Triangolo rosso

Le nostre storie

La caccia nazifascista agli ebrei sul confine del Varesotto fra il 1943 e il 1945

“Maledetti figli di Giuda vi prenderemo!”, grida il milite confinario fascista

 

Fu la parola d’ordine del colonnello Marcello Mereu, comandante della 2a legione “Monte Bianco” della Milizia confinaria della Rsi, che con le truppe tedesche della 5a sezione della “Grenzwache” di Innsbruck, controllò la frontiera italo-svizzera per arrestare chi tentava la fuga. L’80% dei seimila ebrei che tentarono la fuga lo fece dalla “provincia dei laghi”. Non sempre l’impresa riuscì anche per le incertezze della Confederazione elvetica che in qualche caso applicò l’odiosa formula del “respingimento”.

 

di Francesco Scomazzon

 

«Dai, fate un altro piccolo sforzo, ci davano la mano oppure il braccio rincuorandoci: fra qualche ora sarete al sicuro, ogni vostro problema sarà risolto. E infatti, ad un certo punto, prima di arrivare al confine, ci hanno fatto vedere: guardate, basta sollevare quella rete e voi siete a posto. Noi di là non possiamo andare, dateci la mezza figurina e buona fortuna. Si giravano ed emettevano un fischio. In quello stesso istante si accendeva una luce nella casermetta alla nostra destra, venivano fuori dei militari della finanza e gridavano: altolà, siete in arresto! Eravamo storditi, increduli». È il 1° maggio 1944. La voce è quella di Agata Herskovitz, all’epoca dei fatti una ventenne di origini cecoslovacche, sfollata a Fiume e arrestata con il padre Luigi, la madre Rebecca e il fratello diciottenne Tiberio mentre tentavano di varcare il confine elvetico nei pressi di Cremenaga, una località a metà strada tra Luino e Ponte Tresa, in provincia di Varese, che negli anni della Repubblica sociale italiana, vide transitare centinaia e centinaia di uomini e donne, spinti dall’infame legislazione persecutoria, a cercare rifugio nella vicina Svizzera. Basti un dato: l’80% dei circa 6 mila ebrei che tentarono l’impresa, lo fecero dalle montagne, dai laghi, dai fiumi del Varesotto. Ciò per una condizione geografica più favorevole rispetto alle altre zone, dal Novarese, al Comasco, alla Valtellina. Il 16 maggio, a due settimanedall’arresto, dopo essere passati per le carceri di Varese, Como, Milano, ed essere stati risucchiati dal campo di raccolta di Fossoli di Carpi, Agata Herskovitz con il fratello e i genitori, furono stipati con centinaia di altri disperati su carri-bestiame, e spediti per l’ultima destinazione, Auschwitz. Da quell’inferno fece ritorno solo Agata. La collaborazione italiana alla Shoah fu completa: non si manifestò solo dalla passività con cui Prefetture, Questure, Comuni attraverso i podestà, eseguirono gli ordini dei nazisti, ma soprattutto dalla sconvolgente indifferenza, da quel silenzio pericoloso e ambiguo, dai taciti consensi, dalla denuncia dei privati amministratori, dalla vergognosa e squallida chiusura nel privato, da quel semplice gesto che è voltare le spalle alla solitudine, alla sofferenza e al dolore. Parlare di ebrei negli anni della Rsi non è impresa facile. In questo senso il libro Maledetti figli di Giuda, vi prenderemo!, con una prefazione di Franco Giannantoni (il provocatorio titolo è tratto da un fanatico appello del colonnello Marcello Mereu, comandante della 2a legione Gnr confinaria ai suoi uomini) che nasce dalla mia tesi di laurea all’Università Statale di Milano nel 2003, rielaborata con l’apporto di una vasta e inedita documentazione proveniente dagli Archivi della Confederazione, riapre una voragine di ricordi, di paure e connivenze, sommerse con il tempo da un pericoloso oblio, sotto il quale si celano drammi e atrocità di migliaia di disperati. Il 12 settembre 1943, ventiquattro ore dopo il radio messaggio del generale Vittorio Ruggero che consegnava Milano e la Lombardia ai tedeschi, le prime truppe del Reich entravano a Varese, accolte, come venne poi registrato dal prevosto monsignore Alessandro Proserpio, da signore e signorine che senza ritegno erano andate loro incontro con fiori e sigarette. I reparti di giovani SS al comando dello starfuhrer Manfred Gauglitz vennero ricevuti dal prefetto badogliano Giovanni Battista Laura, ex governatore di Roma e dal proconsole Albert Lange, responsabile del locale partito nazista, residente in città già da alcuni anni, che da quel momento si mise al servizio degli occupanti, rendendo loro il compito più agevole. Dei circa 40 milioni di abitanti in Italia, nell’autunno di quell’anno la comunità ebraica nazionale era di 47 mila individui (33 mila quelli nei territori della Rsi) e Varese ne contava appena 163, al quinto posto in Lombardia dopo Milano, Como, Mantova e Brescia. Un’estrema minoranza, travolta da un altissimo numero di provvedimenti, la cui attuazione fu resa possibile dai riscontri documentari risalenti al censimento del 1938, rimasti presso le Prefetture e le Questure purtroppo anche durante la parentesi dei 45 giorni del governo di Badoglio. Le tappe di quella barbara involuzione sono note. La prima è legata alla Carta di Verona, l’atto costitutivo di Salò che all’articolo 7 assimilava gli ex cittadini ebrei a nemici della Rsi. La seconda è del 30 novembre 1943 con l’ordine di polizia n. 5 del ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi con cui veniva decretato il loro concentramento in campi provinciali (per i misti una severa vigilanza) e il sequestro dei loro beni mobili e immobili. L’arresto e la deportazione si configurarono in questo modo come l’ultimo anello di un percorso in cui razzie, sequestri e confische, segnarono irrimediabilmente quel solco di disvalori generato dalla repubblica collaborazionista di Mussolini. La comunità ebraica, locale e nazionale, fu spogliata di tutti i suoi averi, e ciò avvenne con azioni di autentico saccheggio o con atti amministrativi controfirmati dai capi delle province. Il capo della provincia di Varese Mario Bassi ed il suo successore Enzo Savorgnan di Montaspro controfirmarono decine e decine di confische apparse regolarmente sulla Gazzetta Ufficiale d’Italia. Lunghi elenchi di povere cose trovate addosso agli ebrei in fuga catturati lungo la montagna e oggetti di valore sequestrati nelle operazioni d’arresto nelle abitazioni. Gli ebrei inoltre vennero privati del diritto di essere proprietari e gestori di aziende, né di avere delle stesse la direzione o altri incarichi. Gli oggetti razziati, in molti casi finirono nelle tasche di qualche scaltro funzionario, o furono ammassati in un deposito in pieno centro a Varese, affidato al funzionario prefettizio Otello De Gennaro, futuro prefetto della Repubblica italiana, fatto oggetto di assalti di bande di fascisti e nazisti a caccia di tesori.

Varese, calamita per la fuga oltre confine, in Svizzera

Il tratto della regione dei laghi, 80 chilometri tra Luino e i confini della provincia di Como, passando per il Ceresio, è una zona di colline e modeste montagne, facilmente accessibili nonostante le lunghe ore di cammino nei boschi, e soprattutto ben collegate con il capoluogo lombardo, una condizione che, come detto, trasformò la provincia di Varese in una potente calamita per migliaia di ebrei provenienti non solo dal territorio nazionale, ma finanche dai paesi balcanici e dall’est Europa. Gli occupanti tedeschi, che già ne avevano rilevato l’enorme forza industriale, avvertirono immediatamente anche la straordinaria posizione strategica, e così il 16 settembre 1943, con una rapida azione condotta da riservisti della 5a sezione della Grenzwache della Scuola di Innsbruck, diedero inizio alla progressiva occupazione dei posti di confine. Il compito di questa polizia speciale alle dirette dipendenze di Karl Wolff, comandante generale delle SS, era di impedire la formazione di bande partigiane che potessero creare problemi di ordine pubblico, arrestare i soldati italiani disertori, gli ex prigionieri anglo-americani internati nei campi fascisti e gli ebrei che avessero tentato di sconfinare clandestinamente. Con il contributo operativo dei confinari della 2a legione Monte Bianco (quella di Mereu), il 19 settembre furono occupate Ponte Tresa e Porto Ceresio, due giorni dopo Zenna e Luino poi, una dopo l’altra, caddero le stazioni di Pino Lago Maggiore, Dumenza, Saltrio, Clivio, Viggiù e Gaggiolo, località immediatamente a ridosso del confine, dove lo schieramento nazifascista non solo era più capillare, ma anche dove i fuggiaschi potevano trovare più facilmente rifugio e raccogliere le idee prima dell’ultima tappa verso la libertà. Un’impresa difficile, spesso disperata, non sempre organizzata con le dovute cautele, affidata ora a contrabbandieri, ora a spalloni che in qualche caso, incamerata la tassa, dalle 5 alle 10 mila lire, si trasformavano in voraci predatori, spogliando la vittima dei suoi averi per poi consegnarla ai fascisti o ai tedeschi, da cui intascavano le eventuali taglie. Si trattava in molti casi di associazioni informali che raggruppavano profittatori, persone avide di denaro, affaristi in genere che, pur non dedicandosi al tradimento sistematico, fingevano occasionalmente l’incidente e vendevano i fuggiaschi ai fascisti o ai nazisti. Viaggi della speranza che si trasformavano così in viaggi del tradimento, pur non essendoci alternative, se non il rischio della cattura in territorio italiano dove, per i più, era difficile sopravvivere. C’erano tragitti classici, facili e difficili, e questo serviva a determinare le tariffe che potevano lievitare fino a 40 mila lire, se la via era lunga, impervia, densa di pericoli, come quelle che da Luino conducevano al Monte Lema, ad Astano, ma anche da Caldè, Gera, Cremenaga fino alla località Ponte di Ferro, o da Mesenzana attraverso Brezzo di Bedero, Roggiano e Voldomino. Percorsi segnati nell’oscurità e nel silenzio della notte, dalla paura, dalla necessità irrinunciabile di fuggire e mettersi al riparo da una realtà sconvolgente, che ormai non lasciava spazio neppure alla più tenue speranza.

La “zona chiusa”, ultima trappola di Mussolini

Il 15 agosto 1944 entrò in vigore un’ordinanza del capo della provincia Mario Bassi, che diede attuazione al decreto della zona chiusa, approvato da Mussolini il 24 maggio precedente. Si trattava di un’enorme sacca in cui nessuno poteva risiedere, della profondità di circa tre chilometri, che copriva il confine da Iselle, in provincia di Novara, e terminava a Lanzo d’Intelvi, nell’alto Comasco. Il tentativo miseramente fallito, era di bloccare l’emorragia di ebrei e fuggiaschi in genere, colpendo le popolazioni locali, costrette a pesanti migrazioni interne con il loro bestiame. L’aiuto, frutto di una nuova consapevolezza esercitata da individui che, avendo capito la bassezza a cui si era approdati, decisero con modi, possibilità e tempi diversi, di prestare soccorso a quegli sventurati, finiva dove presumibilmente iniziava la salvezza, in Svizzera. In realtà, varcare clandestinamente il confine, non sempre significava lasciarsi alle spalle mesi di peregrinazioni e paure. Gli ebrei, fra tutti i fuggiaschi, erano i più deboli della catena, infatti nei loro confronti la Confederazione non prevedeva leggi speciali per un’accoglienza che aveva tutte le caratteristiche d’urgenza. Gli ebrei, a differenza di altri, non erano una categoria. Potevano essere accolti militari disertori, prigionieri di guerra evasi, militari in ritirata, i civili oltre i 65 anni di età, le donne incinte, ragazzi e ragazze minori di 16 anni, ma anche coloro che avessero parenti nella Confederazione, i perseguitati politici, i malati gravi, ma non gli ebrei. Le logiche di equilibrio, la paura di essere invasi da disperati senza mezzi di sussistenza, spesso malvisti non solo dalla popolazione, ma dagli stessi funzionari, tra i quali serpeggiavano i comuni sentimenti di diffidenza e di razzismo, consigliarono per diverso tempo l’odioso respingimento in territorio italiano (refoulement), come accadde a Liliana Segre, tredicenne milanese che giunta in Svizzera con il padre Alberto, fu ributtata in Italia dove i militi fascisti l’arrestarono inviandola ad Auschwitz dove sopravvisse (il padre morì). Nonostante la politica equivoca, spesso altalenante della Svizzera, che provocò altri ostacoli agli ebrei in fuga, contribuendo sensibilmente a far sì che il governo nazista conseguisse i suoi obiettivi, migliaia di fuggiaschi (45 mila fra militari e civili compresi 6 mila ebrei), furono accolte da uno Stato, che ancora negli ultimi anni di guerra, veniva rappresentato come meta idealizzata, quasi irraggiungibile e impensabile, racchiuso in un’Europa inginocchiata da un’immane guerra.

Triangolo Rosso, ottobre 2006

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