Triangolo rosso

Ricordando il 1° aprile del 1945

La Pasqua di 61 anni fa in una Varsavia distrutta dai tedeschi

Liberati dall’Armata Rossa arriviamo nella capitale ridotta ad un cumulo di macerie

 

 di Ibio Paolucci

 

Reduci dal lager di lavori forzati liberati dall’Armata Rossa, arrivammo in una spettrale Varsavia una diecina di giorni prima della Pasqua, che, nel 1945, ricorreva il 1° aprile. Faceva ancora freddo, ma non più venti gradi sotto zero come nei giorni passati. Ora era in corso il disgelo e le strade erano un misto di neve e di fango. Più fango che neve e il cielo di un colore plumbeo. Uno schifo. In compenso, la guerra e il lager erano alle spalle. La bandiera rossa con la falce e il martello non era ancora stata issata sul Reichstag, ma per la caduta di Berlino era questione di giorni. Mancava un mese per festeggiare la pace. A Varsavia, che si presentava come un immenso cimitero, c’era poco da festeggiare. Nel mio ricordo un solo edificio, sulle rive della Vistola, si era salvato ed era stato adibito a sede della Croce rossa internazionale. Noi fummo sistemati a Rembertow, un paese a tre-quattro chilometri di distanza dal quartiere popolare di Praga, l’unico rimasto in piedi perché situato sulla sponda orientale del fiume, dove l’Armata Rossa si era attestata mentre nella grande Varsavia ferveva l’insurrezione, brutalmente stroncata dai tedeschi. Che poi, prima di andarsene, avevano fatto terra bruciata della città. Sul mancato intervento dei russi a sostegno dell’insurrezione si sono scatenate polemiche a non finire. A Stalin - è stato scritto - non piaceva quell’insurrezione ordinata dal governo polacco di Londra, né piacevano gli insorti dell’Arma Krajowa, che ubbidivano a quel governo, ostili a quello di Lublino, appoggiato dai sovietici. Questi ultimi sostenevano l’impossibilità di un intervento, essendo giunti stremati nel quartiere di Praga. Inoltre criticavano aspramente l’ordine di insurrezione, ritenuto del tutto intempestivo e destinato fatalmente alla sconfitta. In realtà quell’ordine era finalizzato a liberare la capitale prima dell’arrivo dei russi, un po’ come si sarebbe verificato nelle nostre città del nord. Ma i tedeschi erano ancora forti e armati centomila volte meglio degli insorti. In quelle condizioni, senza la sicurezza di un intervento dell’Armata Rossa, quell’ordine equivaleva ad un suicidio. Costò, difatti, migliaia e migliaia di morti. Nobile, comunque, la causa degli insorti, combattenti ad armi impari contro l’occupante nazista, per cui risultava del tutto incomprensibile il divieto di celebrare l’anniversario dell’insurrezione, che venne meno solo con il ritorno di Gomulka al potere nel 1956. A Rembertow noi trovammo posto in un casermone, già pieno di reduci dai campi di concentramento di tutte le nazionalità. C’era anche qualche americano, ex prigioniero di guerra, che però restava pochissimo sul posto e che veniva trattato con maggiore attenzione in fatto di alloggio e di cibo. Le cose, in sostanza, funzionavano così: americani e inglesi venivano subito rimandati ai loro rispettivi paesi. Per gli jugoslavi il rimpatrio era un po’ più lento, ma anche loro non restavano molto a Rembertow. Per i francesi e gli italiani, che costituivano la stragrande maggioranza, la sosta era assai più lunga. Interminabile per noi italiani, che, ad un certo punto, rimanemmo soli. Nel casermone si dormiva sul pavimento, uno accanto all’altro, e si mangiava pessimamente. A pranzo, tutti i giorni, la kascia, una specie di intruglio scondito di miglio, per di più con la presenza di abbondante terriccio. Gli addetti alle cucine non badavano tanto per il sottile. Rovesciavano i sacchi di miglio direttamente nei grossi pentoloni senza prima togliere la sporcizia. Le cose migliorarono anche se di poco dopo una nostra vibrata protesta, basata su uno sbatacchiamento di cucchiai sui tavoli della mensa e sul rifiuto di mangiare quell’indecente poltiglia. A parte il cibo, il clima era sereno, addirittura allegro con la prospettiva che prima o poi saremmo tornati a casa sani e salvi. E intanto, liberi come l’aria, potevamo andare dove ci pareva, anche se finivamo quasi sempre col restare in zona o con l’andare nel quartiere di Praga, dove c’erano molte bancarelle con esposizione di pane anche bianco, salsicce, sigarette, tabacco ricavato dai mozziconi raccolti chissà dove e poche altre misere cose, che, per noi, tuttavia, erano vere e proprie meraviglie, ma irraggiungibili per totale mancanza di danaro. Assolutamente introvabili, invece, le cartine per arrotolarvi il tabacco, sostituite con strisce della Pravda, che, nel nostro casermone, risultava quotidianamente esaurita, impiegata da noi nel modo che si è detto e anche per altri intuibili usi. A Praga, gli improvvisati commercianti accettavano in cambio della merce qualsiasi oggetto, anche se talmente vecchio da essere impraticabile. Così un po’ alla volta ci sbarazzammo dei pochi capi di biancheria che ci avevano consegnato i russi: mutande e canottiere in cambio di filoncini di pane e di salsiccia. Volendo si potevano acquistare anche altri prodotti, diciamo così, più pregiati: scatole di sardine, barattoli di marmellata, conserve di frutta, uova e persino bottiglie di vodka. Con l’arrivo del caldo io mi ero sbarazzato di un giubbone talmente malandato e lercio che stavo per buttare nella spazzatura quando, inaspettatamente, vedendolo, un polacco mi offrì cento zloty coi quali potei acquistare un filoncino di pane bianco, che divisi in quattro parti. Di quattro era infatti composto il nostro gruppo: un ferrarese e un vicentino, che erano più o meno miei coetanei e un piccolo proprietario della Val d’Elsa, che avrebbe potuto essere nostro padre, di cui ricordo anche il cognome: Pianigiani. L’anno di nascita era quello di mia madre, per questo che lo rammento con precisione: 1906. Dunque, aveva 39 anni, ma a me che ne avevo diciotto pareva già anziano. Lui i cento zloty del giubbone avrebbe preferito destinarli per una fotografia di gruppo, quattro copie della quale costavano per l’appunto cento zloty. Come sempre aveva ragione lui, quella foto sarebbe stata un bel ricordo, ma vinse la voglia di mettere sotto i denti qualche boccone di pane bianco, delizioso più di qualsiasi dolce gustato nel passato. Nello spazio che circondava il casermone venne allestito anche un campetto per le partite di calcio fra le squadre delle diverse nazionalità. La nostra, godendo della presenza di un ex calciatore del Bologna, risultò vincitrice di tutte le gare. Quel calciatore, ex Imi, che fungeva anche da allenatore, era un ex terzino, però non ne ricordo il nome. Il rapporto con i russi, anche a causa della lingua, era sostanzialmente inesistente quando non era ostile. Molti anni dopo, dalla viva voce di Paolo Robotti, che era venuto a Rembertow per fare propaganda per il socialismo, ottenendo l’effetto contrario per i modi rozzi della sua oratoria, tutta fatta di maiuscole e di punti esclamativi, inneggianti alla grande Unione Sovietica, seppi che fra noi c’era anche un gruppetto di comunisti, che però mai si manifestarono come tali, forse perché ci consideravano tutti dei fascisti, tale era il loro livello di settarismo. Nella Varsavia distrutta andammo diverse volte, volontariamente, per rimuovere le macerie, ma senza troppo entusiasmo. Trovammo, invece, passeggiando nei dintorni del nostro alloggio, una contadina che ci propose di livellare il terreno di sua proprietà, solcato da una trama di trincee scavate dai tedeschi. In cambio di due-tre ore di lavoro ci offriva una tazza di latte e una manciata di patate lesse. Una festa per noi, che, causa il poco e pessimo cibo distribuito dai russi, avevamo perennemente fame. A regolare la nostra permanenza nel casermone erano due generali italiani, anch’essi ex Imi, ai quali rivolgevamo quotidianamente le nostre proteste per il continuo rinvio del nostro rimpatrio. Proteste ascoltate con attenzione, ma del tutto inutili. Finalmente una mattina di luglio ci fu comunicato di apprestare i nostri bagagli e di dirigerci qualche ora dopo alla stazione. Tutti noi pensammo che era arrivato il giorno della partenza per l’Italia. Ma non era così. Il treno, infatti, ci portò a Sluzk, una località della Bielorussia, a un centinaio di chilometri da Minsk. La sistemazione lì era un po’ meglio e anche il cibo più accettabile, il pane soprattutto, non più un impasto di segatura ma vero pane, nero ma pane. E a proposito di pane qualche volta ci toccava anche un bicchiere di kvas, bevanda deliziosa ricavata dalla fermentazione del pane di segala, molto popolare in Russia. La delusione, comunque, fu grande. Difficile capire il motivo di questo spostamento. Ne chiedemmo le ragioni ma i non amavano le spiegazioni. Ci fu comunicato in ogni caso che il nostro ritorno in Italia sarebbe stato imminente. Sul posto trovammo molti altri italiani e, forse, anche Primo Levi, che, nella Tregua parla, per l’appunto, di una sua sosta a Sluzk. Lì restammo poco più di un mese, il resto di luglio e tutto agosto. Il primo settembre o il due o il tre risalimmo su un treno merci e questa volta con un viaggio che durò una trentina di giorni attraverso la Bielorussia, un pezzo di Ucraina, l’Ungheria e l’Austria, la destinazione era l’Italia. Sempre in territorio controllato dai russi, passammo la frontiera a Tarvisio e ad Udine ricevemmo il primo pasto caldo, un minestrone distribuito dai militari italiani, che ci parve una vera e propria delizia. Il viaggio fu lungo ma allegro. Le ferrovie erano allora in uno stato pietoso e il nostro treno, inoltre, dava la precedenza a ogni altro convoglio. Vedevamo passarci sotto il naso treni colmi di merci oppure di soldati che tornavano in patria. In una stazioncina periferica di Budapest restammo fermi almeno tre giorni senza poter vedere la città perché ignoravamo quando il treno si sarebbe rimesso in movimento. Al treno venivano gli ungheresi con cestini di uva che scambiavano con qualsiasi cosa. E fu la grande rivincita del nostro Pianigiani, che, a Varsavia, avevamo ripetutamente preso in giro perché raccoglieva i marchi, che si trovavano in quantità, semplicemente perché ritenuti spazzatura e che lui ficcava in una valigetta di fibre che non abbandonava mai. Bene, per un mazzetto di queste banconote tedesche ottenne un bel po’ di uva, che, generosamente, limitandosi ad un largo sorriso, offrì al collettivo. Che cosa diavolo gli ungheresi avranno fatto di questi marchi non riuscivamo a capire. Qualcuno, anni dopo, mi disse che era possibile in alcuni paesi cambiarli, sia pure al ribasso. Non so se sia vero, chissà. Una notte, a Budapest, un giovane ungherese, stravolto dall’odio per i russi, mi raccontò una sconvolgente storia di stupro toccata alla sua ragazza. Viveva per la vendetta, obiettivo uccidere almeno un soldato russo. Ci riuscirò - mi disse - costi quello che costi. Ci sarà riuscito? Di stupri, nelle zone di guerra, se ne verificarono parecchi ad opera di militari dei diversi paesi: russi, certo, specialmente in Germania, ma anche americani, inglesi, francesi, marocchini, indiani eccetera. La guerra genera mostri. Ma a quel giovane, anticomunista feroce, gli altri stupri interessavano poco. Era quello della sua ragazza che lo trasformava in potenziale assassino. Stette quasi tutta la notte con me, dettagliando fino allo spasimo il suo racconto. Di notte, un gruppo di soldati, aveva sfondato la porta dell’abitazione della ragazza, che poi, a turno, avevano violentata. Il treno partì alle prime luci dell’alba e filò per parecchie ore. Noi, allegri, cantavamo le canzoni allora di moda: Ma l’amore no, per esempio, che ricordavo cantata da una giovanissima Alida Valli. Io, poi, canticchiavo una canzone francese che mi aveva insegnato un ex prigioniero, i cui primi versi dicevano come doveva essere bello il primo istante di un appuntamento d’amore: Oh, que doit etre douce et troublant l’instant d’un premier rendez-vous. Fra gli episodi, diciamo così ferroviari, che mi tornino alla mente, quello crudele in un appezzamento austriaco. Il caso volle che il treno si fermasse proprio in un frutteto. Molti gli alberi, che furono spogliati da noi del carico di mele, fra la disperazione del contadino che urlava e piangeva, inutilmente tentando di fermare la rapina, mentre noi, come tante feroci cavallette, continuavamo a rubare le mele, sghignazzando e insultando quel povero piccolo proprietario, che sarà stato sì un nazista, ma che noi, ora, punivamo nella maniera più spietata, derubandolo della sua unica ricchezza. C’est la guerre, disse uno di noi, mentre il treno riprendeva la marcia lentamente, fischiando per avvertire quelli che si erano allontanati un po’ troppo dal convoglio, che continuava la sua marcia verso l’Italia. Varsavia era ormai lontana, ma, in qualche modo, c’era rimasta nel cuore. Quel mare di macerie, sotto le quali si trovavano migliaia e migliaia di morti, era stato per noi uno spettacolo sconvolgente. Con i polacchi i nostri rapporti erano stati più che cordiali, soprattutto per il fatto che eravamo cattolici. E loro, a parte qualche eccezione, lo erano in maniera totalizzante, ai confini col fanatismo. Nella Varsavia di allora, nuda di tutto, assistemmo a manifestazioni religiose come mai c’era capitato di vedere in Italia. Processioni a non finire prima e dopo la Pasqua, con parecchia gente che procedeva praticamente inginocchiata. C’era chi diceva che quello era un modo di manifestare contro i sovietici, i senza dio. Certo, i sentimenti contro i sovietici erano molto forti e molto diffusi, secondi solo a quelli contro i tedeschi. Noi italiani, invece, eravamo ben voluti. Beati noi, secondo loro, che tornati in patria potevamo tornare a vedere il paese del sole. La contadina, alla quale rimettevamo a posto la sua piccola proprietà, il giorno di Pasqua, dati i tempi di magra, ci preparò una stupenda sorpresa, un uovo sodo a testa assieme alle patate scondite e alla scodella di latte. Così anche noi celebrammo la Pasqua sessantun anni fa, in un paese che, qualche diecina di anni dopo, avrebbe espresso un pontefice, Karol Wojtyla, col nome di Giovanni Paolo II.

Triangolo Rosso, maggio 2006

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