Triangolo rosso

L’8 settembre del 1943 nel ricordo degli adolescenti di allora

La giornata di sessant’anni fa che segnò l’occupazione del nostro paese e la Resistenza contro l’invasore. Abbiamo chiesto a quattro ragazzi e a due giovinette di allora di ricordare quella giornata.

Natalia Aspesi giornalista scrittrice - Sergio Banali giornalista - Gerardo D’Ambrosio magistrato - Bruno Enriotti giornalista, direttore della Fondazione Memoria della Deportazione - Miuccia Gigante segretaria generale Aned - Corrado Stajano giornalista - scrittore

 

8 settembre del 1943, l’annuncio dell’armistizio, l’illusione per molti che la guerra fosse finita. Non era così. Per l’Italia, anzi, ebbe inizio, il periodo di maggiore drammaticità. Vittorio Emanuele III, immeritatamente fregiato col titolo di “re soldato”, fuggì nell’Italia liberata, assieme al capo del governo Pietro Badoglio, suo degno compare, lasciando allo sbaraglio, senza alcuna indicazione, il nostro esercito, che fu, così, facile preda dei tedeschi. Cominciarono da quel giorno le due fasi che segnarono la storia del nostro paese: l’invasione delle truppe di Hitler, la Resistenza. Diciotto mesi di indicibili tragedie quotidiane, di lacrime e sangue, ma anche di gloria e di riscatto. Tante le reazioni della gente, ma come vissero la giornata dell’8 settembre i ragazzi di allora? L’abbiamo chiesto a sei di loro, quattro giovani e due fanciulle. Sei adolescenti di diverse parti d’Italia e di diversa estrazione sociale. Potete leggere le loro testimonianze qui di seguito. Nessuno di loro, per ovvie ragioni anagrafiche, partecipò alla lotta di Liberazione. Ma la loro vita fu comunque segnata da quelle tragiche giornate: dalle restrizioni di ogni tipo, dalla paura per i bombardamenti aerei, dal coprifuoco, dalla borsa nera. Tutto questo per i ragazzi “ariani”. Per i coetanei ebrei, l’8 settembre equivalse ad una sentenza di morte. Pochi riuscirono a sfuggire alla feroce caccia dei nazisti e dei loro servi fascisti. A ricordo di tutti sono giunte fino a noi e risuoneranno per sempre le voci dell’olandese Anna Frank, del polacco Dawid Rubinowicz e di pochi altri. Nel maggio del ’44 la quindicenne Anna Frank scrisse nel suo Diario: “Il mio più caro desiderio è di diventare un giorno giornalista e poi scrittrice”. La sua aspirazione, a giudicare dagli scritti che ci sono rimasti, si sarebbe realizzata alla grande. Altri due adolescenti sono stati più fortunati: Elie Wiesel, che quando venne catturato aveva quindici anni e Imre Kertèsz, che ne aveva quattordici, entrambi detentori di un premio Nobel, il primo per la pace nel 1986 e il secondo per la letteratura, nel 1999. Solo due. Ma quanti altri avrebbero potuto esprimere, al massimo livello, nei vari settori del sapere, il loro talento? In ogni caso ognuno di loro aveva l’elementare diritto di vivere. Sessanta anni da allora. Chi era un ragazzo, oggi, se vivo, ha una molteplicità di ricordi, tante vicende da rammentare, tanti episodi di sofferenza, di gioia. Tanti i modi vissuti nella giornata dell’8 settembre del ’43. Tante vite stroncate, tanti combattenti per la libertà imprigionati, torturati, impiccati, tanti i deportati che non hanno fatto più ritorno dai campi di sterminio, tanti finiti nelle camere a gas. Dovere nostro è non dimenticare. Il Dizionario dell’Olocausto, di recente pubblicazione, ci ricorda che dei sei milioni di ebrei che furono massacrati, un milione e mezzo erano bambini, “in gran parte al di sotto dei quindici anni”.

RIVA DEL GARDA (TRENTO)

Quegli otto ragazzi trucidati dalle SS

Natalia Aspesi giornalista - scrittrice

 

Dell’8 settembre ho ricordi molto vaghi, ero bambina e vivevo piuttosto protetta, con problemi miei che allora mi rendevano poco curiosa del mondo. Mia sorella Maria Pia, che ha invece una memoria di ferro, mi ha aiutato a tornare a quei giorni, a quella notte. Noi eravamo a Riva del Garda, dove mia madre, maestra elementare, aveva ottenuto di trasferirsi da Milano. Eravamo in tre, la mamma, mia sorella ed io, il papà era morto da diversi anni. Il pomeriggio dalla caserma dei nostri soldati venne il suggerimento di lasciare le case e rifugiarci nella montagna più vicina, perché con l’armistizio, i tedeschi stavano occupando militarmente L’Italia diventata paese nemico, e il nostro esercito, lì, stava progettando di resistere. Ci ritrovammo in tanti ad occupare delle vecchie capanne abbandonate, compresi dei soldati “ustascia”, che erano di stanza a Riva, avevano lasciato la divisa e si erano fatti imprestare abiti dalla popolazione, in questo senso molto generosa. Ma dove ci eravamo rifugiati scorazzavano enormi topi e mia madre allora disse, meglio i tedeschi dei topi, e ce ne tornammo a casa in piena notte. A noi non successe niente, ma il giorno dopo ci informarono che all’alba, un reparto di SS era entrato in alcune case e trucidato, sotto gli occhi dei familiari, otto ragazzi sospettati di tenere collegamenti coi partigiani. Ricordo benissimo l’orrore che mi fece, vedere la mattina dopo quei biondi assassini in divisa, si diceva tra l’altro provenienti da Bolzano, ridere bere e mangiare ai tavoli di un bar. La zona era ormai occupata dai tedeschi e la vita si era fatta pericolosa, anche perché mia sorella, di qualche anno maggiore di me, era incaricata di prendere la corriera e raggiungere Lazise dove nostri amici nascondevano militari inglesi, per portare a quelli che non avevano trovato rifugio e vagavano per la campagna, calze e maglioni di lana. A Milano intanto, in seguito ai bombardamenti, il nostro appartamento era stato occupato, così mia madre, terrorizzata dall’idea di perdere la casa, decise di tornare: salimmo su un camion che scendeva in Lombardia e al primo posto di blocco fummo fermati: un militare tedesco, come sempre gridando e agitando un fucile, chiese i documenti, mia madre e mia sorella avevano la carta d’identità, io no. Frugando disperata nella borsetta mia madre trovò la mia ultima pagella di scuola e la mostrò, fu scambiata per chissà quale documento e ci lasciarono passare.

GOITO (MANTOVA)

Nella notte un cupo rumore:“i tudesch”

Sergio Banali giornalista

 

Non avevo ancora tredici anni l’8 settembre 1943. Mi trovavo a Goito, nel Mantovano, il mio paese di nascita.

 

Vi ero tornato dopo la fine dell’anno scolastico alle “commerciali”, da Varese dove abitavo dal settembre 1940, quando avevo raggiunto i miei genitori che vi si erano trasferiti già da alcuni mesi, animati dalla speranza di una vita migliore nella città delle fabbriche e della “quindicina” sicura. La forte impressione suscitata dai gravi e inattesi avvenimenti di quell’estate prevalsero sulle vacanze con gli amici d’infanzia, dedicate in particolare alla pesca, con interminabili “esplorazioni” sul Mincio, nei canali e nei fossi. Ero infatti a Goito da giugno e avevo quindi già vissuto, a luglio, i giorni della caduta del fascismo. Non vi furono vendette o punizioni a danno dei fedelissimi o dei gerarchi che, persa l’abituale baldanza, non si vedevano più in giro. Salvo qualche ingiuria a base di “cancher” a voce spiegata e il riecheggiare di canti proibiti per vent’anni, in fondo l’avversione, il malcontento, la rabbia vennero scontati da alcuni simboli abbattuti a martellate e da una serie di scritte esaltatorie cancellate in tutta fretta. Compresa quella, forse la più emblematica, che campeggiava su una “canaletta” di cemento che convogliava l’acqua per l’irrigazione. Era firmata da Mussolini. “Il fascismo mantovano” – proclamava con boriosa retorica – “è una colonna formidabile et intangibile del regime”. Ma si raccontava che forse vernice o calcina non furono sufficienti, per cui il nero faccione del Duce riapparve a fissare stralunato i passanti. Il crollo clamoroso faceva sperare che aprisse la strada alla pace. Ricordo che anche tra i più avveduti antifascisti (come sentivo raccontare nella famiglia del mio nonno materno), si pensava che forse la formula contenuta nel proclama di Badoglio «La guerra continua…» mirasse più che altro a tranquillizzare i tedeschi. Si sa, invece, come si svilupparono gli ambigui 45 giorni che precedettero l’armistizio. Piombato come un fulmine in una sera calda e tranquilla, il proclama – anche questa volta di Badoglio, ripetuto ad intervalli regolari – venne dapprima ascoltato da poche famiglie, perché le case provviste di radio erano una esigua minoranza. Ma l’annuncio venne ritrasmesso con viva emozione ai parenti, ai vicini, agli amici. Raccolto dai gruppi che si riunivano attorno alle finestre spalancate, invase rapidamente le contrade, mentre già si distendeva contemporaneamente dalle frazioni e dai borghi su tutta la campagna, suscitando un’eccitazione più profonda e vasta rispetto al 25 luglio. «Finalmente è finita! Presto torneranno a casa», si sentiva ripetere nelle famiglie che avevano mariti, figli o fratelli al fronte. Ed era la stessa speranza che coinvolgeva anche quelle in cui i caduti in Russia, Africa, Grecia, Albania, Jugoslavia e altrove, avevano scavato vuoti incolmabili. Resi ancora più drammatici e dolorosi dall’infuriare, l’anno prima, di un’epidemia di tifo che si era portata via decine di persone. Ma la pace si rivelò un’illusione, cancellata in una manciata di ore. Il 9 settembre motociclisti della Wehrmacht esplorarono sommariamente il paese e le frazioni maggiori. Poi in una notte successiva un rombo cupo di motori spezzò il silenzio ovattato: i tedeschi stavano arrivando in forze a bordo dei loro potenti mezzi. Immediatamente installarono il comando in una imponente e storica villa il cui parco divenne un organizzatissimo deposito di armi, carburanti e automezzi di ogni tipo. Il ponte sul Mincio, noto per la battaglia risorgimentale del 1848, in cui i bersaglieri di La Marmora ricevettero il battesimo del fuoco sconfiggendo gli austriaci, venne subito sottoposto a stretto controllo. Così come l’unica officina meccanica del paese specializzata in autoriparazioni. Il potere si estese naturalmente alle borgate. In una di esse venne organizzato un fornitissimo magazzino di viveri e generi di conforto per la truppa, che sarà assaltato e saccheggiato, nei giorni della fine della guerra, da una folla accorsa da ogni parte. Un obiettivo prioritario fu la creazione di numerosi depositi di benzina accuratamente mimetizzati. Lunghi fossati vennero scavati paralleli alle strade di campagna, profondi a sufficienza per contenere i bidoni necessari ai rifornimenti delle autocolonne. Il vasto territorio del comune divenne così sempre più un obiettivo dei ricognitori e dei caccia-bombardieri alleati. Paradossalmente a volte, quando le fosse erano vuote, servivano da precari rifugi antiaerei. Furono utilizzati anche i vecchi trinceramenti costruiti nel 1917, che facevano parte di una linea di difesa nell’eventualità che le truppe nemiche, tedesche ed austriache di allora, dilagassero nella pianura padana dopo la sconfitta dell’esercito italiano a Caporetto. Con il passare del tempo gli occupanti tenteranno di accompagnare l’immagine della loro efficienza guerresca, a iniziative (sostanzialmente fallite) di fraternizzazione: manifesti sull’amicizia fra camerati italo-tedeschi, o qualche stanca festicciola, ballo incluso, che puntava a ridurre l’isolamento, anche con l’aiuto dei fascisti redivivi che avevano scelto la mussoliniana repubblica di Salò e la sudditanza al padrone tedesco. Ma nulla poteva cancellare l’avversione che si era accentuata da quando, fin dai primissimi giorni dopo l’armistizio erano arrivate al paese notizie sconvolgenti: a Mantova lunghe colonne di soldati italiani prigionieri avevano attraversato la città verso i centri di raccolta per la deportazione in Germania; un ufficiale era stato ucciso dalle SS per aver detto no ai loro ordini: due militari di guardia ad una caserma avevano subito la stessa sorte. Persino un prete era stato assassinato per aver dato asilo agli sbandati. Le rappresaglie aumentarono la paura, ma non ridussero la compassione, non fermarono soccorso e solidarietà a quei “pòver fioi” che rischiavano di essere ammazzati o deportati dai “tudesch”. Non so se furono pochi o numerosi e dove fossero diretti. So soltanto che cercavano scampo scegliendo le strade secondarie (a quei tempi tutte “bianche”) o i sentieri, dove era più facile nascondersi, al minimo segnale di pericolo, nei macchioni o lungo le rive di fossi e canali. Ricordo che nella frazione dove abitava la famiglia dei miei nonni paterni (anch’essa mi aveva ospitato quell’estate), qualche fuggitivo attraversò di notte il Mincio a nuoto o affrontando un difficile guado nella luce incerta. La gente li aiutava come poteva, con il pane, qualche uovo e soprattutto con pantaloni, camicie o altri indumenti che sostituissero in qualche modo le divise. Tutto vestiario usato, a volte malandato, ma che rappresentava spesso una parte non trascurabile di un guardaroba modestissimo. Intanto una grande impressione suscitò la strage di Curtatone alle porte di Mantova, dove dieci soldati italiani – tra i quali un ragazzo di 19 anni – falsamente accusati di aver sparato su un reparto di tedeschi ferendone due, furono falciati dal fuoco di una mitragliatrice e sepolti nella fossa scavata da loro stessi. Nei medesimi giorni tre goitesi cadevano in un luogo lontanissimo di cui pochi avevano sentito parlare: l’isola di Cefalonia, come ricorda una rievocazione storica della Resistenza pubblicata dal Comune di Goito nel 1996, a cura di Maurizio Bertolotti. Il primo, Gino Mantelli di 26 anni in combattimento. Gli altri due, Attilio Nolli di 27 anni e Francesco Frigeri di 23, fucilati nella carneficina di rappresaglia compiuta dalla Werhmacht. Un quarto paesano, Emilio Di alma Anelli di 33 anni, fu deportato in un lager tedesco da dove non fece più ritorno. La mia estate del ’43 finì poco dopo la metà di settembre quando un giorno, tornando con gli amici dalla pesca verso il tramonto, vidi mio padre venirmi incontro sul ponte. «Domani partiamo», mi disse prima di abbracciarmi. Era arrivato da Varese in anticipo sulle mie previsioni. «Tua madre» - aggiunse - «è disperata. Abbiamo paura che se il fronte si sposta, noi restiamo da una parte e tu dall’altra.» Non sapevo cosa obiettare. Partii con i ricordi vivi di quei mesi tragici. E con nostalgia, una specie di sasso che mi pesava in gola. Ma tant’è… Accadeva ogni volta che lasciavo il paese.

 

MONTESCUDAIO (PISA)

L’anziano antifascista: “Il peggio deve ancora venire”

Gerardo D’Ambrosio magistrato

 

L’8 settembre 1943 non avevo ancora compiuto tredici anni, eppure di quel giorno e di quelli immediatamente successivi ho un ricordo nitido.

 

Mi trovavo con mia madre ed i miei quattro fratelli , l’ultimo dei quali aveva solo quattro anni, a Montescudaio, un paesino della Toscana arroccato su una collina, nel quale, subito dopo la chiusura delle scuole, nel giugno di quello stesso anno, ci eravamo trasferiti da Livorno, città in cui mio padre prestava servizio come maresciallo della Guardia di Finanza. A Livorno infatti abitavamo all’ultimo piano di un grande fabbricato nei pressi della piazza dei Quattro Mori, proprio di fronte alla Fortezza Vecchia, che si affacciava sul porto, già sottoposto più volte a bombardamenti aerei. A Montescudaio eravamo una delle famiglie di sfollati, per fortuna ancora non molte, e la gente del paese ci trattava con grande comprensione, quasi con affetto. La casa in cui abitavamo era molto piccola e i miei fratelli ed io, passavamo praticamente quasi tutto il giorno in strada o al campo sportivo nella valle tra Montescudaio e Guastalla ed in pochi giorni stringemmo amicizia con i ragazzi del paese. Da questi ultimi, alcuni di qualche anno più grandi di noi, dopo il 25 luglio avevamo appreso che in paese vi erano degli antifascisti e che il più importante di questi era un distinto anziano signore che aveva un allevamento di api ed aveva spesso manifestato generosità nei confronti di noi ragazzi sfollati regalandoci frutta del suo orto. A lui pertanto i miei fratelli ed io ci eravamo rivolti per trovare una risposta alle domande che tutti si ponevano, mia madre in particolare in maniera angosciante, per essere mio padre lontano da casa ed impegnato in una formazione militare a difesa di eventuali sbarchi sulla costa, dopo la caduta del fascismo. Sarebbe finita la guerra? Il re che aveva fatto arrestare Mussolini avrebbe fatto una pace separata? La risposta dell’anziano produttore di miele, ci lasciò molto delusi la guerra non sarebbe finita né subito né presto e che il peggio era ancora da venire. Solo più tardi, capii che quella risposta, dettata da anni di abitudine alla prudenza e alla diffidenza, in fondo significava che anche se il re avesse concluso la pace separata con gli alleati, la guerra sarebbe continuata con i tedeschi. Lo capii proprio l’8 settembre. Ci fu un grido altissimo, liberatorio: «l’armistizio, la guerra è finita» che rimbalzò di bocca in bocca come una palla impazzita e fece scendere tutti in strada. Tutti gioivano, si abbracciavano. Lui solamente, il produttore di miele, si guardava intorno come smarrito e scuotendo il capo assunse un’aria estremamente preoccupata e cupa. La parola gli tornò solo quando cominciarono a passare i primi soldati italiani sbandati. Il nostro esercito aveva buttato le armi e si era dissolto come neve al sole. Prima smoccolò, cosa che mi impressionò perché non l’aveva mai fatto prima e poi quasi sussurrando disse: «ma dove sono gli ufficiali, ma non capiscono che così tutti saremo veramente in balia dei tedeschi ?». Quando tornai a casa trovai mia madre molto tesa e preoccupata. Leggeva e rileggeva il comunicato radio del gen. Badoglio che la giovane moglie di un capitano della Finanza, anche lei sfollata a Montescudaio le aveva lasciato. Aveva capito che mio padre, militare di carriera che aveva combattuto sul Piave durante la prima guerra mondiale sarebbe rimasto al suo posto con gli uomini al suo comando ed avrebbe combattuto contro i tedeschi se avessero tentato di disarmarli e che correva pericoli di vita ancor più gravi di quelli corsi sino allora per i bombardamenti aerei che si facevano sempre più intensi e frequenti. Uno di questi bombardamenti, ricordo, avevano distrutto la caserma della Guardia di Finanza ed avevano ucciso alcuni dei suoi colleghi tra cui uno dei suoi migliori amici che, al comando della sua motovedetta, anche dopo l’inizio del bombardamento aveva continuato a fare la spola tra la caserma e la Fortezza Vecchia, in cui era situato il rifugio più sicuro, per portare in salvo i finanzieri. Mia madre ci disse quindi di tornare in strada e di chiedere ai soldati in fuga o a chiunque entrasse in paese se venissero da Livorno e se sapessero che cosa aveva fatto la Guardia di Finanza, che cosa aveva fatto il comando di Legione che dal porto, dopo la distruzione della caserma, si era trasferito in una zona periferica interna. Nessuno riuscì a darci notizie e via via che passava il tempo la nostra tensione e preoccupazione andava crescendo. Non ricordo più quanti giorni o quante notti passammo in queste condizioni; ricordo solo che una notte sentimmo il rumore di alcuni sassolini gettati contro i vetri della finestra della camera da letto e che mia madre alzatasi di scatto disse: «è papà». Corse quindi ad aprire la finestra e, dopo avere intimato a tutti di stare zitti, andò ad aprire la porta. Fu la prima volta che vidi mio padre senza divisa e stentai a riconoscerlo; indossava una tuta da meccanico ed aveva la barba di alcuni giorni. Dopo averci abbracciato ad uno ad uno ed aver ricevuto risposta negativa alla domanda se ci fossero tedeschi in paese, estrasse la fondina con la pistola d’ordinanza da sotto la tuta e la ripose in alto sull’armadio come al solito e chiese a mia madre che sgomenta, gli aveva sussurrato «sei proprio un pazzo» se c’era qualcosa da mangiare. Ci sedemmo tutti intorno al tavolo, in silenzio, ma i nostri sguardi tradivano l’ansia di sapere, di conoscere cosa era accaduto. Mio padre, terminato il frugalissimo pasto, iniziò a raccontare. La notizia dell’armistizio lo aveva colto in caserma. Il colonnello comandante aveva subito riunito tutti i comandanti di reparto ed aveva impartito le direttive perché fossero pronti in caso di attacco da parte dei tedeschi. Aveva quindi cercato inutilmente di mettersi in contatto con il comando di zona per più precise direttive. Per questo con un furgoncino “balilla” nel cui cassone aveva sistemato tre finanzieri armati aveva deciso di recarsi personalmente al comando, ritenendo che i tedeschi avessero già interrotto le comunicazioni telefoniche. Erano giunti senza intoppi al comando, abbandonato come tutte le altre caserme sul percorso. Sulla via del ritorno, purtroppo, erano incappati in un posto di blocco che avevano forzato sparando all’impazzata. Due dei tre finanzieri nel cassone erano rimasti uccisi da una scarica di mitra, anche se il terzo era riuscito a colpire i due tedeschi che avevano aperto il fuoco. Il colonnello aveva dato quindi ordine di trincerarsi intorno alla caserma, piazzando vedette nei punti strategici per segnalare tempestivamente eventuali movimenti dei tedeschi in attesa di ulteriori ordini dai comandi superiori. Gli ordini non erano arrivati. Erano arrivati invece i carri armati tedeschi ed in numero sufficiente a scoraggiare qualsiasi resistenza. Solo in quel momento il colonnello aveva dato l’ordine di abbandonare le postazioni, di portare con sé solo le armi corte di dotazione e di stare lontani dai tedeschi, in posti sicuri in attesa di sue comunicazioni. Da un meccanico mio padre aveva avuto la camicia, la tuta ed una bicicletta, con la quale, viaggiando di notte e per strade secondarie, era riuscito a raggiungere il paese. Il colonnello, come promesso si rifece vivo e convinse mio padre a riprendere servizio. Era assolutamente indispensabile, a suo parere, che i corpi di polizia riprendessero servizio per la tutela della popolazione civile. Pur essendo il messaggio molto chiaro mio padre mise come condizione di essere destinato al comando di un piccolo reparto in zona in cui non avrebbe dovuto prendere ordini dai tedeschi. Fu accontentato e destinato a comandare la piccola brigata di Saline di Volterra, dove ci trasferimmo tutti. Seppi solo alla liberazione che uno dei tre finanzieri, di cognome Pacetto, molto legato a mio padre, aveva tenuto costanti rapporti con i partigiani.

GENOVA

Distrutta a sassate la lapide dello squadrista

Bruno Enriotti giornalista, direttore della Fondazione Memoria della Deportazione

 

L’ 8 settembre 1943, nella mia memoria di ragazzino ha il volto di un militare calabrese, piccolo e bruno, che bussa alla porta di casa mia verso l’ora di cena.

 

È vestito da marinaio e ha in mano una pesante caffettiera di alluminio con incisa una grande ancora racchiusa in un nodo di casa Savoia. Ci eravamo conosciuti qualche settimana prima, mentre faceva la guardia ad una galleria dell’autostrada Genova-Serravalle (allora si chiamava Camionale) dove noi trovavamo rifugio durante i terribili bombardamenti dell’agosto ‘43. Quel soldatino aveva fraternizzato con noi, soprattutto perché attratto da mia sorella che aveva tre anni più di me, cui faceva una corte discreta. Quando la radio annunciò l’armistizio il soldatino fuggì dalla caserma come tutti gli altri. Non sapeva dove andare, non conosceva nessuno, la famiglia era al di là del fronte. Ricordava solo il nostro indirizzo e bussò da noi. Era impaurito e disperato come dovevano esserlo centinaia di migliaia di soldati italiani che Badoglio con il suo proclama aveva mandato allo sbando consegnandoli di fatto nelle mani dei tedeschi. Voleva soltanto abiti borghesi per potersi nascondere, e intendeva sdebitarsi regalandoci quella pesante caffettiera con lo stemma della marina. Naturalmente, come avvenne in quei giorni tantissime famiglie italiane, mia madre gli diede quel poco che aveva: un po’ di pane, un paio di pantaloni, una camicia, una giacca di mio padre. Si allontanò così vestito ed ebbe la fortuna unirsi ai partigiani. Lo ritrovai qualche anno dopo: era iscritto al mio stesso partito e aveva aperto un negozio di barbiere a Cornigliano. La caffettiera è rimasta in bella mostra per anni su un mobile di mia madre, e ogni volta che andavo a trovarla la guardavo con affetto perché testimoniava al contempo un episodio importante della mia vita di ragazzo tredicenne e un momento fondamentale della storia del mio paese. Se questo è il ricordo più vivo che ho dell’8 settembre, altri episodi mi tornano alla mente di quei giorni drammatici. Forse tendo a confondere episodi accaduti quel giorno con altri ai quali partecipai, con l’entusiasmo e l’incoscienza di un ragazzino di tredici anni, poche settimane prima, nei giorni attorno al 25 luglio. Vivevamo a Sampierdarena, io, mia madre, mia sorella e mio padre ferroviere antifascista da sempre (di lui ricordo che un giorno, credo verso il ’39, mentre stavamo mangiando, io ripetei una frase che mi aveva colpito a scuola «In Spagna, lì, li mettono a posto i rossi»: a commento mi arrivò uno schiaffo, senza nessuna spiegazione, e solo dopo anni ho capito quanto poteva essere stata grande la sua sofferenza di padre nel sentire il figlio che fa propria la versione fascista di quella vicenda tragica e gloriosa). L’8 settembre fu però per me un momento di grande apprendimento. Il mondo in cui vivevo era permeato di antifascismo che venne alla luce in modo sempre più dirompente col prolungarsi della guerra che per noi significava dolore, fame e bombardamenti. Il 25 luglio, o meglio la mattina del 26, lo ricordo come un giorno luminoso di speranza, di grande festa. Quando scesi per strada nella piazzetta davanti a casa mia, punto di ritrovo di tutto il rione Campasso, vi era un gran fermento: in tutti era la certezza che con la caduta di Mussolini la guerra sarebbe finita. Mio padre era al centro di un capannello assieme ad un suo amico che portava all’occhiello un distintivo che non avevo mai visto: una grande falce e martello. Non pochi erano coloro che volevano vendicarsi delle violenze subite in anni lontani ma mai dimenticate. Qualcuno mostrava una bottiglia in cui aveva conservato per vent’anni gli effetti dell’olio di ricino che gli squadristi gli avevano fatto bere, e sembrava deciso a far ingoiare il contenuto agli aggressori di un tempo. Qualche sconsiderato, che non aveva sentito la radio, era uscito di casa con la “cimice” del Pnf: veniva fermato, insultato e costretto a gettare il distintivo fascista. A metà mattinata si formò un corteo spontaneo che si diresse verso un deposito di vini di proprietà di uno squadrista. Occupava tutto il pianterreno di un edificio che prima del fascismo apparteneva alla cooperativa dei ferrovieri. Nel ’22 una squadraccia fascista aveva assaltato la cooperativa, difesa da un gruppo di ferrovieri, fra cui mio padre, che vi si erano barricati dentro. Vi fu un duro scontro, dall’interno partì un colpo di rivoltella che raggiunse un fascista che tentava di sfondare la porta, mentre gli assediati riuscirono a fuggire da un’uscita secondaria che dava verso la collina. Al fascista ucciso, Egidio Mazzucco, venne intitolata la strada dove era avvenuto lo scontro, mentre il capo della squadraccia si impossessò dei locali della cooperativa per istallarvi il suo magazzino di vini all’ingrosso. Il 26 luglio questo deposito fu assaltato, botti e bottiglie vennero distrutte (molte trafugate) e, inebriati da quel fortissimo odore di vino, io e altri ragazzi ci divertimmo a distruggere a sassate la lapide che ricordava Egidio Mazzucco. Dopo l’8 settembre i repubblichini di Salò infissero una nuova lapide col nome del fascista ucciso, alla quale era stata aggiunta una scritta che diceva «Il 26 luglio 1943 mani criminali vollero distruggere questa lapide, ma il ricordo del nostro camerata vivrà in eterno». Ogni giorno, andando a scuola, guardavo quella scritta, ed ero orgoglioso di essere stato una di quelle “mani criminali”. Nelle settimane successive al 25 luglio andavo spesso nel bar sede della società sportiva “La Ciclistica”. Cercavo invano di unirmi al gruppo dei giovani che avevano qualche anno più di me: loro parlavano già di corteggiamenti e primi amori e non volevano con loro quel ragazzino troppo piccolo. Dopo l’8 settembre quasi tutti quei giovani salirono in montagna con i partigiani. Nella grande lapide che ricorda i caduti della Resistenza posta nella piazzetta dei miei giochi infantili ci sono diversi nomi di quei giovani che avevo conosciuto alla “Ciclistica”. Due di essi riuscirono a scrivere poche righe ai familiari prima di essere fucilati. Sono Sergio Piombelli, al quale dedicammo il nostro circolo giovanile comunista («Cara mamma e papà, muoio per aver voluto bene all’Italia, perdonatemi il male che vi ho fatto») e Walter Ulanowsky, di origine triestina («Cara mamma papà e Wanda riceverete questa mia ultima lettera quando ormai non appartengo più al regno dei vivi. Sono forte e cosciente dell’accaduto»). Le loro ultime parole si possono leggere nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana.

 

LUGANO

Aspettavo mio padre trucidato nella Risiera di San Sabba

Miuccia Gigante segretaria generale Aned

 

«La guerra è finita, ora torna papà». Sono le parole che mia madre mi disse subito dopo avere ascoltato da Radio Monteceneri la voce di Badoglio che annunciava la fine della guerra.

 

Avevo 11 anni, vivevo a Lugano e la speranza di abbracciare il padre che non avevo mai conosciuto è il ricordo più vivo di quel lontano 8 settembre. Sapevamo che era nelle mani dei fascisti e l’ultimo indirizzo a noi noto era quello del confino di Ustica, ma neppure alla caduta del fascismo era riuscito a tornare libero. Ora che la guerra era finita mio padre doveva tornare. Questa speranza vana animò per anni la mia vita di ragazzina. Poco dopo l’8 settembre cominciarono ad arrivare a Lugano gruppi di antifascisti che sfuggivano ai rastrellamenti dei tedeschi. Ricordo Rodolfo Morandi ammalato, Lucio Luzzatto, Ferdinando Santi e soprattutto Umberto Terracini che mia madre andò a trovare nella speranza di avere notizie. Terracini aveva conosciuto Vincenzo Gigante a Roma negli anni dell’ascesa del fascismo. Mio padre era un dirigente del sindacato degli edili e aveva organizzato il grande sciopero seguito all’assassinio di Giacomo Matteotti. Purtroppo Terracini non sapeva più niente di mio padre, era arrivato in Svizzera subito dopo la scarcerazione e non aveva neppure un pigiama, e mia madre si affrettò a procurargliene uno. Abitavamo con mio nonno, Luigi Fonti, vecchio socialista calabrese che all’inizio del secolo aveva abbandonato il servizio militare per trasferirsi in Svizzera. C’era mia nonna Marie, anche lei una socialista molto attiva, e le loro due figlie, mia madre, Wanda, e sua sorella Vincenzina. Vincenzina aveva fatto la crocerossina nella Spagna repubblicana ed era diventata la compagna di Aldo Morandi, tenente colonnello. La casa di mio nonno è stata sempre un punto di riferimento per gli esuli politici. Fin da piccola mi raccontavano di quando, nel 1905, avevano ospitato un giovane socialista, affamato e arruffone, che faceva ballare sulle sue ginocchia la piccola Wanda di pochi mesi. Si chiamava Benito Mussolini. In questa casa capitò, nel 1925, un militante comunista, Vincenzo Gigante. Veniva dall’emigrazione antifascista ed era diretto alla scuola leninista di Mosca. Ritornò qualche anno dopo, si innamorò di mia madre e poco dopo si sposarono. Io sono nata nel 1932, nel breve periodo in cui i miei genitori vissero insieme. Poi il partito inviò mio padre in Italia dove venne arrestato, condannato a vent’anni dal Tribunale speciale, e successivamente confinato a Ustica. Questo era per mia madre il suo ultimo indirizzo, e invano cercava di sapere sue notizie dagli antifascisti dopo quel drammatico 8 settembre. Anch’io, poco più che bambina avevo i miei compiti. Mi inorgogliva accompagnare ogni giorno all’ospedale Roberto Cauli, un partigiano della divisione garibaldina comandata da Aldo Aniasi, che era stato ferito alla testa e inviato in Svizzera per farsi curare. Di mio padre non abbiamo saputo più nulla fino alla Liberazione. Da Ustica era stato trasferito nel campo di concentramento di Renicci, presso Arezzo. Non venne liberato neppure con la caduta di Mussolini, nonostante un’accorata lettera di Giuseppe Di Vittorio al ministro degli Interni del governo Badoglio, proprio nella mattinata dell’ 8 settembre («Il sottoscritto Di Vittorio Giuseppe, ex deputato al Parlamento, attualmente Commissario governativo della Federazione nazionale dei salariati e Braccianti agricoli, ha l’onore di segnalare alla S.V. il caso davvero singolare di un ex detenuto politico, poi internato, che trovasi tuttora in un campo di concentramento. Si tratta del signor Gigante Vincenzo di Concetta nato il 15 febbraio 1901 a Brindisi, domiciliato a Roma, il quale venne liberato dal carcere il 1° novembre 1942 dopo avere scontato una grave pena infittagli dal Tribunale Speciale per propaganda antifascista ed internato nel campo di concentramento di Renicci-Anghiari, dove trovasi tuttora. Il Gigante è conosciuto dallo scrivente, che si onora di averlo fra i propri amici e compagni di fede, come un onestissimo lavoratore, autodidatta e stimato organizzatore sindacale della vecchia Camera del Lavoro di Roma, per cui la sua mancata liberazione suscita meraviglia e malessere fra le masse, dalle quali è conosciuto e amato»). Con l’armistizio, mio padre riuscì a fuggire in Jugoslavia, dove divenne rappresentante del Pci presso i partigiani jugoslavi. Quando nell’agosto del ’44, fu arrestato e trucidato dai nazisti Luigi Frausin, rappresentante del Pci nel Cln triestino, il partito ordinò a mio padre di tornare in Italia per prendere il suo posto. Un compito che lo vide impegnato solo per pochi mesi. Nel novembre del ‘44, anche lui cadde nella mani delle SS. Torturato e rinchiuso nella Risiera di San Sabba, scomparve insieme a migliaia di altri antifascisti italiani e jugoslavi in quel campo di sterminio nazista. Di questo padre che non ho mai conosciuto mi restano le lettere d’amore che scrisse a mia madre e la motivazione della sua medaglia d’oro della Resistenza in cui è scritto che Vincenzo Gigante tornato in libertà «si gettava animosamente nella lotta di Liberazione contribuendo con la sua attività all’organizzazione e al potenziamento delle formazioni partigiane operanti in una intera regione. Catturato per la delazione di un provocatore, veniva condotto nelle carceri di Trieste, dove, piuttosto che tradire confessando l’opera compiuta ed i compagni, affrontava serenamente lunghe, feroci, inaudite torture, e al termine di esse, la morte degli eroi».

 

CREMONA

Le SS trascinano nella polvere le nostre bandiere

Corrado Stajano giornalista scrittore

 

Abitavo a Cremona dove ero nato e avevo 12 anni. La sera dell’8 settembre era stata mesta.

 

Com’era diverso quel che pensavo dalla gioia espressa da tanti! Gridavano, cantavano, convinti che la guerra fosse finita. Io sentivo in fondo al cuore che non era così. Avevo avuto una consimile reazione il 10 giugno 1940 quando il duce aveva fatto il famoso discorso dal balcone di Palazzo Venezia. Allora ero scoppiato a piangere. Il presentimento dell’orrore, l’inconscia percezione degli anni bui che avrebbero gravato sulla mia famiglia avevano prevalso sull’aria di festa che si avvertiva nelle strade e nelle piazze. Quell’8 settembre, dunque. Avevo ascoltato alla radio il discorso del maresciallo Badoglio somigliante a un affaticato notaio. La guerra fa maturare in fretta. Capivo che l’Italia era a un inizio tragico, non a una fine. La notte passò inquieta. A rompere il silenzio del coprifuoco era solo il passo delle pattuglie. Gli spari cominciarono alle 8 della mattina. Colpi di artiglieria. Anche i ragazzini, allora, erano degli esperti balistici. E poi mitragliatrici e una fucileria intensa. Prima di mezzogiorno tutto era finito e cominciarono a comparire i tedeschi, in un misto di angoscia e di paura. Dapprima i motociclisti: soldati giovanissimi che avevano al collo delle placche di metallo dalla forma di mezzaluna, con la scritta Feldgendarmerie, la polizia militare della Gestapo. Poi, rasente i muri soldati con i mitra imbracciati e lo sguardo in su e, dietro di loro, il grosso di alcuni reparti di quella che, lo saprò dopo, era la divisione corazzata “Leibstandarte - SS Adolf Hitler” che veniva dal fronte russo, camion, camionette mimetiche, qualche carro armato. Guardavo da dietro le persiane. I soldati italiani avevano cercato di resistere, in una trentina erano morti. Davanti al palazzo Ala Ponzone, in corso Vittorio Emanuele, che il fascismo aveva chiamato Palazzo della Rivoluzione, il comando del Presidio, era caduto dietro al suo pezzo d’artiglieria il tenente Mario Flores. La testa mozzata. La caserma Paolini, del 9° Bersaglieri, in via Palestro, era in fiamme, la caserma Manfredini, dell’11° Artiglieria, nella parte bassa della città, verso il Po, aveva subito danni gravi. Poi era stata saccheggiata dalla popolazione. Avevo deciso di andare a vedere ed ero uscito di casa nonostante le proteste di mia madre. La città era desolatamente deserta. Il palazzo Trecchi, futura sede della Kommandatur, era vigilato da sentinelle. Era stato la sede del Corpo d’armata autotrasportabile, lo Csir. I tedeschi conoscevano bene la città, presidiavano tutti gli edifici pubblici, la prefettura, l’Intendenza di finanza, la questura. Avevano sparato sul palazzo delle poste e dei telegrafi, vicino al mio ginnasio e i muri erano crivellati di colpi. Anche una torretta di cotto sulla facciata della cattedrale era segnata da cinque buchi, di mitraglia o di mortaio. C’erano segni di colpi anche vicino alla Galleria, nel centro della città. Ai giardini pubblici, i tedeschi stavano seppellendo un loro morto in un’aiuola, memento, monito, minaccia. Dai portoni serrati cominciava a spuntare qualche faccia. I soldati del Regio esercito erano prigionieri, qualcuno era riuscito a scappare, vestito subito in borghese. C’era chi si prodigava nel nasconderli. Poi, nel corso principale della città, vicino alla mia casa, fui testimone di una scena biblica che non dimenticherò mai. I bersaglieri del 9° e gli artiglieri dell’11°, migliaia, camminavano come in una processione del venerdì santo, vittime sacrificali, tenuti a bada solo da qualche SS coi mitra a canna in giù. Davanti a quel triste corteo che andava verso la stazione camminavano alteri due tedeschi che trascinavano le bandiere dei due reggimenti. Nella polvere, come ramazze. Adesso, quando sento dire dagli storici revisionisti che l’8 settembre segnò la data della morte della patria, sobbalzo, tra ira e malinconia. Era semplicemente crollato, come una baracca sul fiume, lo stato fascista. Che tanti lutti e tanto dolore aveva provocato e che doveva ancora provocare. La patria libera era un’altra.

Triangolo Rosso, novembre 2005

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