Triangolo rosso

Salvati in extremis dalle grinfie delle SS

Leader politici e parenti degli attentatori del 20 luglio 1944

Fra questi il francese Léon Blum, l’ex cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg, il nipote di Molotov, il grande industriale Fritz Thyssen, l’ex ministro tedesco Hjalmar Schacht e, tra gli italiani, il figlio di Badoglio e il pronipote di Garibaldi

 

a cura di Bruno Enriotti, Angelo Ferranti, Ibio Paolucci

 

Una pagina poco conosciuta della storia dell’ultima guerra, e tuttavia densa di drammatici eventi, è quella degli ultimi giorni di grossi personaggi della politica, prigionieri delle SS, salvati dalle grinfie degli aguzzini di Himmler da un plotone di soldati della Wehrmacht. Sono oltre cento le persone di diversa nazionalità tenute in ostaggio e fra questi Léon Blum, ex presidente del Consiglio dei ministri di Francia, Kurt von Schuschnigg, già cancelliere austriaco, Vassili Vassilievic Kokorin, nipote di Molotov, Hjalmar Schacht, ex presidente della Reichsbank e ministro dell’Economia, Fey Pizio Biroli nata von Hassell, figlia dell’ex ambasciatore tedesco a Roma fucilato dai nazisti, Mario Badoglio, figlio del maresciallo Pietro Badoglio, il pastore Martin Niemoller, il vescovo di Monaco Johannn Neuhausler, cinque generali greci, congiunti del colonnello von Stauffenberg, l’attentatore di Hitler, il grande industriale tedesco Fritz Thyssen, militari ed esponenti politici inglesi, irlandesi, ungheresi. Alcuni di loro sono con moglie e figli. Fra i prigionieri di riguardo c’erano anche Mafalda di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III e il tenente Jacob Giugasvili, figlio di Stalin. Ma Mafalda perì per le ferite mal curate causate da un bombardamento aereo e il figlio di Stalin, caduto prigioniero il 16 luglio del ‘41, oggetto di molteplici pressioni da parte dei tedeschi, si tolse la vita il 14 aprile ‘43. I nazisti avrebbero voluto scambiarlo con alcuni generali tedeschi, prigionieri dei sovietici, ma Stalin rifiutò categoricamente: "Non c’è nessun figlio di Stalin prigioniero dei tedeschi”. Altri prigionieri di spicco erano stati internati nel castello di Itter, nel Tirolo. Fra questi, molte le personalità francesi, fra cui George Clemenceau, figlio dell’ex presidente del Consiglio dei ministri, Edouard Daladier, ex presidente del Consiglio, il generale Gustave Gamelin, Paul Reynaud, altro ex presidente del Consiglio, il generale Maxime Weygand, Alfred Cailleau con la moglie, sorella di De Gaulle. Gli ostaggi erano stati internati nei campi di sterminio di Buchenwald, Mauthausen, Dachau, Theresienstadt e altri, avendo tuttavia un trattamento ben diverso dai deportati negli stessi lager. Per esempio, non dovevano indossare la divisa a righe dei carcerati, le loro celle durante il giorno non erano chiuse, non erano costretti a lavorare, ricevevano il cibo riservato alle guardie. Certo non erano liberi ed erano ignari della loro sorte, con il costante timore del peggio. Vero è che, qualunque fossero i piani delle SS, gli ostaggi costituivano un prezioso valore di scambio soltanto se erano vivi. Non è un segreto che il capo supremo delle SS, Himmler, quando la sconfitta della Germania era ormai sicura anche per il più fanatico dei nazisti, sognasse di arrivare ad un accordo con gli americani e gli inglesi in funzione antisovietica. Allo scopo la vita degli ostaggi poteva costituire uno straordinario oggetto di scambio per una eventuale trattativa. Difatti Himmler ordinò a Eichmann di prelevare da Theresienstadt un centinaio di ostaggi, compresi tutti gli ebrei illustri, e di trasportarli in Austria, sistemandoli in alberghi affinché lui potesse usarli per un accordo con Eisenhower. Eichmann però non riuscì ad arrivare a Theresienstadt perché le strade erano ormai bloccate dalle armate russe in continua avanzata. Himmler, come è noto, finì suicida, poco dopo essere stato catturato dagli inglesi. Ma non cessarono le manovre che avevano per oggetto gli ostaggi. Ernst Kalterbrunnner, uno dei massimi dirigenti delle SS e della Gestapo, destinato alla condanna a morte e all’impiccagione a Norimberga per crimini di guerra, prese nelle sue mani il destino degli ostaggi. Ordinò che fossero riuniti nel campo di Dachau per poi essere portati nella cosiddetta “Fortezza alpina” dove pensava fosse ancora possibile organizzare una estrema resistenza, durante la quale avrebbe potuto servirsi degli ostaggi per ricattare gli alleati. Il suo piano, ovviamente illusorio, era quello di giungere ad una trattativa che consentisse la sopravvivenza politica e militare del Terzo Reich. Un delirio che, però, rende più pericolosa la sorte degli ostaggi, che sono vigilati notte e giorno da una numerosa scorta armata di SS. La loro partenza da Dachau segue un percorso avventuroso, non privo di rischi, dovendo affrontare, spesso a piedi, bufere di neve, non sempre trovando un rifugio per la notte con una temperatura che oscilla attorno ai venti gradi sotto zero. Finalmente l’arrivo a Villabassa, un borgo nell’alta val Pusteria, in Tirolo, dove vengono accolti con simpatia dalla popolazione. Il paesaggio è incantevole, ma grossa è la paura. Quale destino li aspetta? Le SS agitano minacciosamente i mitra e le loro espressioni torve sono tutt’altro che rassicuranti. Intanto grazie ai cittadini di Villabassa, i più anziani vengono alloggiati in alcune locande, mentre tutti gli altri trovano rifugio nelle sale del municipio cosparse di paglia. Ma permane l’incertezza, il piglio minaccioso delle SS non promette nulla di buono e la morte continua ad essere dietro l’angolo. L’allarme raggiunge il livello più alto quando – secondo il racconto di Fey von Hassell - il colonnello Boguslav von Bonin, uno degli ostaggi che indossa ancora l’uniforme di ufficiale, ascolta nell’autobus, di notte, assieme al dottor Wilhem, un colloquio fra due SS, che parlano liberamente nella convinzione di non essere ascoltati. “Che cosa facciamo – dice uno di loro - con quelli che devono essere eliminati?” E l’altro: “C’è stato dato l’ordine di piazzare delle bombe sotto gli automezzi un po’ prima o subito dopo il momento?”. Quale momento? Per il colonnello von Bonin il momento è quello di agire immediatamente. Sceso dall’autobus si porta nel paese, dove ha la straordinaria fortuna di incontrare il generale von Vietinghoff, suo caro amico, reduce, nella sua qualità di capo del comando dall’armata, dall’aver partecipato ad un difficile negoziato con gli alleati concluso con l’ordine di cessare il fuoco. Von Bonin gli corre incontro e lo mette al corrente della drammatica situazione, chiedendo il suo aiuto. Il generale lo tranquillizza, assicurandogli che non avrebbe mai permesso l’uccisione di civili innocenti sotto la sua giurisdizione, aggiungendo che avrebbe provveduto subito ad inviare in soccorso un gruppo dell’esercito. L’alto ufficiale tedesco ordina, infatti, telefonicamente al capitano Wichard von Alvensleben, che opera nella più vicina zona, di prendere in consegna i prigionieri e di procurare loro vitto e alloggio. Impresa non facile, ma la fortuna vuole che quel capitano sia persona coraggiosa e di elevati principi morali. Ricevuto l’ordine, il capitano si reca immediatamente a Villabassa, che dista pochi chilometri, per rendersi conto di persona di come stiano le cose. Capisce al volo che la situazione è seria e piena di pericoli per la incolumità degli ostaggi. Allora, facendo leva sul suo grado, ordina ad uno dei comandanti delle SS di sospendere il proprio incarico, ma nello stesso tempo telefona al suo corpo di guardia per avere il più rapidamente possibile un reparto d’assalto di sottufficiali armati di mitra. Composto da 15 militari, il reparto arriva poco dopo, a bordo di automobili. Il capitano fa schierare i suoi uomini di fronte all’ingresso del municipio con l’ordine di sorvegliare le SS e di impedire eventuali colpi di mano. Poi si reca a trovare i prigionieri nelle diverse pensioni, assicurando loro che da subito erano sotto la sua protezione e che non avevano più nulla da temere. Ma le cose non stavano in maniera così tranquilla. Lo stesso capitano si rende conto che 15 uomini sono poca cosa per fronteggiare una possibile aggressione delle SS. Chiede, dunque, rinforzi al comando generale, che giungono due ore dopo. Due ore terribili perché non si capisce quale sia l’atteggiamento delle SS. Finalmente arrivano 150 uomini al comando del sottotenente Thomalia e solo allora la situazione diventa assai più sicura. Il capitano fa circondare la piazza del mercato con l’ordine tassativo di non lasciare passare anche un solo uomo delle SS. Ma non è ancora il cessato pericolo. Il capitano, per maggiore sicurezza, decide di trasferire gli ostaggi, la mattina del 30 aprile ‘45, nell’hotel “Lago di Braies”, che è un grosso albergo di ben 200 stanze e, dunque, capace di ospitare nel modo migliore tutti gli ostaggi, in attesa dell’arrivo degli americani. La sistemazione, grazie all’efficienza del personale guidato con mano sicura dalla proprietaria, signora Emma Heiss-Hellenstainer, è perfetta. Certo l’albergo è attrezzato soltanto per il periodo estivo e manca, dunque, di un impianto di riscaldamento centrale. Ma anche a questo si provvede, dotando di stufe i locali dove sono alloggiati i più anziani e i più deboli, e riscaldando nello stesso modo un salone che servirà da mensa e da luogo di ritrovo. Il convoglio degli ostaggi è composto da oltre un centinaio di persone e la loro sistemazione è la seguente: al primo piano i Thyssen, i Goerdeler, gli Stauffenberg. Al secondo piano la famiglia Schuschnigg, Hjalmar Schacht, il pastore Niemoller, l’attaché Heberlein con moglie, cinque generali greci. Al terzo i signori Blum, inglesi, ungheresi, olandesi ed altri. Il posto è magnifico con colpo d’occhio sul lago e sulle montagne innevate. Un piccolo paradiso terrestre. Impeccabili anche i servizi, compresi i pasti. Nei quattro giorni prima dell’arrivo degli americani, nell’hotel giungono gruppi di partigiani, che vorrebbero prelevare i prigionieri per portarli nelle loro zone. Ma si tratta, come risulta di tutta evidenza, di programmi impraticabili, di cui gli stessi partigiani si convincono rapidamente. Gli ostaggi rimangono nell’albergo, con una unica eccezione, quella del nipote di Molotov, che si unisce, pur sconsigliato dagli amici, ad un gruppo di garibaldini. Stalin - dice - non mi perdonerebbe mai di essermi arreso a degli inglesi. Molto malato, con principi di congelamento ai piedi, il povero Vassili Kokorin cesserà di vivere circa un mese dopo. A liberazione avvenuta si viene a conoscenza di un altro episodio drammatico. Hans Philipp, capo della Gestapo di Silian, riceve l’ordine dalla Gestapo di Klagenfurt di trasportare immediatamente oltre frontiera i prigionieri, dove avrebbero trovato delle vetture pronte a portare gli ostaggi a Klagenfurt. L’ordine doveva essere eseguito subito, pena la fucilazione. Combattuto fra opposti e dilanianti sentimenti, il capo della Gestapo si toglie la vita, scongiurando con il suo gesto un ultimo tentativo diretto contro gli ostaggi. Uno di loro, Neuhausler, venuto a conoscenza dei fatti, si reca a visitare la tomba del suicida che “con il suo rifiuto di eseguire l’ordine della Gestapo di Klagenfurt ci ha forse salvato la vita e comunque in ogni caso ha impedito un tremendo spargimento di sangue”. La mattina del 4 maggio, alle ore 6,45, arriva sul posto la prima pattuglia americana. I tedeschi della Wehrmacht vengono disarmati e fatti prigionieri di guerra. Al capitano Alvensleben e ad un altro ufficiale, in considerazione del loro nobile comportamento, viene lasciata la pistola. Per gli altri tedeschi la decisione è questa: quelli che non hanno un passato nazista vengono immediatamente liberati, gli altri vengono incarcerati come prigionieri degli alleati. Fra questi ultimi il generale Alexander von Falkenhausen, il generale d’armata Franz Holder, il principe Filippo d’Assia, Hjalmar Schacht, il generale Georg Thomas, Fritz Thyssen. I liberati dovranno prima raggiungere Capri, da dove ognuno di loro tornerà nella propria residenza. L’ex cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg, la moglie e la figlia sceglieranno gli Stati Uniti come loro seconda patria, sbarcando il 6 settembre del ‘46 a New York.

 

Chi sono gli ostaggi nelle mani delle SS

 

Erano 139 gli ostaggi nelle mani delle SS che hanno rischiato di essere trucidati proprio nelle ultime ore della guerra. Alcuni di loro avevano partecipato alla lotta politica contro il nazismo, ma molti altri erano soltanto familiari di personalità antinaziste già trucidate per ordine di Hitler. La maggior parte degli ostaggi era tedesca: 72 su 139. Gli altri appartenevano a nazioni diverse. Erano presenti uomini e donne austriaci, cechi, danesi, francesi, inglesi, italiani, jugoslavi, lettoni, norvegesi, olandesi, polacchi, sovietici, slovacchi, svedesi e ungheresi. Tra i tedeschi c’erano i familiari di alcuni degli autori del complotto del 20 luglio 1944, nel quale Hitler scampò fortunosamente alla morte. La reazione che si scatenò dopo l’attentato fu violentissima. Gli autori dell’attentato (o anche persone soltanto sospettate) furono trucidate, alcune delle quali senza neppure una parvenza di processo. Ma per placare la rabbia di Hitler questo non bastò. Anche i familiari degli attentatori vennero arrestati e detenuti in diversi campi di concentramento. Tra questi vi erano ben 11 parenti del colonnello Claus von Stauffenberg, l’uomo che mise materialmente la bomba all’interno del locale in cui si trovava Hitler attorniato dai suoi generali. Von Stauffenberg venne assassinato nella stessa notte del 20 luglio nella sede del comando supremo dell’esercito a Berlino. Un altro consistente gruppo erano i familiari di Karl Goerdeler, l’ex sindaco di Lipsia che nel disegno degli attentatori avrebbe dovuto sostituire Hitler dopo la sua morte e che dopo il suo arresto fu torturato per 5 mesi e fucilato il 2 febbraio 1945. Tra i familiari di Goerdeler si trovavano la moglie, la figlia, il fratello e altri 5 congiunti. Anche Fey von Hassell sposata con l’italiano Detalmo Pirzio Biroli, figlia dell’ex ambasciatore tedesco in Italia, fucilato dopo l’attentato del 20 luglio era tra i 139 ostaggi. Delle sue vicissitudini parliamo in un articolo a parte. Un altro personaggio di grande rilievo che si trovava nel gruppo degli ostaggi era l’industriale Fritz Thyssen, la cui famiglia di produttori di acciaio aveva appoggiato Hitler fin dalle sue prime apparizioni sulla scena politica. Caduto in disgrazia per avere detto a Hitler che l’industria tedesca non era in grado di sopportare il peso della guerra, Fritz Thyssen fu costretto ad emigrare in Svizzera e quindi in Francia. Arrestato dal governo di Vichy venne restituito alla Germania e privato della libertà. Del gruppo tedesco faceva parte anche Filippo d’Assia, marito di Mafalda di Savoia, anche lei deportata a Buchenwald e morta in seguito a un bombardamento aereo degli inglesi. Tra gli ostaggi austriaci, il personaggio di maggior rilievo è certamente Kurt Schuschnigg, il capo del Partito cristiano sociale. Dopo che i nazisti austriaci, nel 1934, su ordine di Hitler assassinarono il cancelliere Dollfuss, Schuschnigg gli successe in quella carica. Nel 1938 cercò di contrastare con molte titubanze e cedimenti il tentativo di Hitler di impadronirsi dell’Austria, promuovendo prima e annullando all’ultimo momento un referendum popolare che avrebbe potuto bloccare il progetto nazista di annessione. Dopo l’Anschluss Schuschnigg, nonostante non fosse del tutto contrario al nazismo, venne internato in campi di concentramento assieme alla moglie Vera e alla figlia di soli 5 anni. Quando venne liberato non tornò subito nel suo paese e si trasferì negli Stati Uniti. Tornerà in Austria soltanto nel 1968. Tra gli ostaggi era presente anche il principale protagonista della controrivoluzione ungherese del 1920 che esautorò il governo di sinistra capeggiato da Béla Kun. Si tratta dell’ammiraglio Miklòs Horthy che, preso il potere, instaurò in Ungheria un governo filofascista. Horthy si schierò dalla parte dei nazisti entrando anche in guerra contro l’Urss fino al 1944, quando, di fronte all’avanzata dell’Armata Rossa, tentò di far uscire l’Ungheria dall’alleanza con la Germania. Il risultato fu il suo arresto e l’avvento al potere del movimento ultranazista delle “Croci Frecciate”. Horthy venne deportato in Germania e dopo la liberazione si trasferì in Portogallo dove morì nel 1957. Un altro capo di stato che faceva parte di quel gruppo era il socialista francese Léon Blum che tra il 1936 e il 1937 fu a capo del governo di coalizione del Fronte popolare costituitosi con il sostegno dei partiti di sinistra. Dopo l’invasione della Francia si oppose al governo di Vichy e nel 1942 venne deportato in un lager tedesco. Dopo la sua liberazione divenne ambasciatore di Francia negli Stati Uniti. Personaggio meno noto ma di un certo rilievo era il tenente sovietico Vassili Kokorin, nipote del ministro degli Esteri Molotov, stretto collaboratore di Stalin. Kokorin quando fu liberato era in gravi condizioni di salute, si unì ai partigiani ma morì dopo qualche settimana. Cinque erano gli italiani nelle mani delle SS: Mario Badoglio, figlio del maresciallo Pietro che sostituì Mussolini dopo la crisi del 25 luglio ‘43, Sante Garibaldi, un antifascista nipote dell’eroe dei due mondi. Il tenente colonnello Davide Ferrero e due personaggi che fino a qualche settimana prima avevano collaborato con Mussolini nel governo di Salò: Tullio Tamburini capo della polizia e il suo vice Eugenio Apollonio. Entrambi erano stati arrestati pochi mesi prima in quanto ritenuti responsabili di avere sostenuto una posizione in contrasto con la politica tedesca soprattutto per quanto riguardava la deportazione degli ebrei.

 

1945 - La liberazione dei celebri prigionieri

 

Possiamo trattarlo come un romanzo? Ci sono molti ingredienti. I protagonisti, 139 prigionieri, detenuti in campi di concentramento, tutti molto importanti e provenienti da 17 paesi europei; i contrasti delle terre di confine, le violenze, le sofferenze, il lieto fine, ma è una vicenda vera, europea, una delle tante che hanno attraversato la II guerra mondiale e di come le vicende private toccano la grande storia e quindi i luoghi e i tempi. I protagonisti di questo episodio - detenuti speciali - dell’ultima guerra mondiale sono personalità che hanno svolto ruoli di primo piano nelle vicende che hanno attraversato l’Europa prima e dopo l’avvento del nazismo. Alcuni di loro sono familiari degli organizzatori dell’attentato del 20 luglio del 1944 al Führer, altri, capi di governo e protagonisti di quella che gli storici definiscono il crollo delle democrazie europee per come si erano dimostrate deboli di fronte all’assalto del Terzo Reich : oppositori o vittime, uomini e donne travolti come milioni di altri nell’immane tragedia del nazifascismo. Personaggi il cui ruolo e importanza non sfuggiva ai dirigenti della Germania nazista che a fronte di una sconfitta ormai prossima consideravano gli ostaggi oggetto di possibili e fruttuose trattative con gli alleati. Sono nelle mani delle SS. La destinazione dei prigionieri, tutti riuniti dopo la deportazione in campi di concentramento, è Villabassa in Val Pusteria, Alto Adige, parte delle Alpi che il Terzo Reich chiamava la Fortezza Alpina, un’area considerata sicura, una roccaforte, una sorta di enclave, dalla quale resistere a oltranza e porre le condizioni per una trattativa con i vincitori. Una area estesa ed amica. La popolazione, in maggioranza di lingua tedesca, fino all’ultimo aveva sperato nel ricongiungimento con il Terzo Reich; non aveva accettato la presenza dell’Italia fascista, ostile da sempre al violento tentativo di assimilazione all’Italia e aveva anche subìto, dopo la vittoria della Germania sull’Austria nel 1939, l’obbligo dell’opzione: restare in Alto Adige accettando la politica di assimilazione fascista o trasferirsi nel Terzo Reich. Una decisione assunta da Mussolini e Hitler per eliminare ogni elemento di contrasto tra i due paesi. Si erano accordati nel garantire l’intoccabilità della linea di confine del Brennero, ponendo fine per tirolesi e altoatesini alle speranze che la loro terra venisse inclusa nel Terzo Reich. In altre parole cittadini che non si erano mai sentiti parte dell’Italia fascista: basta ricordare l’accoglienza che ebbero le truppe tedesche dopo il 25 luglio alla caduta del fascismo. Queste le premesse storiche che fanno da sfondo alla vicenda il cui svolgimento e la positiva soluzione con la salvezza di tutti i prigionieri avviene sostanzialmente in assenza di un qualsiasi ruolo dei rappresentanti delle istituzioni italiane. Anche il ruolo della Resistenza in questa vicenda appare marginale. I fatti si svolgono tra il 29 di aprile e il 9 maggio del 1945. L’agonia, la disfatta, non riguarda soltanto la Germania di Hitler ma anche Mussolini e la Repubblica di Salò, che di fatto questa parte del paese hanno ceduto totalmente alla influenza tedesca. È cambiato il contesto storico. Anche la nostra lettura assume un sguardo, un’attenzione diversa: la possibile soluzione positiva della vicenda è tutta nelle mani di alcuni uomini legati da un medesimo drammatico finale. È una resa dei conti tra soggetti egualmente responsabili della tragedia della seconda guerra mondiale: Berlino è già caduta e lontana. Sono militari, corpi speciali che si contendono gli ostaggi, merce di scambio, possibile salvacondotto per un futuro incerto, dopo la sconfitta. E tutto questo in un luogo inimmaginabile della Val Pusteria, tra Villabassa e un albergo in un luogo di straordinaria bellezza, il lago di Braies. Tutto si concluderà con l’arrivo degli alleati, la riconoscenza dei prigionieri nei confronti dei militari della Wehrmacht che li hanno sottratti alle minacce delle SS e il ringraziamento per la libertà riconquistata con l’aiuto degli abitanti di Villabassa e in particolare della proprietaria dell’albergo “Lago di Braies”, la signora Emma Hesse-Hellenstainer, che è l’altra protagonista della nostra storia: il lieto fine. Siamo in Val Pusteria. Chi giunge per la prima volta al lago vi arriva dopo una breve rapida ascesa attraverso la Valle di Braies, passa prima davanti all’albergo che sorge proprio davanti allo specchio d’acqua che si estende per oltre 2 km. Un luogo inaspettato, di grande bellezza tra cime che si ergono a strabiombo e boschi di abeti e di pini. L’albergo è la cornice, il luogo, neutro, in cui per alcuni giorni in una condizione di sostanziale libertà, dopo che le loro vite si erano trovate in grave pericolo, gli ostaggi sopravissuti ritornano alla vita. “Il ritorno alla vita” avviene grazie alla accoglienza e alla generosità di Emma Heiss-Hellenstainer. È lei che pur in condizioni di grave difficoltà riesce a organizzare nel suo albergo una parvenza di normalità ridando senso e speranza a questi “speciali clienti”. Sono passati sessant’anni da quegli avvenimenti, ma il complesso di quella vicenda così drammatica, non è andato perduto. A sessanta anni di distanza, l’anno scorso a Villabassa e in questi giorni a Castel Tirolo si tiene una mostra che raccoglie luoghi, documenti, immagini dei protagonisti di questo episodio certamente tra i più significativi della conclusione della seconda guerra mondiale. Sono i fatti avvenuti tra Villabassa e l’albergo “Lago di Braies”. Si coglie nella organizzazione della mostra il rilievo dato al ruolo e al livello di importanza dei protagonisti, che per la prima volta viene portata alla conoscenza dei più e al di fuori del circuito degli studiosi. E in secondo luogo il ruolo di una piccola comunità - alla fine della seconda guerra mondiale - quella di Villabassa da cui emerge in circostanze straordinarie la figura della proprietaria di questo albergo che si trova a gestire una vicenda molto complessa, che poteva volgersi in modo drammatico per i prigionieri con conseguenze gravi negli svolgimenti successivi di quelle terre di confine. Quanto avviene nell’albergo, per come viene organizzata la permanenza di questi illustri ospiti. L’esposizione minuta dell’organizzazione della vita, degli orari, dei pasti, e la ripresa del contatto con la vita reale, la possibilità di riprendere il dialogo con le persone e l’ambiente, il ritorno alla normalità. È davvero un ritorno alla vita e la signora Heiss ne è la levatrice, li rende definitivamente liberi. Il merito della mostra, patrocinata del comune di Villabassa, si deve alla cura e alla passione della nipote della protagonista e proprietaria dell’albergo “Lago di Braies”, la dottoressa Caroline M. Heiss che ha raccolto e conservato l’eredità della nonna ordinando i materiali, le testimonianze e gli scritti e le immagini di questa straordinaria vicenda.

 

Il padre, che fu fucilato, aveva preso parte al complotto

I bambini strappati alla figlia dell’ex ambasciatore in Italia

 

Fey von Hassell aveva 26 anni quando, nel settembre del 1944, i nazisti vennero a prenderla a Brazzà, in provincia di Udine, per deportarla assieme ai suoi due figli, di 4 e 3 anni. Pochi giorni prima suo padre, Ulrich von Hassell, ex ambasciatore della Germania a Roma, era stato processato da un tribunale nazista e condannato alla fucilazione. La sua colpa era quella di aver fatto parte del complotto che portò al fallito attentato a Hitler. Se l’attentato fosse riuscito, von Hassell avrebbe assunto la carica di ministro degli Esteri nel nuovo governo che aveva il compito di firmare la resa con le potenze alleate. Von Hassell era sempre stato ostile al nazismo. Lo dimostra il suo Diario segreto, una serie di appunti scritti negli anni in cui rappresentava come ambasciatore la Germania di Hitler a Roma, ritrovati nel dopoguerra e pubblicati dagli Editori Riuniti, la casa editrice del Pci. La sua adesione alla cospirazione che doveva portare alla morte di Hitler, era quindi scontata e su di lui, come sugli altri congiurati, si abbatté l’ira del capo del nazismo, facendone pagare le conseguenze anche alla figlia e i suoi nipotini. Fey von Hassell aveva sposato pochi mesi prima dell’inizio della guerra, il nobile italiano Detalmo Pirzio Biroli. Al momento dell’arresto i suoi due bambini le vennero subito strappati e di loro Fey non ebbe più notizie. Il marito - che apparteneva a una famiglia di sentimenti antifascisti (un suo cugino fu ucciso l’8 settembre dai tedeschi mentre si opponeva all’occupazione dell’aeroporto di Tirana ed è stato insignito della medaglia d’oro al valor militare) - si trovava nel sud con l’esercito di liberazione che combatteva a fianco degli alleati, e alla fine della guerra lo ritroveremo segretario del presidente del Consiglio Ferruccio Parri. Dopo l’arresto Fey von Hassell fu prima incarcerata a Udine poi, assieme ad altri prigionieri, fu trascinata dai nazisti in un lungo viaggio le cui tappe principali furono Dachau, Stutthof, Buchenwald. La sua odissea - da lei descritta nel libro I figli strappati edizioni dell’Altana - non terminò con la liberazione a Braies. Fey - che non poteva tornare in Germania in quanto cittadina italiana - affidò alla anziana madre le ricerche dei due figli. Per diversi mesi furono visitati istituti in cui erano stati ricoverai bambini sottratti ai genitori dalle SS. Quando ormai tutte le ricerche sembravano vane, in un istituto vicino a Innsbruck, furono individuati due bambini cui i nazisti avevano cambiato il cognome. Il più grande riconobbe immediatamente la nonna, mentre per il più piccino, di poco più di 3 anni, non vi era la certezza che fosse realmente il figlio di Fey. Soltanto quando la nonna mostrò al bambino alcune fotografie della famiglia, il piccolo riconobbe un cavallino bianco con cui aveva giocato a Brazzà ed esultante disse il suo nome: “Mirko”. Soltanto allora anche questa famiglia perseguitata dal nazismo ha potuto ricomporsi.

 

Triangolo Rosso, maggio 2006

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