetto secondario cui non dare troppo peso e forse senza i documenti degli archivi militari e civili e soprattutto senza le testimonianze, i disegni e gli scritti dei sopravvissuti, potremmo davvero fingere che nulla sia accaduto, o che la responsabilità sia da addebitare esclusivamente a un ristretto gruppo di criminali di guerra.

*Curatore della mostra

Per saperne di più

 

• Carlo Spartaco Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile dell’Italia fascista (1940-1943) Torino, Einaudi, 2004

• Tone Ferenc, Rab-Arbe-Arbissima. Confinamenti-rastrellamenti-internamenti nella provincia di Lubiana 1941-1943, Lubiana, 2000

• Alessandra Kersevan, Un campo di concentramento fascista. Gonars 1942-1943, Udine, KappaVu, 2003

• Bozidar Jezernik, Boj za obstanek, Lubiana, 1983

• Boris M. Gombac e Dario Mattiussi (a cura di), La deportazione dei civili sloveni e croati nei campi di concentramento italiani: 1942-1943. I campi del confine orientale, Gorizia, Centro “L. Gasparini”, 2004

• Metka Gombac, Boris M. Gombac, Dario Mattiussi, Quando morì mio padre. Disegni e testimonianze di bambini dai campi di concentramento del confine orientale: 1942-1943, Gorizia, Centro “L. Gasparini”, 2004.

 

La mostra Quando morì mio padre Disegni e testimonianze di bambini dai campi di concentramento del confine orientale: 1942-1943, curata da Metka Gombac, Boris M. Gombac, Dario Mattiussi, raccoglie in 26 grandi pannelli a colori disegni e testimonianze di bambini sloveni, fra i 6 e gli 11 anni, sopravvissuti ai campi di concentramento italiani. La mostra, realizzata dal Centro Isontino di Ricerca e Documentazione Storica e Sociale “Leopoldo Gasparini”, è stata allestita con successo a Gorizia, Venezia, Capodistria, Maribor ed è attualmente esposta presso la Risiera di San Sabba, Monumento Nazionale, a Trieste dove può essere visitata tutti i giorni fino al 28 gennaio 2007. L’ingresso è libero; sono a disposizione guide per gruppi e scolaresche.

 

La memoria recuperata in una mostra

 

I materiali riprodotti nella mostra, messi a disposizione per la prima volta dall’Archivio di Stato della Repubblica di Slovenia e dal Museo nazionale sloveno di Storia contemporanea di Lubiana, costituiscono un’accusa che non lascia spazio a giustificazioni. Tanto i disegni quanto i brevi scritti furono realizzati, dopo la liberazione dai campi, in zone libere della Slovenia in strutture mediche partigiane, nel tentativo di far rielaborare ai piccoli sopravvissuti, in gran parte orfani, l’esperienza subita. Collaborarono anche maestri elementari, anche loro ex deportati, certamente le persone più adatte a relazionarsi con i giovani orfani appena rientrati dai campi. Recuperare questa memoria e renderne consapevole l’opinione pubblica nazionale e soprattutto le generazioni più giovani è anche un dovere civile. Non solo un riconoscimento alle vittime di allora ma un impegno morale che ci coinvolge tutti e che può dare la misura del cammino verso la democrazia che questo Paese ha saputo compiere in questi anni, senza distinzioni di appartenenza politica.

Triangolo Rosso, dicembre 2006

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