Triangolo rosso
UN LIBRO RIPERCORRE LE VICENDE DI UN EROE DELLA RESISTENZA
La drammatica vita di Vincenzo Gigante
di Bruno Enriotti
Fin da giovanissimo impegnato nel Pci e tra i lavoratori edili. La sua attività nell’emigrazione e la condanna a 20 anni del Tribunale Speciale. La polemica con gli jugoslavi per l’italianità di Trieste. La sua tragica fine della Risiera di San Sabba.
Ci sono persone che riassumono nella loro vita, anche se a volte purtroppo molto breve, una parte importante della lotta per la democrazia nel nostro Paese. Vincenzo Antonio Gigante è certo una di queste. Un gruppo di cultori di storia pugliesi hanno pubblicato una snella biografia di questo eroe italiano nato a Brindisi nel 1901 e tragicamente scomparso nel 1944 nell’inferno della Risiera di San Sabba. La motivazione della Medaglia d’oro di cui è stato insignito per il suo impegno nella Resistenza col suo linguaggio aulico e un po’ retorico, e le scarne biografie finora pubblicate non riescono certo ad esprimere tutta la complessità di una vita in cui desiderio di riscatto sociale e impegno politico, sofferenza e solitudine, amore e affetti familiari strettamente si compenetrano. I tre autori pugliesi con loro lavoro hanno colmato una lacuna e per questo la loro opera è particolarmente apprezzabile.
Quando Vicenzo Gigante si impegna giovanissimo nella battaglia politica ha già sulle spalle un bagaglio di sofferenza. Ufficialmente - come si legge nei documenti - è “figlio di Ignoto” e nell’Italia di cento anni fa, questo era un marchio che lasciava un segno profondo. Si collega giovanissimo ai gruppi socialisti della sua città, passa subito al Pci e, nel 1922 è già a Roma, per svolgere il suo lavoro di muratore carpentiere, una qualifica che non abbandonerà mai, e la ostenterà con orgoglio di fronte al Tribunale Speciale, anche quando la sua esperienza di vita lo aveva trasformato in un vero e proprio intellettuale organico. In uno dei primi rapporti di polizia che si occupano di lui, nel 1925, si legge che Gigante “ha sempre professato idee sovversive” e che “anche la madre è di principi sovversivi”. A Roma Gigante diventa presto un leader tra i muratori. Partecipa alla vita di partito, è un organizzatore sindacale. “Io lo conobbi allora - ricorderà dopo la Liberazione Umberto Terracini - . Egli veniva la sera alle riunioni di Partito, e alla domenica, alle maggiori assemblee e alle manifestazioni popolari. E vi recava quel senso di pacatezza, di equilibrio, di composta responsabilità che doveva procacciargli rapidamente la fiducia dei compagni, per indicarlo a posti di responsabilità e di guida del movimento operaio”. Gigante è allora un dirigente sindacale, ma non abbandona il suo lavoro di muratore. È ancora Terracini che lo ricorda al lavoro: “Qualche volta ero io che andavo a cercarlo sul cantiere, verso la città giardino. Allora lo facevo chiamare. Ed egli veniva giù dalle impalcature, col suo passo sicuro e saldo, stropicciandosi le grosse mani robuste per ripulirle dalla calce che le faceva ruvide e porgermele poi in una stretta di mano rapida, forte, calda”. Le manifestazioni di protesta contro l’assassinio di Matteotti lo vedono in prima fila. Decine di migliaia di lavoratori edili scesero in piazza, guidati da questo giovane dirigente brindisino che allora aveva appena 23 anni. Le leggi speciali, con le quali il fascismo cerca di impedire ogni attività democratica, non lo fermano. Ormai è uno dei componenti della direzione nazionale della Cgl, e fa parte, come ricorda Camilla Ravera, dell’“Ufficio Tecnico” del Pci. È questo uno dei compiti più delicati all’interno del partito costretto alla clandestinità. Deve trovare sempre nuove sedi, aiutare i compagni a sottrarsi agli arresti, ricostruire la rete di rapporti che la dittatura fascista aveva interrotto. Per questo lo ritroviamo in Svizzera, in Germania, in Francia, in Lussemburgo e in Belgio, spesso segnalato dalla polizia fascista che continuava a sorvegliarlo perché considerato tra i comunisti più pericolosi. Si tratta - dice un rapporto del Consolato italiano a Berna del 1927 - di “un meridionale alto, sbarbato, dai capelli folti neri, persona distinta dal naso piuttosto pronunciato. Egli dovrebbe venire nel Regno e dovrebbe, a Lugano, favorire il rimpatrio in Italia di elementi sospetti”. E, ancora, l’anno dopo da Bruxelles giunge all’Ovra una nota che segnala la presenza di: “Antonio Gigante emissario sindacale del Partito Comunista che ha avuto un incarico speciale dal suo partito riguardante la Confederazione Generale del Lavoro”. Il 1929 è l’anno in cui Gigante entra a far parte del ristretto gruppo dirigente del Pci. Camilla Ravera quando si reca a Parigi per un incontro con Togliatti si fa accompagnare da Gigante in quanto proprio a lui era assegnato il compito di risolvere i problemi di collegamento tra il Centro interno e quello all’estero. Oramai fa parte del Comitato centrale del Pci e partecipa quindi a quella drammatica riunione del marzo 1930 che si concluse con l’espulsione del gruppo dissidente che faceva capo ad Angelo Tasca e a Ignazio Silone. Gigante cerca una mediazione tra le due posizioni, viene guardato con sospetto e allontanato dagli incarichi principali che fino ad allora aveva ricoperto. Non per questo Gigante riduce la sua attività e si riguadagna rapidamente la fiducia del partito che lo invia ad operare in Italia, dove si riteneva erroneamente che la situazione fosse matura per abbattere la dittatura fascista. Nell’ottobre 1932, Gigante è arrestato a Milano. In tasca gli trovano un ingenuo biglietto che però rivela la passione e lo spirito di sacrifico dei pochi comunisti che ancora operano Italia: “I compagni della zona C. vedendo il bisogno del partito decidono di fare una piccola sottoscrizione per i nostri compagni condannati dal Tribunale Speciale. Tre compagni risparmiano una sigaretta al giorno offrendo 1,50 ad Antonio Gramsci”. Quello stesso Tribunale Speciale condannerà pochi mesi dopo Vincenzo Gigante a 20 anni “per aver svolto e organizzato propaganda antinazionale”. Di Gigante in carcere ci resta ancora un ricordo di Terracini: “Lo incontrai nel 1935 nella casa penale di Civitavecchia. Nella scialba luminosità di un mattino invernale, uscendo dalla penombra della stretta porta del cortiletto per i passeggi, egli venne verso di me aprendo le braccia e col viso sorridente. Io uscii nel 1937 dal Reclusorio di Civitavecchia per passare alla deportazione di Ventotene. Ma Vincenzo Gigante vi restò ancora per alcuni anni, fino a quando, nella beffa consueta della liberazione ottenuta e del confino irrogato, non venne deportato in catene all’isola di Ustica”. Il calvario di Gigante nelle mani dei fascisti dura fino all’8 settembre 1943. Invano, durante il governo Badoglio si cerca di farlo liberare dal confino di Renicci, presso Arezzo, dove si trovava da alcuni anni. Se ne interessa Giuseppe Di Vittorio - allora Commissario governativo per i sindacati agricoli - che scrive al ministro dell’Interno Ricci:” Non si comprende come mai il Gigante non sia stato ancora liberato. Deve trattarsi di una dimenticanza o di un equivoco. Il Gigante, infatti, è conosciutissimo dallo scrivente (che si onora di averlo tra i propri amici e compagni di fede) come un onestissimo lavoratore, autodidatta e stimato organizzatore sindacale della vecchia Camera del Lavoro di Roma, per cui la mancata liberazione suscita meraviglia e malessere fra le masse, dalle quali è conosciuto ed amato”. Il governo Badoglio non fa in tempo a rispondere e quando i tedeschi sono ormai alle porte, Gigante riesce a fuggire con un gruppo di antifascisti sloveni. Tentano dapprima di andare verso il Sud e quindi, fallita questo possibilità, raggiungono Trieste e si uniscono alla Resistenza jugoslava. Gigante assume da allora il nome di battaglia “Ugo”. Incomincia qui un nuovo periodo della vita di Vincenzo Gigante, un periodo ancor più drammatico di quello finora vissuto che si concluderà nella maniera più tragica. Il Pci, che ben conosce le sue capacità, lo incarica di tenere i rapporti con le formazioni partigiane che fanno capo a Tito. Non è un compito semplice. La situazione è in quel periodo estremamente tesa. Pesa molto il futuro delle zone del confine orientale. Da parte jugoslava vi è il tentativo, sempre più pressante, appropriarsi non solo dell’Istria e della Dalmazia, ma anche della città di Trieste. Il Pci non condivide questa decisione e Gigante ha il compito di esporre le posizioni del suo partito ai rappresentanti jugoslavi. “Noi siamo comunisti - dirà nel corso di una riunione con gli esponenti della resistenza jugoslava - e non possiamo parlare in questo momento di divisioni territoriali, ma solo di lotta armata per la sconfitta definitiva del nazifascismo”. Non era una posizione che potesse essere accettata da coloro che erano decisi ad allargare subito i confini della futura Jugoslavia e questo contrasto sarà tra le cause di tante tragedie. Nell’agosto del 1944 a Trieste cade nelle mani dei tedeschi Luigi Franzin, segretario della Federazione comunista di quella città e Gigante viene immediatamente chiamato a sostituirlo. In una città dove la lotta clandestina contro i fascisti e i nazisti si intrecciava con lo scontro tra i comunisti italiani e chi pretende che l’intera zona del confine orientale, compresa la città di Trieste passasse alla Jugoslavia, l’impegno politico di Gigante fu di breve durata. Gigante viene infatti arrestato la mattina del 15 novembre, lo stesso giorno in cui era in programma un incontro tra i dirigenti del Pci e i rappresentati del Partito comunista sloveno. Sull’arresto di Gigante, come su quello di Frausin, si possono fare soltanto delle ipotesi. È certo che l’uno e l’altro sono caduti nelle mani dei nazisti a seguito di una delazione, ma da quale parte essa sia giunta non è stato ancora chiarito. Ci fu proprio in quel periodo un processo partigiano a carico di una giovane triestina che collaborava con la Resistenza e quindi conosceva Franzin e Gigante. Era accusata di aver fatto i nomi dei principali dirigenti della lotta partigiana dopo essere stata arrestata dai fascisti, ma anche questo non è un elemento sufficiente per attribuirle l’arresto dei due esponenti del Pci. Sta di fatto che Franzin e Gigante scomparvero nell’inferno della Risiera di San Sabba e il Pci perse nel giro di pochi mesi i due dirigenti maggiormente impegnati nella difesa dell’italianità della città di Trieste. Parlando dell’attività di un dirigente politico del livello di Vincenzo Gigante, si corre spesso il rischio di ignorare la sua vita privata. Gigante ha avuto invece una vita privata intesa con qualche gioia e tante sofferenze. Il merito del libro è anche quello di avere dedicato abbondante spazio a queste vicende fondamentali per conoscere la vita e le passioni di questo combattente. Nel libro si parla della difficile vita della madre, alla quale Vincenzo era molto legato, che ebbe due figli senza essere sposata e che subì quindi il clima pesante dell’arretratezza di quei tempi e ci si sofferma ampiamente sui rapporti tra Gigante e la famiglia Fonti. Il giovane Luigi Fonti all’inizio del ‘900 emigrò a Lugano e la sua casa divenne ben presto un punto di riferimento per i socialisti che transitavano dalla Svizzera. Vi passò anche un giovane spiantato e ciarliero che si chiamava Benito Mussolini. Dopo il 1922, casa Fonti si trasformò in un centro antifascista, frequentato soprattutto da comunisti, ma non solo. Vi capitava sovente anche Vincenzo Gigante, nel suo girovagare all’estero per conto del Pci. Tra Vincenzo e Wanda, una delle figlie di Luigi Fonti nacque un amore che fu forse uno dei pochi momenti felici della vita di Gigante. I due si sposarono e poco dopo nacque una bambina, Miuccia. I due coniugi ebbero pochissimo tempo per vivere assieme. Vincenzo continuò la sua attività politica, venne in Italia per conto del Pci, fu arrestato e al termine di una lunga battaglia finì trucidato nella Risiera di San Sabba. Wanda non rivide più il marito e Miuccia non ha mai conosciuto il padre. Chi, come chi scrive queste note, ha lavorato all’Unità assieme a Wanda Gigante, e collabora ora con Miuccia, segretaria nazionale dell’Aned, ha potuto conoscere non solo la grandezza di questo eroe della Resistenza, ma anche la passione civile di una famiglia, alla quale la tragica vita di Vincenzo Gigante ha procurato legittimo orgoglio, ma soprattutto immenso dolore.
Presente la figlia Miuccia, segretaria generale dell’Aned
Presentata nella sua città la biografia “Un eroe brindisino”
Ricordata la sua eroica figura e il suo assassinio nella Risiera di San Sabba
Vittorio Stamarra
“È come se mio padre fosse finalmente tornato a casa”. È una Miuccia Gigante, visibilmente emozionata, che interviene a Brindisi, nell’auditorium della Biblioteca provinciale, alla presentazione del libro Vincenzo Gigante detto Ugo. Un eroe brindisino, scritto dai giornalisti Vittorio Bruno Stamarra, Antonio Maglio e Patrizia Miano. Si tratta della prima biografia del martire antifascista brindisino (medaglia d’oro al valor militare, alla memoria, nella guerra di Resistenza), scritta a sei mani da tre giornalisti pugliesi: Vittorio Bruno Stamarra ha trattato il Gigante dirigente e organizzatore del Pci negli anni della clandestinità, sino all’arresto da parte dell’Ovra nel 1933 a Milano e la condanna a 20 anni di carcere da parte del Tribunale Speciale; Antonio Maglio ha “indagato” sul Gigante impegnato nella lotta partigiana nella Venezia Giulia e in Istria, sino alla sua cattura da parte della Gestapo a Trieste nell’autunno 1944, e poi la sua scomparsa nella Risiera di San Sabba; Patrizia Miano, infine, ha “scoperto” il Gigante privato, il suo essere figlio, marito, padre. Perché anche i grandi uomini, quelli che sanno sacrificare anche la loro vita per un ideale, hanno una loro “normalità”, con i sentimenti, i problemi, le necessità, le debolezze, le passioni di ogni persona comune. Una iniziativa, quella svoltasi a Brindisi, inserita in due grossi eventi voluti dalla Regione Puglia: la rievocazione del 60° Anniversario della Liberazione e il contributo che la Puglia offrì - anche in termini di vite umane - alla costruzione della democrazia, e l’organizzazione di uno speciale convoglio ferroviario, il “Treno della memoria”, che attraversando tutti i capoluoghi di provincia ha testimoniato, soprattutto ai giovani che in migliaia si sono riversati sui vagoni che ospitavano l’iniziativa, la barbarie della deportazione per ragioni di razza o di credo politico. Il progetto “Mai più”, appunto. Tra le vittime pugliesi delle deportazioni (un vagone del treno è stato riservato ai deportati e ai caduti pugliesi nei campi di sterminio, agli eccidi ed ai rastrellamenti che i nazisti effettuarono in Puglia ritirandosi verso il nord), un posto di rilievo tocca al brindisino Antonio Vincenzo Gigante la cui biografia è stata presentata dagli autori in anteprima sul treno, alla presenza dell’assessore regionale Paola Calducci, oltre che di autorità e di tanti giovani. Nella stessa serata, della ricerca di Stamarra, Maglio e Miano si è parlato di fronte ad un affollato ed interessato pubblico nell’auditorium della Biblioteca provinciale. Ha introdotto il dibattito il prof. Vito Antonio Lezzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea, che ha curato la prefazione al libro. Lezzi si è a lungo soffermato sul particolare contesto storico e politico nel quale si sviluppò la lotta e l’impegno antifascista, che in provincia di Brindisi furono particolarmente attivi e di cui Antonio Vincenzo Gigante rappresentò una delle più importanti espressioni. Carmine Dipietrangelo, che da vice presidente del Consiglio regionale della Puglia patrocinò le iniziative in occasione del 60° Anniversario della Liberazione, nel cui contesto questa ricerca ha trovato i giusti sostegni, ha sottolineato il valore di queste iniziative e come da qui occorre partire per fare in modo che questa parte importante della nostra storia emerga dall’oblio e finalmente rappresenti un fondamentale patrimonio ideale per le future generazioni. È stata poi la volta di Miano e Stamarra che, nonostante la grande mole di materiale raccolto con questa ricerca, si sono impegnati ad approfondire il lavoro andando arricchendolo di ulteriori documenti, anche dall’estero, nelle località dove Antonio Vincenzo Gigante svolse il suo impegno di dirigente politico e di organizzatore. Ed infine è toccato a Miuccia Gigante parlare del padre. Non è stato facile per Miuccia, che chissà a quante manifestazioni celebrative ha pure partecipato in questi sessant’anni, mantenersi distaccata, non lasciarsi coinvolgere da una atmosfera in cui sentiva quasi materialmente una presenza a lei così intimamente familiare. È stato come se tornando a Brindisi, la città in cui il padre nacque nel 1901 e da cui emigrò a vent’anni, come tanti altri giovani meridionali, in cerca di lavoro, ella abbia voluto riconciliarsi definitivamente con quel genitore, che nel momento in cui poteva scegliere tra gli affetti, i sentimenti personali e la lotta per la vittoria di quegli ideali per i quali combatteva e soffriva da oltre vent’anni, scelse la strada degli ideali sino alle estreme conseguenze, trovandovi la morte. Non è stato facile per Miuccia, la cui fanciullezza era trascorsa nell’ansia del ritorno di questo padre che non aveva mai conosciuto, che per questo forse amava di più, e la cui presenza accanto le era stata negata con violenza da un regime liberticida e assassino, ingoiare l’amarezza di una scelta che le era sembrata ingiusta, immotivata. Poi la delusione, la rabbia, l’amarezza, il vuoto si sono trasformati in orgoglio, in passione, in testimonianza e quindi in ragione di vita. Le giornate brindisine di Miuccia Gigante si sono concluse la mattina dopo con un incontro con gli studenti e i professori nell’aula magna del liceo scientifico “Monticelli”, che al martire antifascista ha voluto dedicare l’aula dei professori, scoprendo una targa in suo onore. Dopo il saluto del preside prof. Luigi Abbadessa, e un breve intervento di Vittorio Bruno Stamarra, Miuccia Gigante ha ricordato la figura del padre attraverso le lettere che lui le inviava dal carcere duro di Civitavecchia nel quale era rinchiuso, e di come lui le raccomandasse di impegnarsi nello studio: “Studia, leggi tanto figlia mia, perché ti dà qualcosa che nessuno potrà mai portarti via”.
Triangolo Rosso, maggio 2006