Triangolo rosso

Una biografia di Giannantoni e Paolucci su Giovanni Pesce

Le molte prove del fuoco del comandante dei Gap

 

di Adolfo Scalpelli

 

In Spagna si intrecciavano le lingue di un continente intero. Forse non ci fu paese europeo che non fosse rappresentato nelle trincee della guerra civile. Dalla parte delle Brigate internazionali. Giovanni Pesce parlava la sua lingua personale, il suo italiano francesizzato o il suo francese di emigrante in quella babele di lingue. Era giovane, diciotto anni, forse anche spaesato, ma così convinto della sua scelta che la considera da sempre e per sempre la più importate della sua vita, quella fondamentale, quella che ha fatto discendere a cascata tutte le altre. Giannantoni e Paolucci, intervistandolo, hanno ripercorso  le sue imprese militari, la sua vita politica, gran parte della storia del Novecento. Ormai il nome di Pesce affianca, nell’albo d’oro dell’antifascismo, le figure divenute ormai quasi leggendarie nella storia delle rivolte contro le oppressioni autoritarie dell’Europa fra le due guerre. Proprio in virtù della ricchezza di argomenti di questa conversazione con Giannantoni e Paolucci che hanno “arato” la memoria dell’intervistato, Pesce assume appieno la figura del combattente di lungo corso, si delinea il percorso di una vita, i momenti determinanti del suo essere. Uno di questi è l’emigrazione, decisione presa dalla sua famiglia, quando lui aveva cinque anni, per vivere. In Francia anche per lui, a tredici anni, la miniera, come suo padre e, di conseguenza, il primo impatto con una condizione di vita che gli permise di prendere coscienza dello stato di sfruttamento di classe in cui viveva la società capitalistica. Forse, prima ancora di incontrare Marx, è la sua pelle a fargli comprendere cosa sono le classi sociali, il capitalismo e il proletariato, la vendita della propria forza lavoro, lo sfruttamento inumano, i diritti e le rivendicazioni sindacali. Gli nasce dentro, come conseguenza diretta, il bisogno di politica e in quella Francia turbolenta degli anni Trenta, in quella Grande Combe, una concentrazione di miniere e di minatori, dove viveva, lo attira la Gioventù comunista. E inizia il suo percorso politico che dura ancora. Quella fu certo la scuola, la sua università degli studi, lì circolava la parola “classe” che dava un significato nuovo alla sua vita, che lo riempiva del senso di appartenenza a una nuova grande famiglia. E tutto il suo futuro sarà segnato da questa scelta di campo. Se decide di lasciare la Francia e di andare a combattere in Spagna - con tutta la carica di ribellione che ha dentro contro questo nuovo fascismo in un paese europeo - è perché la scuola della Grande Combe ha dato i suoi primi frutti. Ha diciotto anni, Pesce, e inizia per lui, allora, il “tempo del furore”, come Giorgio Agosti ha definito la guerra di Liberazione. Un “furore” molto anticipato per Pesce che fa implicitamente sua la parola d’ordine di Rosselli, “oggi in Spagna, domani in Italia”. Ora è entrato nei ranghi delle Brigate internazionali con tanti volontari di tanti altri paesi, di tanti ideali, ma con la volontà comune di salvare il popolo spagnolo combattendo con il popolo spagnolo. Forse allora non sapeva di andare a combattere su una terra dove 124 anni prima era nato per la prima volta il fenomeno della guerra di guerriglia condotta dai contadini spagnoli, senza divise, senza regolamenti, senza insegne, ma con l’appoggio della popolazione, contro l’occupazione napoleonica. Una forma di lotta che proprio un italiano, Carlo Bianco conte di Saint-Jorioz, teorizzerà in un libro sulla Guerra nazionale per bande applicata all’Italia. Quella del 1936 in Spagna non fu guerra per bande, ma fornì egualmente una ricca esperienza utilizzata da Pesce nella guerra di Liberazione. Non lo dice, Pesce, nella particolareggiata rievocazione dedicata a questo periodo, ma certo si è reso conto che quello che ha commesso è un profondo gesto di rottura con la vita “normale”, che in quel modo si tagliano tutti i ponti col passato, che la strada del futuro è del tutto sconosciuta. Entra, allora, volente o nolente, in una categoria di uomini che rappresenta un’élite europea, una minoranza eroica e rivoluzionaria che dà battaglia alle dittature d’Europa, spesso drammaticamente isolata in quella sorta di inettitudine collettiva che ha lasciato vincere i fascismi con la conseguente catastrofe universale. Dalla decisione di essere in Spagna a combattere non poteva non scaturire, a suo tempo, dopo aver provato il carcere fascista, la determinazione di essere dalla parte della Resistenza in Italia. Comincia per lui una nuova stagione che nei lunghi mesi della battaglia è solo esistenza clandestina nei Gap, Gruppi di azione patriottica, dominata da pericoli estremi e solitudine dell’uomo altrettanto estrema. Perché Pesce, con il nome di battaglia di “Visone”, accetta la più rischiosa forma di lotta contro tedeschi e fascisti, quella che in ogni momento sfida la morte solitaria su un marciapiede della città, prima a Torino e poi a Milano. L’intervistato nelle risposte alle domande che gli vengono poste su questo periodo della sua vita non nasconde le paure, i timori, i pensieri di quei mesi, l’esacerbazione di un cuore innamorato che non sa dove sia finita “Sandra”, la sua donna, staffetta partigiana, arrestata e finita in carcere e deportata. Una solitudine, un isolamento pesante interrotto solo dagli incontri nell’ombra con i membri del Partito comunista e le azioni di guerriglia, ormai leggendarie individuali o in collaborazione con altri uomini altrettanto soli, altrettanto isolati, ombre in zone d’ombra. Finita la guerra, vissuta la Liberazione, ricevuta una medaglia d’oro sul campo, c’è ancora una decisione che Pesce deve prendere: vita borghese o militanza politica? Non mi pare abbia avuto dubbi. Le risposte alle domande non ne lasciano scorgere. È vita politica, vita pubblica, quella che sceglie. E studio, tanto studio, anni da recuperare, problemi da affrontare per capirli, per spiegarli. E anche negli anni della vita politica il carattere fermo, che non accetta accomodamenti, transazioni o compromessi. Ma proprio queste peculiarità lo fanno anche essere prudente quando, con l’incalzare delle domande degli intervistatori, si vorrebbero affrontare argomenti che ancora oggi galleggiano in alcune zone d’ombra: l’affaire Secchia-Seniga, le ragioni del repentino abbandono dell’incarico di responsabile della sicurezza del Pci. Forse non sempre gli è stato agevole uscirsene con una risposta non deludente, tuttavia ha lasciato che trapelassero il suo pensiero, la sua posizione, forse la sua delusione. Perché anche di delusioni è fatta la vita di Pesce e, un esempio, sull’amnistia ai fascisti, firmata dal guardasigilli Palmiro Togliatti, la sua risposta non lascia dubbi. Allora qual è il responso da dare alla fine della “lettura” della vita di Pesce? È stato protagonista del suo tempo, non testimone, non vittima, ma attore. Vive, e ha vissuto, la sua esperienza politica e civile, descritta anche in fortunate autobiografie. Non accetta l’esistenza di sacche di paludi morali intorno a noi. Serenamente e con risolutezza continua, con altri mezzi, la stessa battaglia di libertà combattuta in Francia, in Spagna, nella Resistenza e nella democrazia.

Triangolo Rosso, maggio 2006

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