Triangolo rosso

Le nostre storie

La morte del pittore Agostino Barbieri. Le sue opere conservate nell’archivio del Castello Sforzesco di Milano. Il giudizio di Primo Levi

Barbieri: sopravvissuto a Mauthausen sublima il martirio con l’arte

 

È deceduto il pittore Agostino Barbieri, combattente per la libertà e deportato a Mauthausen. Barbieri, come scrive il presidente dell’Aned Gianfranco Maris in un telegramma alla famiglia, è stato un indimenticabile compagno e un grande artista, che ha saputo consacrare in opere pittoriche insigni il dramma e la memoria della deportazione.

 

di Eliana Barbieri

 

Agostino Barbieri è morto la mattina del 13 agosto di quest’anno. Aveva lasciato scritto, in una nota, di volere essere cremato per “passare per il camino” come i suoi compagni di prigionia del campo di stermino. L’esperienza del lager aveva segnato profondamente la sua vita. Orfano di guerra, era cresciuto senza padre. Pur essendo di umili origini, era riuscito a studiare all’Accademia Cignaroli e a conseguire, come privatista, il diploma al liceo artistico. La chiamata alle armi lo aveva portato sul fronte jugoslavo e, in un secondo momento, a partecipare alla campagna di Russia. Dopo l’8 settembre si era schierato prontamente nel campo antifascista, collaborando attivamente nella lotta partigiana. Arrestato dalle brigate nere nel novembre del ‘44 era stato trasferito al campo di smistamento di Bolzano, prima, e a Mauthausen, poi. Nelle pagine della sua autobiografia, pubblicata nel 1989, Un cielo carico di nere, troviamo il racconto dettagliato di questo periodo. La deportazione, la vita nel campo, l’amicizia con Piero Caleffi, l’efferata violenza delle SS, il degrado fisico e morale dei prigionieri, sono descritti con laborioso distacco. Con umiltà, non priva dell’ironia che lo contraddistingueva, Agostino in queste pagine tenta di offrire la sua esperienza nella verità dei quei giorni, con pudore, ma con la ferma volontà di svelare, come altri superstiti di quella barbarie, il terribile segreto che le mura dei campi di sterminio custodivano. Non manca un momento di disperata poesia. Dopo averci descritto le morti, le fatiche del lavoro, le torture, scrive:

«Una notte ebbi bisogno di alzarmi per andare al gabinetto e perciò dovetti uscire all’aperto. Il disco lunare brillava nella sua perfetta rotondità in un cielo stellato che copriva il vasto paesaggio innevato. Davanti a me, quasi incollate al pendio, come in un disegno di bambino, si vedevan le piccole case e il campanile del paese. Tutto era avvolto in una luce siderale, spettrale, metafisica. La realtà si era fatta sogno, poesia. Per un attimo mi sentii libero dalla morsa che da mesi, ormai, mi stringeva e stava per stritolarmi. Avrei voluto volare per staccarmi da tutto quello che succedeva sulla terra. Come si sa i sogni sono brevi e il mio fu un lampo. La presenza della SS che stava di guardia mi riportò alla realtà. Quella notte ritornando nella mia cuccetta, piansi come mai prima mi era accaduto.»

Sopravvissuto, provato nel corpo e nello spirito, aveva trovato nell’arte la sua libertà. I vivi colori delle sue tele, le linee morbide e curve, le donne, i paesaggi gardesani che vi raffigurava, sono la testimonianza di un riscatto dalla immensa tragedia. Riscatto ispirato alla consapevolezza della fragilità delle cose e degli uomini. I suoi dipinti sono la rappresentazione di una felicità in bilico, pronta ad essere spazzata via dai capricci della crudeltà umana. Conscio della responsabilità, insita nella sua condizione, aveva accettato il gravoso compito di essere testimone di questa tragedia. Il ciclo dei Disegni della Deportazione, oggi conservato nella Civica Raccolta d’Arte del Castello Sforzesco di Milano, composto da disegni a china, quasi schizzi nella loro elementarità e furia del gesto, che, con segni netti e precisi, raccontano gli orrori del lager, è solo una parte del suo immenso lavoro per non dimenticare. Fin negli ultimi anni della sua vita, incontrava i giovani delle scuole per trasmettere alle nuove generazioni l’ingrato ricordo attraverso i suoi disegni e le immagini d’archivio di quel periodo, immagini che lui confidava più forti di qualsiasi parola, come nelle parole di Primo Levi che riportiamo qui accanto.. L’estrosa personalità, il piacere del dialogo, sempre pronto alla battuta e al riso hanno sempre affascinato chi ha avuto l’occasione di conoscerlo. Se la sua voce si è spenta, rimane nelle sue opere la testimonianza di un uomo che ha vissuto profondamente gli avvenimenti del suo secolo e il monito semplice, triste e allegro a vivere la vita e a non tollerare mai che genocidi simili a quelli perpetrati dal nazifascismo, o qualsiasi altro tipo di dissennate crudeltà, si ripetano.

 

Le immagini del ricordo più forti di ogni parola

A questo proposito Primo Levi ha scritto:

 

«È stata notata da molti la necessità, per chi ha subito esperienze estreme, di esprimersi, di trasmettere agli altri la sua storia di vita: spinto a ciò sia da un imperioso bisogno interno, di liberarsi raccontando, sia dal dovere civile di portare testimonianza. Ma spesso, ognuno di noi ex deportati se n’è accorto, le parole non bastano, si rivelano deboli, inferiori al compito. Per Agostino Barbieri, dove la parola fallisce, subentra l’immagine: le sue danze macabre di

corpi scheletriti sembrano scaturite, ad anni e decenni di distanza, dalla memoria indelebile e collettiva che l’offesa di allora ha lasciato in noi. Eternano un ricordo, lanciano un ammonimento, e contengono un messaggio di validità universale e perpetua».

Triangolo Rosso, ottobre 2006

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