Triangolo rosso

Le nostre storie

Grazie a un documento conservato nel Museo della Risiera di San Sabba

Si riabbracciano dopo 60 anni due deportate a Ravensbrück

Una di loro nascose per tutto il periodo della detenzione un elenco con i nomi e gli indirizzi di una cinquantina di compagne di prigionia.

Un ragazzo di Como individua tra i nomi quello di una deportata che aveva raccontato la sua esperienza agli studenti della scuola media di Faloppio.

 

di Francesco Fait *

Trieste, 1° ottobre 2005.

Nella Risiera di San Sabba accade qualcosa di speciale: dopo sessant’anni si sono rincontrate Ines e Albina, due sopravvissute ai campi di Auschwitz e Ravensbrück. L’atmosfera è più lieve del solito, gli edifici spettrali e la consapevolezza delle cose accadute durante la guerra incombono meno di quanto accada normalmente. Si respira un’aria che una delle due, la Ines, definirà di “gioia pacata” lasciando la sua testimonianza scritta nel libro dei visitatori. Nel Museo le sopravvissute si sono scambiate baci, abbracci e mazzi di fiori, e hanno rievocato tratti di quel terribile passato che le ha tenute legate per tutta la vita con un filo invisibile, che circostanze casuali e persone di buona volontà hanno permesso di dipanare. Poi è sgorgato l’applauso a lungo trattenuto e si sono viste molte persone – soprattutto tra i ragazzi della scuola di Faloppio, Como – con gli occhi umidi. Le sopravvissute si chiamano Rosalia Poropat (ma il nome di battesimo consta solo agli atti ufficiali dato che per chi la conosce è stata sempre Albina), istriana dell’altopiano dei Cicci, di nazionalità croata, da una vita trapiantata a Trieste, e Ines Figini, lombarda di Como. Anche se non è elegante, tocca annotare che la prima ha novantuno anni, la seconda circa dieci di meno. Si sono conosciute sessant’anni fa, nel lager di Ravensbrück, il famigerato “inferno delle donne”. Entrambe sono state tra le poche a sopravvivere e quindi hanno avuto la fortuna di poter tornare alla vita civile, ciascuna a casa propria per riprendere in mano il corso della propria esistenza, ciascuna dimenticando a poco a poco voce e fattezze dell’altra. Ma l’intreccio di queste due vite non era destinato a cadere nell’oblio perché una delle due, l’Albina, ai tempi della deportazione aveva deciso che non poteva permettere che quello che stava capitando a lei e alle sue compagne venisse un domani scordato, o negato, o mistificato. Per questo aveva sottratto una striscia di carta all’officina presso cui era costretta a lavorare, si era procurata una matita all’anilina, aveva vergato nomi e indirizzi di alcune delle sue compagne e aveva custodito la striscia tenendola arrotolata sotto l’ascella in ogni momento della giornata fino alla liberazione e poi ancora, dopo liberata, durante il lungo viaggio di ritorno. E in anni a noi vicini, nel 2001, dopo averla tenuta per sé in casa per più di cinquant’anni, aveva deciso che quella striscia non doveva restare più un affare privato e che era giunto il momento che assolvesse al dovere di testimone che le aveva destinato. La striscia era stata donata al Museo della Risiera di San Sabba ed era rimasta esposta, finché, nel marzo del 2005 era stata adocchiata da Francesco Baj, un ragazzo sveglio di Faloppio, in provincia di Como, venuto in gita d’istruzione con una classe preparata da insegnanti amorevoli e condotta in visita guidata con professionalità garbata da un’operatrice del Servizio Didattico dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste. Francesco si era preso la briga di leggere tutti i cinquanta nomi di quella lista compilata tanti anni prima, sbigottendosi nello scoprire che una delle cinquanta, Ines Figini, era proprio quella signora venuta poco tempo prima in classe a fare lezione su lager e deportazione. Infine, l’entusiasmo e lo spirito organizzativo degli operatori della scuola di Francesco e del Museo della Risiera di San Sabba avevano fatto intessere contatti febbrili culminati in quell’incontro emozionante. Ma la storia di Albina e Ines e di questo loro legame sotterraneo riemerso dopo sessant’anni è talmente appassionante che vale la pena di ripercorrerla con qualche particolare in più.

Como, marzo 1944

Il Comitato sindacale interregionale di Piemonte, Liguria e Lombardia ha indetto uno sciopero per boicottare l’economia delle zone ancora occupate dai nazifascisti allo scopo di accelerare lo schianto delle potenze dell’Asse. La mattina del 6 marzo alcuni attivisti affiggono i manifesti di stampa clandestina che pubblicizzano lo sciopero nei locali della più grande fabbrica tessile lariana, la Tessitura Comense. Ad osservarli c’è, tra gli altri, Ines Figini, una ragazza che ha poco più di vent’anni, che ama leggere e fare attività sportiva, che non si interessa e non si è mai interessata alla politica ma che aderirà lo stesso allo sciopero, come tutti gli altri operai dello stabilimento. Scatta la rappresaglia e vengono arrestati gli organizzatori della mobilitazione, cinque uomini e tre donne. Ines è giovane ed ha uno spiccato senso di giustizia e proprio non ce la fa a tacere: fa notare - “per un impulso di difesa e di solidarietà” - dirà decenni dopo - che se allo sciopero avevano aderito tutti non era giusto che a pagare fossero solo in otto. Non è altro che una riflessione pacata, improntata ad un elementare senso di giustizia, ma che nell’Italia di allora può richiedere a chi osa farla – e infatti richiede - un prezzo altissimo. Ines viene arrestata, condotta a Bergamo e da qui deportata ad Auschwitz, che raggiunge il 20 marzo. Ad Auschwitz cessa di essere Ines Figini per diventare un numero, il 76150. Ad Auschwitz lavora alla bonifica dei terreni vicini al lager; ce la fa a sopravvivere, è una delle poche, ma quando arrivano i sovietici a liberare il campo il 27 gennaio 1945, lei non è là ad accoglierli, non può, è stata appena trasferita a Ravensbrück.

Vodizze, Istria, agosto 1944

Albina Poropat vive a Trieste da una decina di anni. Dal settembre del 1943, Trieste fa parte dell’Adriatisches Kuenstenland assieme alle province di Pola, Fiume, Gorizia, Udine e alla zona di Lubiana occupata dall’esercito italiano a seguito dell’invasione nazifascista alla Jugoslavia dell’aprile del 1941. Si tratta di territori sottratti alla giurisdizione della Repubblica sociale italiana ed amministrati direttamente dai tedeschi, probabilmente per entrare in futuro a fare parte a tutti gli effetti del Reich. L’occupante istituisce un apparato repressivo tra i più efficienti e spietati, che ha il suo perno nel lager triestino della Risiera di San Sabba, campo di transito per ebrei e di eliminazione di partigiani ed oppositori politici italiani, sloveni e croati. La posizione geografia del litorale adriatico è essenziale per le sorti del conflitto in quanto funge da cerniera tra la Germania e i teatri di battaglia dell’Europa meridionale ed orientale. Da questo punto di vista è di primaria importanza la strada che collega Fiume a Trieste e che fa da confine in senso longitudinale alla Cicceria, una regione abitata a nord da sloveni e a sud da croati che è una vera e propria spina nel fianco nell’apparato militare del Reich, essendo “infestata da bande”. È la terra in cui è nata Albina, ed è la terra in cui, a Vodizze, viene arrestata il 10 agosto del 1944. Il bilancio di quella data è tra i più funesti del litorale adriatico, una delle zone maggiormente insanguinate d’Italia. In quel giorno, in quei paraggi, decine di villaggi vengono rasi al suolo e incendiati e centinaia di persone vengono deportate, un numero imprecisato sono gli assassinati. Albina si trova a Vodizze per caso, è andata a trovare la mamma rimasta al paese. Ma comunque fa parte della Resistenza, è staffetta partigiana, porta messaggi nascondendoli nei risvolti della gonna. Viene portata a Trieste, alle carceri del Coroneo, poi in camion fino a Monfalcone. Da qui in treno ad Auschwitz che raggiunge il 21 agosto 1944. Ad Auschwitz rimane pochi giorni e in settembre è a Ravensbrück, il famigerato “inferno delle donne” che si trova a un’ottantina di chilometri da Berlino.

Ravensbrück, estate 1944

Albina diventa la numero 73705. Ogni mattina si sveglia alle tre assieme alle sue compagne e dopo l’interminabile rituale dell’appello si mette in marcia. Per raggiungere la fabbrica in cui lavora tocca camminare per ore ed è dura anche perché l’unico vitto è rappresentato da patate. Il lavoro si svolge in uno stabilimento in cui si costruiscono rotoli di micce per esplosivi ed è qui che si impossessa della striscia di carta - larga dieci centimetri e lunga più di due metri - e della matita all’anilina e si mette a scrivere i nomi e gli indirizzi di cinquanta sue compagne di sventura, prevalentemente di Trieste, dell’Istria e del Goriziano, ma anche di altre province italiane e persino ceche, croate, francesi. Tra esse c’è anche Ines Figini, via Tommaso Grossi 25, Como. Il 30 aprile 1945 l’Armata Rossa libera il lager di Ravensbrück. Albina cessa di essere la numero 73705 e può riassaporare la libertà. Ines no, non ancora, a lei toccherà solo il 5 maggio. Ines deve passare ancora un’ultima prova, forse la più tremenda, una delle famigerate “marce della morte”. Poi, piano piano, per entrambe, il ritorno alla vita civile, con una voglia di normalità talmente spiccata da indurre Albina con altre reduci della deportazione a destinare, sulla via del ritorno al Brennero, gli unici marchi da loro fortunosamente raccattati in un taglio decente con messa in piega ai capelli ricresciuti nel frattempo. Ciascuna torna a casa, Ines a continuare ad appassionarsi allo sport e alla lettura, Albina a mettere su famiglia. Entrambe mantengono per decenni il riserbo sulle vicissitudini della deportazione. Entrambe accetteranno di parlare della propria esperienza solo in anni a noi molto vicini: Ines partecipando a un ciclo di conferenze nelle scuole della sua provincia, Albina (che comunque è da sempre iscritta all’Associazione nazionale ex deportati dove è ogni anno la prima a recarsi in sede ad onorare la quota annuale d’iscrizione) offrendo la sua testimonianza agli storici nell’ambito di “Ultimo Appello”, un’iniziativa di salvaguardia della Memoria curata proprio dall’Aned.

Trieste, 12 marzo 2005

La Risiera di San Sabba, che ogni anno riceve decine di migliaia di visitatori (l’anno dei record è il 2004 in cui si ha un’affluenza di oltre 130.000 persone), è un caleidoscopio di gioventù. È il periodo dell’anno in cui si effettuano le gite scolastiche e ci sono scolaresche che provengono da tutta Italia (ma anche dall’estero, soprattutto dalle vicine Austria, Slovenia e Croazia ma non solo), molte delle quali condotte in visita dalle guide del Servizio Didattico dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste. Sono, queste, guide che brillano per preparazione essendo tutti laureati in materie storiche e scelti a seguito di selezione pubblica. E bisogna ammettere che la reputazione del livello di eccellenza raggiunto dal Servizio Didattico attira sempre più utenti anno dopo anno. L’approccio dei giovani con un luogo difficile come la Risiera di San Sabba è molto vario, ed è essenziale da questo punto di vista il lavoro preparatorio svolto dagli insegnanti a scuola oltre alla professionalità delle guide. Gli insegnanti della scuola media di Faloppio, Como, hanno seminato molto bene, e i frutti si vedono. Francesco Baj, alunno della classe terza, si imbatte nel rotolo di carta compilato da Albina tanti anni prima e donato al Civico Museo della Risiera di San Sabba nel 2001 e vi scopre il nome di Ines Figini. Da questo momento scattano febbrili i contatti tra la scuola e il Museo ed è grazie alla caparbia volontà della direzione del Museo che le difficoltà contingenti possono essere superate, rendendo così possibile il commovente incontro pubblico del 1° ottobre 2005. Resta da aggiungere che l’incontro pubblico ha un prologo privato, richiesto dalle due sopravvissute, che si è svolto il giorno prima, il 30 settembre 2005, a casa della Albina, un appartamentino sito a Coloncovez, un rione della periferia triestina, in cui la signora vive da sola circondata da affetto e fotografie di figli, nipoti e pronipoti. Cosa si siano dette le due donne in quel momento non si sa, è rimasto un fatto privato, e a noi pare giusto che sia stato così. Questa storia offre molti spunti di riflessione, vorremmo dire di insegnamenti. Ci insegna che anche in un luogo infernale quale era un lager della Germania nazionalsocialista erano possibili gesti di resistenza umana come quello osato da Albina Bosich Poropat a Ravensbrück. Gesti eroici (Albina sapeva che qualora la sua lista fosse stata scoperta la pena sarebbe stata la morte), eppure compiuti da persone normali. Quasi una banalità del bene, nel senso di un bene consapevole eppure naturale, da contrapporre alla banalità del male di chi stava dall’altra parte di cui ci ha parlato Hannah Arendt nell’omonimo libro. E infine ci insegna quanto resti ancora fertile e insostituibile il ruolo della scuola e della didattica mussale che, grazie anche al contributo dei dirigenti dell’Associazione nazionale ex deportati di Trieste, hanno permesso di riannodare un filo invisibile che da sessant’anni continuava a tenere legate due persone. Ha detto Adriano Dugulin, direttore del Civico Museo della Risiera di San Sabba: «Si tratta di un evento di straordinaria importanza, non solo da un punto di vista umano, ma anche di alto significato morale e civile per la trasmissione della memoria ai giovani, perché nato in un percorso educativo.»

*Civico Museo della Risiera di San Sabba, Civici Musei di Storia ed Arte

 

Come Teresa Noce descrive Ravensbrück

 

Fra le deportate nel campo di sterminio di Ravensbrück c’era anche Teresa Noce, valorosa combattente nella guerra di Spagna, giornalista con il nome di “Estella”, membro della direzione del Pci. Dal suo libro Ma domani farà giorno stralciamo una sua descrizione del lager nazista:

Chi può descrivere Ravensbrück? Non che le baracche siano brutte, luride, sporche. Nei

campi, i tedeschi conoscono l'arte di far morire i deportati tra gli insetti e la sporcizia e di mantenere un’apparenza di ordine e di pulizia nelle baracche e nei campi. Così vuole la “kultur” tedesca e nazista. Attorno alle baracche, una striscia verde, qualche volta perfino dei fiori. Ma il campo è lastricato, tra una baracca e l’altra, di polvere di carbone; e camminando, la polvere si solleva, sporca, penetra ovunque. Le deportate hanno tutte l’apparenza di carbonaie. Questo fa parte, come saprà più tardi Giovanna, del sistema di tortura lenta e scientifica. Squadre di deportate circolano, comandate e circondate da SS uomini e donne. Sono le squadre di lavoro. E all’entrata e all’uscita dal campo sono obbligate a marciare al passo e a cantare inni tedeschi. Guai a chi sbaglia un passo! Guai a chi non canta! Bastonate, digiuno, cella di rigore. E qualche volta peggio. Quelle che tornano dal lavoro hanno quasi tutte la zappa in ispalla. Tornano dal lavoro di sterro o dalla palude. Dodici ore di lavoro al giorno: dalle sei della mattina alle sei di sera. E la domenica come i giorni feriali. Poi vi sono quelle che lavorano nella grande officina Siemens che sorge lì accanto, tra il campo femminile e quello maschile. È alimentata solo dal lavoro dei deportati, uomini e donne. Le nuove arrivate guardano, guardano. E aspettano. Come già a Saarbrücken, anche qui aspettano per ore ed ore di essere registrate, perquisite, spogliate di tutto. Sempre in piedi, immobili, senza una goccia d’acqua, senza un pezzo di pane. Quando una delle disgraziate fa un movimento o cerca di sedersi, un colpo di bastone la rimette in piedi. Così, dalle 5 del pomeriggio alle 11 di sera.

Triangolo Rosso, ottobre 2006

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