Triangolo rosso

Festeggiati i 95 anni di Bruno Vasari e la sua amicizia con Manlio Magini

Portati assieme nel “bivacco della morte”

Il racconto della loro odissea in uno dei primi libri della vita nei lager nazisti

Pubblichiamo alcuni stralci del libro "Mauthausen bivacco della morte" scritto da Bruno Vasari subito dopo la liberazione, nell'estate del 1945, edito dalla Casa Editrice "La fiaccola" di Milano. Si tratta di uno dei primi libri apparsi in Italia sulla tragedia dei lager nazisti

 

di Bruno Vasari

 

Fui arrestato per la strada il 6 Novembre 1944 dalle SS tedesche, assieme a Manlio Magini (Antonio), Bruno Montagna (Ticino) e Aldo Vespa e fui tradotto a S. Vittore. Con noi c'era pure il Belli, il quale, come apparve poi chiaramente, ci aveva traditi, svelando il luogo e l'ora del nostro appuntamento. Mi furono contestati contatti con elementi partigiani. Nulla emerse dell'attività cospirativa in seno alla radio. Tutti i documenti che potevano accusare me e i miei compagni furono fatti sparire subito dopo il mio arresto e pochi istanti prima della perquisizione. Magini elaborò per ciascuno di noi il piano di difesa e riuscì a comunicarcelo, sicché le nostre deposizioni furono concordanti. Nel corso dei due primi interrogatori, durante i quali mi mantenni sulla negativa prima di essermi accordato con Magini, fui schiaffeggiato dalle SS. Non subii alcun altro maltrattamento. Fui isolato per 17 giorni in una cella del 5° Raggio, in cui attraverso i vetri rotti penetrava il freddo. La massima assistenza ci venne prodigata dal medico delle carceri, dall'avvocato De Micheli, pure lui detenuto, che fungeva da assistente e dal personale carcerario addetto all'infermeria. Gli altri secondini si mostrarono in ogni circostanza a noi favorevoli e, nei limiti ridottissimi delle loro possibilità, ci aiutarono. Il 23 Novembre in autobus fummo trasportati a Bolzano, dove giungemmo il mattino del 24. Al momento della partenza l'avvocato De Micheli ci distribuì il denaro inviatoci dal partito. Prima della separazione ci abbracciammo e De Micheli, sottovoce, disse "Viva l'Italia libera!". Fu un momento di grande commozione. Viaggiarono con noi i deportati provenienti dalle Nuove di Torino e da Marassi di Genova. Tra i torinesi c'era Marisa Scala, unica donna ammanettata. Giunti al lager di Bolzano ci furono rasati i capelli ed a ciascuno di noi fu data una divisa che consisteva in una tuta dell'aeronautica italiana con una croce tracciata con pittura ad olio sulla schiena. I detenuti nel campo di Bolzano parte lavoravano e parte no. I lavoratori erano ricompensati con una maggiore razione di vitto: questo, scarso ma ben confezionato, consisteva in caffé al mattino, zuppa di riso e patate o pasta e patate a mezzogiorno e alla sera, e 100 gr. di pane al giorno. I prigionieri venivano ordinariamente lasciati abbastanza tranquilli e solo in casi eccezionali sottoposti a maltrattamenti, per lo più ad iniziativa di giovani SS ucraine o svizzere. Ci caricarono in 66 in un vagone merci, dove rimanemmo stipati per 5 giorni e dal quale, durante il viaggio, fummo fatti uscire soltanto 2 volte. I bisogni corporali venivano soddisfatti nel mezzo del vagone. Ci furono dati viveri in quantità assolutamente insufficiente. Ci dissetammo con la neve. Trascorremmo 15 ore al giorno al buio, senza poterci riposare per deficienza di spazio. Tentativi di fuga dal nostro vagone furono frustrati dalla vigilanza della scorta, dai contrasti tra i prigionieri, alcuni dei quali, per paura delle conseguenze, cercavano di ostacolare le iniziative dei compagni, e per spionaggio. Ricordo il nome della spia: Parisi, di Trieste, ex interprete delle SS. Stalattiti di ghiaccio si formavano sulle pareti del vagone. Per tutta la durata del viaggio udimmo da ogni parte l'eco di formidabili bombardamenti aerei che squassavano il vagone. Giunti alla stazione di Mauthausen la sera del 19 Dicembre, fummo incolonnati ed avviati verso il lager distante circa 6 Km., e situato sulla vetta di una collina (700- 900 m. di altezza) da cui si domina parte del corso del Danubio e la piana di Linz. Il campo di Mauthausen fungeva da colossale deposito che riforniva gli uomini ai campi di lavoro dislocati in tutta l'Austria e in parte della Cecoslovacchia. Al tempo del nostro arrivo non c'erano donne né ebrei. Il campo di Mauthausen era sempre popolato da molte migliaia di prigionieri (10-20 mila). La sorveglianza, l'inquadramento dei prigionieri e la disciplina sul lavoro erano affidati per lo più a delinquenti comuni tedeschi, che si erano conquistati la fiducia delle SS esagerando nella applicazione dei loro metodi bestiali. Nel mese di Marzo il numero dei malati di enterocolite si accrebbe enormemente a causa pare, di un grasso di scadente qualità con cui allora venivano conditi gli alimenti, e i colpiti da diarrea furono lasciati nei loro blocchi. La dieta speciale venne soppressa e gli ammalati non vennero in alcuna maniera curati. Nessuno di essi poté avere né bismuto, né caolino, né acido cloridrico, né carbone. Chi aveva un residuo di forza guariva da sé, ma i più in tre o quattro giorni morivano. Come ho detto, nulla veniva tentato per salvarli: si cercava anzi di accelerare la loro fine. In questo campo mi sembra che gli efferati disegni delle SS abbiano trovato in taluni medici e infermieri troppo docili esecutori. I colpiti da diarrea (fino a 18 scariche al giorno che giungevano improvvise senza che il malato il più delle volte avvertisse alcuno stimolo premonitore) venivano scacciati dal letto dai compagni di prigionia induriti e resi insensibili dalle proprie sofferenze e quelle altrui. I disgraziati raccolti dagli infermieri, denudati e lavati con qualche secchiata d'acqua fredda, venivano scaricati sullo Scheisebett (letto di merda) che consisteva in una tela cerata stesa in terra accanto all'uscio vicino al cumulo dei morti. E tra gli spifferi d'aria gelida, senza coperte, tanti Häflings finirono i loro giorni in questa atroce maniera. I più colpiti furono gli uomini anziani. Ogni giorno le SS con pretesti vari (doccia, lavori nel campo retribuiti con una più abbondante razione di cibo) prelevavano circa 200 individui e li rinchiudevano nella camera dei gas. I primi giorni questi disgraziati si avviavano alla morte ignari della fine che li attendeva; ma poi, nonostante lo stretto isolamento, trapelarono nel campo notizie sulla sorte subita dai compagni prelevati dalle SS, e nell'animo dei restanti prigionieri del campo l'incubo angoscioso della misera fine si alternava con la speranza della liberazione. Col secondo scaglione furono avviati dal Revier al campo per cercare di completare il numero richiesto, anche degli individui che non erano in condizione di reggersi e molti dei quali caddero infatti dopo aver fatto pochi passi. Fu comandata allora una carretta tirata da uomini (le SS avevano stabilito che 6 uomini corrispondevano a un cavallo e così quasi tutti i veicoli che circolavano per il campo di Mauthausen e nelle adiacenze erano tirati da prigionieri anziché da animali o motori), sulla quale vennero caricati coloro che non erano in grado di camminare. Giunta al campo il contenuto di questa carretta venne rovesciato direttamente nelle bocche del forno crematorio, dove furono fatti precipitare uomini vivi e coscienti. Tutto ciò che accadeva al campo venne risaputo al Revier, da dove si vedevano dense volute di fumo uscire dal camino del crematorio in cui bruciavano i corpi dei nostri compagni asfissiati. A quanto mi risulta oltre 200 italiani furono assassinati con i gas. Finalmente il 5 Maggio verso le ore 12 comparve su per l'erta della collina di Mauthausen una staffetta americana protetta da un carro armato e sul pennone del Lager fu innalzata bandiera bianca. La voce si sparse, accorremmo tutti fuori dai reticolati: sani e ammalati. Questi ultimi balzarono dai letti e seminudi, scalzi, barcollando e cadendo si fecero con gli altri incontro ai liberatori. Fu un momento di intensa commozione: i volti di tutti erano rigati di lacrime; e mentre le voci si levavano in coro a cantare gli inni della resistenza di tutta l'Europa, ci stringemmo in un fraterno abbraccio. La staffetta ripartì, i gendarmi tedeschi se ne andarono e per 48 ore il campo rimase nelle nostre mani. Si svelò allora una grandiosa organizzazione preparata nell'ombra e il governo del Revier e del Lager fu assunto da comitati internazionali e nazionali. (il C.L.N. italiano del Revier era così composto: Calore, Partito d'Azione - Bardini, comunista - Micheli, socialista; gli altri partiti non erano rappresentati). Compagni di tutte le nazioni in grado di impugnare le armi mantennero la disciplina, custodirono i magazzini e montarono la guardia al campo. Le cucine e gli altri servizi continuarono a funzionare. Gli americani arrivarono con il grosso delle loro forze e un reparto di carristi prese possesso del campo. Si iniziò per noi un periodo di semi-libertà, poiché non eravamo più schiavi, ma i reticolati e le sentinelle non ci consentivano di essere completamente liberi. Giunsero ufficiali, fotografi, medici, cappellani, una commissione francese ed una sovietica, tutti ad ammirare le bestie rare. Non giunsero invece gli indispensabili soccorsi in viveri e medicinali. Per la confezione dei cibi vennero utilizzate le immense scorte di patate (mille tonn.) di fagioli, di farina di granoturco, di piselli secchi, di carne in scatola, di margarina che i nostri affamatori avevano accumulato. La prima messa fu celebrata dopo l'arrivo degli americani dal genovese Don Gaggero al Lager blocco 10) degli italiani. Ritornava la libertà in uno dei suoi aspetti più preziosi: la libertà di religione e di culto. Il 2 Giugno, a un mese circa dalla liberazione, dopo che avevamo visto partire russi, polacchi, cechi, jugoslavi, ungheresi, francesi, spagnoli, austriaci, e tedeschi, arrivarono finalmente gli autocarri della C.R. internazionale per rilevarci. Fummo stipati come merci e molti di noi dovettero fare il lungo viaggio in piedi; ma tale era la gioia per la partenza che non ne avvertimmo il disagio. Partimmo in 350: si iniziò così una inesplicabile odissea attraverso l'Austria e la Germania. Da Mauthausen attraverso Salisburgo e Monaco fummo trasportati a Höchst sulla frontiera svizzera, nei pressi del Lago di Costanza. Le autorità svizzere non ci concessero il transito perché la frontiera italo-svizzera era ancora chiusa (ma la C.R. internazionale non lo sapeva?). Da Höchst fummo portati a Lustenau e da qui a Feldkirchen, sempre nella zona del Lago di Costanza, ospiti delle autorità francesi, alle quali è affidato il controllo di quella zona dell'Austria. I francesi ci fecero un'ottima accoglienza e ci colmarono di cortesie. Fummo esentati da qualsiasi lavoro, poiché tutti i servizi dei campi dove fummo accolti erano affidati a prigionieri tedeschi. Né sentinelle né reticolati limitarono la nostra libertà di movimento. Fu qui forse che per la prima volta avemmo la sensazione di essere diventati finalmente degli uomini liberi. Ad Innsbruck arrivammo la sera del 6 giugno: raggiunto a piedi dopo una marcia di 5 chilometri in condizioni di estrema stanchezza il campo che doveva ospitarci per la notte. Trovammo delle baracche senza tetti e senza pagliericci, infestate dalle cimici, dove fummo costretti a trascorrere la notte sdraiati per terra. E così prima e dopo di noi migliaia di altri italiani. Non ci fu dato nulla da mangiare. L'indomani mattina camions americani ci trasportarono, attraverso il Tirolo e l'Alto Adige, a Bolzano. Al nostro arrivo mentre ancora eravamo sui camions, ci si strinse attorno una piccola folla di borghesi e di preti, rappresentanti dei Comitati costituitisi dappertutto per accogliere i reduci, che agitando cartelli con nomi di città e paesi prevalentemente della Lombardia gridavano e interpellavano gli uni e gli altri e chiedevano informazioni. Nel loro accento commosso e festoso era la voce della Patria. Un'emozione dolcissima pervase i nostri animi: eravamo finalmente in Italia! Eravamo pochi superstiti, ma in ciascuno di noi riviveva lo spirito dei nostri poveri compagni caduti.

Triangolo Rosso, dicembre 2006

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