Triangolo rosso

Jole Marmiroli

Antonio Manzi  Partigiano cattolico assassinato a Fossoli

 

Questa biografia di Antonio Manzi, assassinato a Fossoli il 12 luglio 1944 insieme ad altri 66 compagni, stesa con affettuoso e sofferto impegno da una sua cugina, sulla base di accurate ricerche nelle carte e nelle memorie della famiglia e di amici, contribuisce ad una conoscenza umana e politica più profonda non soltanto di un eroico martire della lotta partigiana, ma anche della stessa strage nazista, perpetrata dai comandanti e dai guardiani SS del campo di Fossoli fuori da ogni ragione di guerra o di repressione difensiva, per criminale oscura vendetta e per deliberata strategia terroristica. Riteniamo che questa biografia dica anche una verità che è oggi negata e che fu cifra della lotta di liberazione: e cioè che la Resistenza non fu la somma sincretica di antifascismi tra di loro lontani e soltanto occasionalmente accostati in circostanze eccezionali, alcuni “buoni”, quelli dei cattolici, dei liberali, dei socialisti, ed altri “cattivi”, quello dei comunisti, ma fu la risultante unitaria ed operante dell’incontro tra forze di diversa radice ideologica, che si incontrarono e si riconobbero reciprocamente come essenziali tutti di una scelta e di una ragione di lotta, nel comune denominatore di un unico antifascismo, per sradicare dalla società italiana le radici violente e criminali del fascismo e liberare il Paese dall’occupante straniero e costruire, nella pace, una società giusta e solidale. E fu per questo che il cattolico Antonio Manzi ed il comunista Gianfranco Maris furono compagni di lotta ed amici fraterni nella Resistenza nelle Valli Bergamasche e nelle carceri delle SS.

 

I MARTIRI DI FOSSOLI

Antonio Manzi (Vercesio)

 

24 maggio. Alle persone della mia generazione questa data ricorda feste, sfilate militari, celebrazioni al suono di bande. Forse era l’unica manifestazione del regime non invisa alla maggior parte degli italiani. Ma il 24 maggio che mi sovviene ora è quello del 1945, a Milano, un mese dopo la liberazione. Rivedo la piazza del Duomo gremita di gente in uno splendido pomeriggio di sole. La popolazione di Milano era accorsa in folla a questo appuntamento, ma nessun viso era lieto, molti gli occhi lucidi, molte le lacrime. I milanesi erano venuti ad accogliere con animo straziato i 67 Martiri di Fossoli: uscivano le bare, avvolte nel tricolore, dal portale del Duomo, per avviarsi su autocarri militari al Cimitero Monumentale. Su una bara era deposto un cappello da alpino, decorato con una croce di bronzo. Era quella che conteneva la salma di Antonio Manzi, milanese, nato il 28 ottobre 1913 in via Vincenzo Monti 34, valoroso alpino e appassionato alpinista. In famiglia egli era chiamato “l’Antonio grande” per distinguerlo da un cugino più giovane, detto appunto “l’Antonietto”, scomparso recentemente. Era dottore in scienze economiche e commerciali, laureato all’Università Bocconi dopo aver frequentato il collegio S. Carlo e poi l’istituto Carlo Cattaneo, dove aveva conseguito il diploma di ragioniere. Era tra i frequentatori della Casa Pio X di Biandino, istituzione dell’Associazione Giovani Studenti S. Stanislao, sorta per favorire l’alpinismo come mezzo di elevazione morale. Era anche attivo confratello della Conferenza di S. Vincenzo. Durante la guerra prestava servizio nel 5° Alpini di stanza a Bassano del Grappa, 142° compagnia, 9° squadra, raggiungendo il grado di tenente e conseguendo la decorazione di croce di bronzo. L’8 settembre lo colse pertanto sotto le armi; ma fu tra coloro i quali non ritennero che il dovere di servire la patria coincidesse con l’adesione alle disposizioni emanate nel disorientamento generale dai superiori transfughi. Fu tra i primi ad elaborare un progetto di resistenza. Si unì al cugino Nino Manzi, che stava prestando servizio di leva a Mantova e che aveva raggiunto Milano in attesa di poter prendere una decisione. Era necessario, prima di tutto, allontanarsi dal luogo di residenza delle famiglie al fine di sfuggire ad eventuali ricerche: i rastrellamenti erano cominciati già prima della metà di settembre. I renitenti milanesi in genere si dirigevano verso Nord, sulle montagne intorno ai laghi Maggiore e di Como, sui monti della Bergamasca; quelli che riuscivano tentavano di varcare il confine svizzero. I due cugini, invece, si avviarono, non so se in treno o con mezzi di fortuna, verso la Toscana, dove erano certi di trovare rifugio. In provincia di Siena, infatti, a Sinalunga, potevano contare sull’accoglienza del fattore della Tenuta di Trequanda, di proprietà della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde. Il padre di Antonio, Enrico Manzi, funzionario della Cassa di Risparmio, la “ca’ de sass” secondo i vecchi lombardi, aveva da qualche anno indotto il nipote, studente della facoltà di Scienze agrarie presso l’Università di Milano, a profittare della sospensione delle lezioni nei mesi estivi per fare esperienza nella conduzione di aziende agricole presso la Tenuta di Trequanda, appunto di proprietà della Cassa di Risparmio. Là i due cugini giunsero e si fermarono. Antonio pensava al sud, sperando di trovare una via per oltrepassare la linea del fronte e per raggiungere i corpi militari italiani che combattevano a fianco degli Alleati. Si fermò una decina di giorni, ma il suo temperamento lo portava a ripudiare una vita comoda e inattiva; aveva nostalgia delle sue montagne, delle scalate ardite sulle Alpi o sulle Grigne, dove si inebriava di aria pura e di libertà ogni qualvolta potesse disporre del suo tempo al di fuori del lavoro. Diceva che le sue mani avevano bisogno del ruvido e doloroso contatto con le asperità della pietra viva. In mancanza di montagne, a Trequanda si esercitava a scalare, a mani nude e senza mezzi appropriati, una rustica torre bugnata di sasso che sporgeva dal muro di cinta dell’antico borgo, all’interno della Tenuta. Non gli riuscì di trovare un percorso che lo portasse nell’Italia occupata dagli Alleati, dove si era costituito un esercito italiano di liberazione. Verso la fine di settembre me lo vidi davanti inaspettatamente a Milano, col suo viso dolce, gli occhi scuri e sereni dietro le spesse lenti da miope, i capelli di un biondo caldo. Era venuto a cercarmi, entrando dalla porta posteriore dell’ufficio dell’Agenzia di Piazza Tricolore della Banca Commerciale Italiana, dove allora lavoravo, per darmi notizie sue e del cugino. Rimasi sbalordita e sgomenta nel vederlo così lontano dal luogo dove avrebbe potuto essere più sicuro che non a Milano, dove già, per i militari dell’esercito italiano renitenti al bando tedesco, era incombente la minaccia della reclusione a San Vittore o della deportazione in Germania. Il giorno 17 settembre aveva fatto recapitare alla Madre una lettera, affidata ad un alpino, con la quale comunicava il suo rientro a Milano “senza fastidi”. Gli chiesi quale fosse il suo programma: per il momento rimaneva a Milano, poi si sarebbe visto. Pensai che si sarebbe diretto verso la sponda occidentale del Lago Maggiore, dove a Oggebbio, nella piccola frazione di Travallino, spalancata sul lago e di fronte alla Val Travaglia (quella degli architetti Marchelli…), la famiglia Manzi possedeva da lungo tempo una casa. Qui, infatti, si rifugiò più tardi il cugino, dopo aver lasciato a sua volta Trequanda e dopo qualche mese di semiclandestinità nell’Organizzazione Todt a Milano. Sul Lago Maggiore, in vicinanza del confine svizzero, si raccoglievano già parecchi “sbandati” ed erano già operanti ed organizzate le bande partigiane. Ad Oggebbio i Manzi erano di casa. Antonio venne, infatti, commemorato il 9 settembre 1945 come uno dei martiri di Oggebbio: Umberto Bergonzoli, una personalità del paese, disse di lui: “Il 12 luglio 1944, a trentun anni, Antonio Manzi, alpino, uso alla lotta aperta in pieno sole colle dure rocce, avvezzo alle lente pazienti scalate sugli abbacinati nevai, alpino col cuore aperto e con l’anima chiara e canora di fanciullo, cadde trucidato dal piombo nazifascista.” Antonio andava incontro al suo destino: egli era legato da lunga amicizia con l’avvocato Maj, che era già in contatto col nascente movimento clandestino; ad esso si lega anche Antonio. Dopo poco si unisce ai partigiani della Bergamasca, diventando comandante dei gruppi della Val Brembana, col nome di battaglia di “Vercesio”. Qui incontrò il compagno di lotta avvocato Gianfranco Maris, col quale dividerà poi la prigionia a Bergamo, a S. Vittore ed anche a Fossoli. L’avvocato Maris fu preso dalla Gestapo a Bergamo e portato in una cella d’isolamento a Sant’Agata. Con lui c’era anche l’avvocato Maj. Antonio era instancabile e preciso nella sua opera di organizzazione del movimento di resistenza, sempre presente in valle, pur sapendosi ricercato dopo gli arresti del novembre 1943, che avevano quasi distrutto il nucleo degli organizzatori del movimento clandestino. Nella sua commemorazione dei martiri di Oggebbio, Umberto Bergonzoli ricorda: “Arrestati i componenti del comitato di Bergamo, viene consigliato di esulare in Isvizzera; non ne vuol sapere. Sorretto dalla tenacia degli Alpini, febbrilmente ritesse l’organizzazione partigiana stremata dall’azione dissolvitrice dei rastrellamenti. Intanto stende il piano per la liberazione dei compagni incarcerati. Ma, alla vigilia del colpo, tradito da una spia, è arrestato e consegnato ai tedeschi.” A Milano, alla famiglia, giunse la notizia del suo arresto: si diceva che fosse stato fermato alla stazione di Bergamo, dove si trovava in attesa di un incontro con Ferruccio Parri. Questo è il mio ricordo, del quale, tuttavia, non ho conferma. Se esso fosse veritiero sarebbe plausibile pensare che Antonio fosse legato al Partito d’Azione. Ma questa ipotesi è smentita dall’avv. Gianfranco Maris. Antonio apparteneva al Corpo Volontari della Libertà, raggruppamento “Alfredo Di Dio”, Brigata autonoma Leopoldo Gasparotto – Fiamme Verdi. L’arresto avvenne il 22 febbraio 1944. Egli venne tradotto alla Federazione Fascista di Bergamo e lì trattenuto per dieci giorni e per dieci giorni interrogato come sapevano interrogare i fascisti. Volevano conoscere cosa esattamente avesse fatto dopo l’8 settembre e quali fossero gli esponenti del movimento di resistenza coi quali era stato in contatto. Gli interrogatori avvenivano nel Collegio Baroni, secondo la testimonianza dell’avvocato Franco Maj in una intervista da questi rilasciata ai due curatori del libro “L’acqua ritorna al mulino” (La memoria della Resistenza bergamasca), edito nel 1995 dal Comitato bergamasco antifascista e da Istoreco di Bergamo. Un membro attivo della Resistenza, rinchiuso per lunghi mesi nel carcere di Sant’Agata di Bergamo, dopo la Liberazione traccia un ricordo commosso e accorato di Antonio Manzi, in una rievocazione intitolata: “Uno di Fossoli. Antonio Manzi”, firmandola solo con una sigla: “I. L.”. Essa mi è pervenuta tramite una nipote di Antonio, Elena Antonia Magnini, sua figlioccia, che all’epoca aveva solo due anni, ma che è vissuta nel ricordo dello zio e nella sua venerazione, trasmessale da sua madre e dalla nonna. Questo compagno di prigionia, “I. L.”, testimonia: “Portato in Federazione e bestialmente percosso, con una mano fracassata e con il sangue che dalla testa gli scende fino alle ginocchia, Manzi tace ostinatamente. Dieci giorni di interrogatori, ma nulla possono cavargli dalla bocca. Vistolo così abile e deciso, i repubblichini gli offrono di entrare al loro servizio e Gallarini si dichiara disposto a dargli tutto quello che vuole: “Un fiasco di vino”, è la risposta dell’Alpino. Gli portano una bottiglia di vino. Lo beve tranquillamente e poi dice: “E ora ricominciate.” Analoga testimonianza è riportata da una persona che, dietro la sigla “F. M.”, pubblica un articolo sul “Giornale Lombardo” di mercoledì 11 luglio 1945, nella vigilia del primo anniversario della strage di Fossoli. F. M. ricorda: “Venne portata una bottiglia. La bevve tranquillamente, poi disse: “E adesso ricominciate.” Ricominciarono infatti, ma dopo dieci giorni, visto che non ottenevano da lui neanche una sillaba, lo portarono a Sant’Agata. Isolamento assoluto. Carta, penna e calamaio, affinché scrivesse per filo e per segno ciò che aveva fatto dopo l’8 settembre. Speravano che in qualche modo si tradisse.” La conferma del trattamento disumano subito a Sant’Agata la si ritrova in un biglietto per la famiglia dello stesso Antonio, fatto uscire clandestinamente da S. Vittore, in cui, dopo aver dato notizia del suo trasferimento a Milano e della probabile partenza per la Germania, dice: “Non ho paura di nulla, non sono uno che molla le braghe, e lo sa Gallarini che mi ha visto con la faccia insanguinata e la bocca chiusa.” Il trasferimento di Antonio Manzi dalla Federazione al carcere di Sant’Agata avvenne il 3 marzo. I prigionieri reclusi nelle celle adiacenti, riservate ai politici importanti, udirono cigolare e poi richiudersi fragorosamente la porta della cella numero 1: era entrato un prigioniero nuovo. Nella cella numero 2 erano rinchiuse le due persone delle quali conosciamo solo le sigle “I. L.” e “F. M.”. Era naturale che questi fossero presi dall’ansia di sapere chi fosse il nuovo recluso e dal sospetto che si trattasse di un loro compagno. Chiesero informazioni in serata all’unico secondino col quale potessero avere un minimo di dialogo, ma neppure lui seppe dare una risposta: sulla porta della cella n. 1 era stato affisso un cartello: “Grande sorveglianza. Nessuno può aprire la cella senza la presenza del capoguardia.” Sperarono di poter avere qualche indizio e di vedere il nuovo compagno dal finestrino della loro cella quando fosse sceso in cortile a prendere aria, ma a lui non fu concessa nemmeno la mezz’ora d’aria giornaliera. Alla fine arrischiarono battendo qualche colpo nel grosso muro gridando. “Chi sei?, chi sei?”. Sulle prime non ottennero risposta, poi, in un secondo tempo, il nuovo arrivato gridò il suo nome. Lo sconosciuto che sigla l’articolo sul “Giornale Lombardo” con le sole lettere “F. M.” racconta: “A quel nome l’avv. M. che era in cella con me ebbe un balzo. ‘Antonio, sei tu? Anche tu preso?’ Ma l’altro taceva, sospettando evidentemente un inganno.” Poi, per sincerarsi della vera identità del suo interlocutore, chiese notizie precise relative al numero della compagnia, della squadra e al nome del comandante della sua compagnia degli Alpini di Bassano. La risposta lo convinse della validità della dichiarazione di identità del compagno di prigionia. Continua F. M.: “M. sulla branda si torceva le mani. Il nuovo arrivato era il dottor Antonio Manzi di Milano – mi spiegò a bassa voce – suo carissimo amico, valoroso ufficiale, tra i primi nella lotta partigiana e, in questa, suo validissimo collaboratore; era stato incaricato di organizzare i gruppi della Val Brembana. ‘Vercesio’ il suo nome di guerra.” Nel tempo della carcerazione a Sant’Agata i due amici studiarono un modo per riuscire a comunicare fra loro malgrado l’assoluta sorveglianza: idearono un alfabeto speciale battendolo sul muro divisorio con un cucchiaio di legno. Una notte, grazie alla complicità dell’unico secondino buono, furono aperte le porte delle due celle e gli amici poterono gettarsi per un momento l’uno nelle braccia dell’altro. Antonio si scusava col compagno per essere caduto anche lui nelle maglie della repressione fascista. Prima della cattura stava organizzando un’azione per liberare dal carcere i compagni imprigionati. Ora, saputo che “M.” stava per essere processato, avrebbe voluto confessare in un memoriale i crimini che gli imputavano i fascisti, per dividere con l’amico la colpa ed alleviarne la responsabilità. Ma “M.”, per impedire il sacrificio di Antonio, gli tacque la data del processo, il quale, in tal modo, avvenne prima della consegna del memoriale con la confessione.” M.” veniva condannato a morte e, pertanto, l’autodenuncia di Antonio non avrebbe modificato il corso delle cose. Nel primo biglietto scritto alla famiglia nel marzo 1944 dice: “… Vi vorrei sereni come sono io… Non posso precisarvi il luogo dove sono e nemmeno posso dirvi in che posizione mi trovo. Vi serva almeno il conforto che non ho fatto nulla che possa ledere la mia coscienza e che non ho mancato e non mancherò alle leggi dell’onore.” Verso la fine del mese di marzo scrisse una lettera alla Mamma, che la ricevette il giorno 29. Non aveva avuto ancora alcuna notizia dai suoi familiari: “…non ho ancora vostre nuove. Ti penso bene e credo che il mio stesso stato d’animo sia il tuo: rassegnazione per questa prova che spero non sia molto lunga; fierezza di sapere che non è stata voluta per motivi banali né volgari; speranza in un avvenire ancora migliore del passato.” Non indulgendo ad autocommiserazione per il suo stato di solitudine e reclusione, ricorda la libertà di cui godeva un anno esatto prima, quando stava iniziando l’ascensione alla Torre Venezia. “Il tempo mi passa anche abbastanza piacevolmente… mi trovo a ragionare più dell’avvenire che a dolermi del presente e a rimpiangere il passato. Con un po’ di spirito di adattamento mi pare di essere giunto a non disperare per qualsiasi peggioramento del mio stato e invece a godere di qualsiasi minimo miglioramento: così la libertà non l’aspetto con frenesia, ma con serenità d’animo.” Il suo spirito di adattamento doveva essere messo a dura prova: chiedeva alla famiglia, ogni quindici giorni, la biancheria, qualche uovo sodo e pane “anche secco”. Integrava il vitto del carcere con sardine e castagnaccio…! Si preoccupava per un compagno che aveva la famiglia a Caserta, che non poteva, perciò, essere aiutato da nessuno e chiedeva viveri per lui. Questo risulta dalla lettera spedita ai genitori da Fossoli in data 28-4-1944; l’amico che gli stava a cuore era l’avvocato, poi senatore del P.C.I., Gianfranco Maris, il quale conserva ancora oggi un vivo sentimento di amicizia e di riconoscenza nei confronti di Antonio. Nel carcere di Bergamo il giorno 5 aprile, mercoledì prima di Pasqua, riceve inaspettatamente la visita della Madre, e il giorno 10, lunedì dell’Angelo, scrive ai genitori: “Carissima Mamma, ti avrei voluto scrivere subito per dirti delle impressioni del nostro colloquio! Ma tant’è, il tuo ricordo non mi si cancella.” Nella parte riservata al Padre continua: “La porta della cella, per chi non ha impazienza, dà proprio occasione a belle sorprese, come quella di mercoledì scorso: la visita della Mamma. Anche un’attesa serena può dare soddisfazioni, anche se poche.” Si premura di fare gli auguri alla sorella Angela per il suo onomastico e dice: “Ho potuto ascoltare la S. Messa anche come occasione di unirmi a voi.” Torna col pensiero agli avvenimenti dell’anno precedente: “L’anno scorso ho passato il pomeriggio di Pasqua, anche allora solo, nel mezzo del vallone del Tamer, compagnia le valanghe; quest’anno in cella, da 2.500 a 300 metri, ma il morale è sempre a 3.000!” Sul rovescio di una busta scriveva: “Il nostro motto del 5° Alpini è: DURARE”, e dall’altra parte: “Coraggio come me”. Nell’articolo di mercoledì 11 luglio 1945, intitolato “Dialogo eroico attraverso il muro”, l’autore, noto solo con la sigla “F. M.”, ricorda di essersi rallegrato, a suo tempo, del fatto che il memoriale di Manzi fosse arrivato dopo il processo e la condanna di Maj e che quindi l’amico suo fosse ormai al sicuro. Lo aspettava, invece, il calvario di Fossoli. I compagni seppero che alla metà di aprile avrebbe dovuto essere trasferito senza subire processo: forse al servizio del lavoro, forse alla liberazione? Sia “F. M.” sia “I. L.” affermano che partì da Sant’Agata il 20 di aprile. “Passando nel corridoio gridò in fretta un saluto. Attraverso la piccola grata i due amici, stringendosi contro la porta come per abbracciarsi, si sussurrarono le ultime parole, che dovevano essere un addio.” Ma, in una lettera scritta clandestinamente su una bustina di sapone per capelli, Antonio dice: “Il 30 sono stato portato a Milano. Carceri di via Filangeri. Non so perché. Dicono che martedì parta una spedizione per la Germania. Qui sembra non facciano processi. A Bergamo si sono indisposti con me perché non avevo nulla da dire. Qui sono sul lato che guarda le scuole di S. Michele del Carso. De frunt al Fupunin (di fronte al Foponino), piano 1°, da destra decima cella.” Il suo numero di matricola era 1954. “El Fupunin” era ed è una cappelletta posta in piazzale Aquileia in angolo con via S. Michele del Carso; per Antonio doveva essere dolorosa evocatrice di libertà: chissà quante volte era passato davanti alla sacra immagine che invocava una preghiera per i defunti della peste del 1576 e proponeva un ammonimento con la scritta: “Ciò che sarete voi, noi siamo adesso. Chi si scorda di noi, scorda se stesso.” La precisazione puntuale del luogo in cui era ubicata la cella forse non era casuale, forse voleva essere un punto di riferimento per chi potesse in qualche modo mettersi in contatto con lui, così vicino a casa sua e reso così irraggiungibile dai muraglioni e dalle sbarre del carcere. I due cugini maggiori erano lontani, uno alla macchia sul lago Maggiore, l’altro prigioniero in Germania, fra gli ufficiali che si erano rifiutati di aderire alla repubblica di Salò. Ma il padre non mancò di cogliere l’invito e una sera, accompagnato dall’Antonietto, l’unico dei cugini che potesse circolare senza l’ossessione dei rastrellamenti grazie alla sua giovane età, si portò sotto le mura del carcere. Qui emisero il fischio che era il richiamo abituale fra loro quando si cercavano da lontano. Antonio lo sentì e rispose con lo stesso mezzo. Si può immaginare la dolorosa emozione che scosse l’animo dei due visitatori nel sentirsi così vicini al loro congiunto e impotenti verso ogni possibilità di stringerlo fra le braccia. Penso ad Antonio sopraffatto dalla stessa angoscia. La discordanza della data relativa al trasferimento a S Vittore può essere dovuta ad un errore di trascrizione di chi ha battuto a macchina le lettere, in quanto le date di arrivo e di partenza da S. Vittore sono certificate dai documenti di archivio del carcere. Nella stessa lettera clandestina da S. Vittore scrive: “Rispondi con la tua calligrafia, senza indirizzo né firma. Se puoi vedermi cerca di spiegare altrimenti il modo in cui sei venuto a conoscenza che sono qui. Foto Nino mangiate prima che fossero prese in esame, del resto lui è a posto. Coraggio Papà che io sono sempre in gamba.” Le foto di cui si parla e che furono distrutte in modo così definitivo dovevano essere quelle scattate insieme al cugino durante il loro soggiorno a Trequanda; Antonio si preoccupava della salvezza del cugino, al quale era legato da affetto fraterno. Del resto il suo ricordo e il suo interessamento per i cinque cugini, tutti più giovani di lui, già orfani della madre e rimasti nel 1942 anche sconvolti per la morte improvvisa del padre, affiora chiaramente in più di una lettera. Fra l’altro nella prima lettera da Fossoli al Padre, in data 28-4-44 scrive: “…ho trovato con meraviglia anche l’avvocato che ha curato l’eredità dei ragazzi.” La reclusione a S. Vittore deve essere stata dura quanto quella scontata alla Federazione fascista di Bergamo. A quei tempi la sorella di Nino Manzi, mia amica, mi riferiva come alla Mamma di Antonio, la signora Gina Bellezza, venisse recapitata da S. Vittore la biancheria usata e da lavare, sempre vistosamente macchiata di sangue. Evidentemente a S. Vittore non si facevano processi; gli interrogatori, tuttavia, dovevano essere abituali e feroci. Non so chi fossero gli inquisitori, se tedeschi o fascisti. Ma di certo non ritengo attendibile Indro Montanelli, anche lui recluso a S. Vittore, quando nell’intervista rilasciata a Michele Brambilla nel dicembre del 2000, dopo la riedizione del racconto “Il generale Della Rovere”, afferma che i tedeschi non torturavano, ma si limitavano a fare interrogatori sfibranti. Altri testimoni oculari tuttavia, quali Enea Fergnani nel suo “Un uomo e tre numeri” (pagg. 44-47-48) riferisce dei sollazzi che si permetteva “il bieco nostro carceriere caporale Franz” e ancora: “La vedetta ha dato il segnale di pericolo. Dal centro della raggiera si avanza col suo passo lento e pesante, il caporale Franz. Come sempre tiene dietro la schiena le mani dalle quali penzola lo staffile. La chiodatura dei suoi stivali che gli salgono larghi fino al polpaccio, batte sul vasto corridoio come una minaccia per tutti. Sul collo taurino di questo contadino tedesco la faccia volgare si muove lenta, ma i suoi occhi grigi, metallici, frugano e vedono tutto. Egli sembra costruito pezzo su pezzo da un genio malefico per crearne uno strumento perfetto di tortura, intelligente e crudele. Dal suo aspetto bestiale ha tratto origine il nome col quale è da tutti conosciuto. Questo persecutore d’uomini, terrore degli ebrei, è noto con l’appellativo di ‘porcaro’. E quando la sua figura bassa e massiccia si profila da lungi, ciascuno avverte il vicino: “Viene il ‘porcaro’, attenzione!”. E più avanti: …”Franz non ha fatto il suo giro d’ispezione infruttuosamente. Lungo il primo raggio ha distribuito alcune scudisciate e un bel numero di calci. I calci sono una specialità tedesca.” Altro eroe della disciplina tedesca era il maresciallo Klem, poi trasferito al famigerato Albergo Regina da dove provenivano le disposizioni per la disciplina di S. Vittore. Montanelli nella prefazione del suo racconto “Il generale Della Rovere”, pubblicato nel 1959, confessa di aver scritto questo suo lavoro “come una storia, non come una pagina di Storia.” Certo Montanelli non è stato sottoposto a S. Vittore al trattamento riservato ai detenuti politici comuni. Lui non ha subito torture, era un personaggio noto, amico del cardinal Schuster (dal comportamento piuttosto ambiguo nei suoi rapporti coi fascisti e coi tedeschi), che lo protesse e lo fece evadere. Nulla da ridire su questo. È, tuttavia, a mio parere intollerabile che il noto giornalista si sia permesso di qualificare “fanatici e anche canaglie” i parenti delle vittime di Fossoli, i quali non accettavano che fossero accomunati nello stesso giudizio e nella stessa tomba i patrioti morti per un ideale (che non era necessariamente comunista) e un uomo da bassifondi quale era sempre stato Giovanni Bertoni. Questo Giovanni Bertoni assurse a notorietà proprio grazie a Indro Montanelli, che lo conobbe durante la sua prigionia a S. Vittore e che gli dette credito, cadendo nella trappola dei tedeschi. Essi avevano rinchiuso in carcere un oscuro lestofante, utilizzandolo come specchietto per le allodole sotto il falso nome di Generale Della Rovere. Questa “storia” del generale Della Rovere è ormai nota a tutti soprattutto per il film diretto da Rossellini e interpretato da De Sica, la cui trama era stata scritta da Montanelli; il quale poi nel 1959 ne ricavò un racconto ripubblicato nel 2000. Nell’estate del 1944 la notizia della strage di Fossoli arrivò anche a Milano; si seppe della fucilazione di Antonio, tenente degli Alpini, di molti ufficiali superiori, fra i quali si faceva il nome del generale Della Rovere. Solo dopo la Liberazione si conobbe la vera identità di questo personaggio. Un generale Della Rovere ai nostri tempi non è mai esistito, ma questo nome di copertura fu scelto dai tedeschi con astuzia. Anche se l’ultimo Generale Della Rovere, Alessandro, era vissuto ed aveva avuto incarichi importanti durante il nostro Risorgimento, quindi in tempi ormai lontani, il nome Della Rovere in Italia incuteva rispetto e fiducia al solo sentirlo, poiché evocava molti grandi personaggi della nostra storia che appartenevano a questa famiglia: Papa Sisto IV, Giulio II, Francesco Maria duca di Urbino e tanti altri, fra cui anche Vittoria, l’ultima della casata Della Rovere, nonna degli ultimi Medici di Firenze. Per qualche mese, pertanto, Giovanni Bertoni si aggirò per S. Vittore come finto recluso, coprendosi col nome altisonante e protetto dai tedeschi, i quali speravano in una buona messe di spiate da parte sua. Forse le spiate non furono ritenute sufficienti e ad un certo punto Bertoni tornò ad essere un detenuto normale. Molti prigionieri politici, messi sull’avviso dai generali Zambon e Robolotti, sapevano di dover diffidare del cosiddetto Gen. Della Rovere. Il giorno 20 aprile 1944 Antonio, come scritto sopra, fu tradotto da Sant’Agata al carcere milanese di S. Vittore; insieme a lui fu trasferito anche l’avv. Gianfranco Maris; essi si conoscevano per essere stati compagni di lotta nella Val Brembana e nelle convalli (Val Taleggio). L’avvocato Maris faceva parte delle Brigate Garibaldi; Antonio Manzi, invece, delle Fiamme Verdi. Essi fecero il viaggio fino a Milano su un automezzo coi polsi legati ciascuno a quelli dell’altro e poi furono rinchiusi in celle diverse. La detenzione a S. Vittore durò sette giorni: come già detto, fu dura e pesante, anche se meno peggiore di quella di Bergamo. Nella prima lettera al Padre fatta uscire clandestinamente chiede quanto gli è necessario: “Il pane mi basta. Gradirei due pacchetti di sigarette per scambi. Un uovo al giorno per un pasto e qualcosa d’altro per il secondo. Sono tranquillo come mi ha visto la Mamma. Essendo a Milano mi sembra di sperare di più.” Ma, una settimana più tardi, la permanenza a Milano ebbe termine. Cominciarono i trasferimenti. Il 26 aprile si diffuse la notizia che dall’Albergo Regina era arrivata la lista dei prigionieri politici che dovevano far parte di un convoglio di partenti. I più pensavano che la destinazione fosse la Germania; nel pomeriggio tutti i detenuti furono adunati nel corridoio del primo raggio, dove venne data lettura dell’elenco nominativo, e non numerico, di coloro che sarebbero dovuti partire. Erano qualche centinaio: la destinazione non fu comunicata, ma qualcuno parlava di una destinazione provvisoria al campo di smistamento di Fossoli, presso Carpi di Modena. Fossoli… il nome di questo luogo è evocativo di lugubri avvenimenti. A quei tempi il piccolo paese del carpigiano era sconosciuto ai più, all’infuori dei residenti della ristretta area geografica modenese. A Milano si seppe del nuovo trasferimento: anche a me, sebbene reggiana, quel nome non diceva nulla. Ricordo che la notizia fu accolta con trepidazione, ma non con lo sgomento che avrebbe suscitato il trasferimento in Germania, che già allora si paventava come un viaggio senza ritorno. Danilo Sacchi, carpigiano, critico d’arte e scrittore per il cinema e la Rai, nel suo libro “Fossoli: transito per Auschwitz (quella casa davanti al campo di concentramento) scrive: “Una volta quando si diceva della valle di Fossoli era come ragionare di una steppa dimenticata da Dio, mentre adesso la conosceva gente di chissà quali paesi. (…) In quei mesi passarono di qua migliaia di persone. (…) Si sperava che questa nostra campagna riuscisse a volte ad infondere nell’animo un senso di speranza in questa gente, che sentiva venir su il groppo alla gola nell’ora arrossata del tramonto, quasi un presagio di promessa per quella bontà umana della quale il mondo non poteva essersi spogliato: per quel diritto alla vita di cui nessuno, tranne Dio, poteva disporre, diceva l’Arciprete di Fossoli.” Non si sa per quale specifico motivo nel maggio 1942 il Genio del VI Corpo d’Armata di Bologna decise d’urgenza l’occupazione di quest’area, da sempre adibita a coltivazioni agricole, per destinarla ad un campo per prigionieri alleati catturati in Africa. Dapprima fu un accampamento di tende, poi trasformato in campo di baracche costruite in muratura. Per i prigionieri alleati le condizioni di vita erano accettabili: il campo era gestito e diretto dalle forze armate italiane, che provvedevano ad un’alimentazione sufficiente, a condizioni igieniche discrete, ad una buona assistenza sanitaria e anche religiosa. La situazione precipitò subito dopo l’8 settembre, quando le truppe di occupazione tedesche si impadronirono del campo, deportando in Germania i prigionieri di guerra ed arrestando il comando italiano che presidiava il campo. Fossoli fu trasformato in campo di concentramento e transito in funzione della deportazione in Germania. Qui affluivano da tutta l’Italia settentrionale prigionieri ebrei e politici, precedentemente reclusi nelle carceri di varie città. Il trasferimento a Fossoli di Antonio, ancora insieme all’avv. Maris, ebbe luogo dunque il 27 aprile: poco dopo la mezzanotte furono trasferiti, su autocarri coperti, allo scalo merci della stazione di Milano. Da qui, verso le quattro del mattino, furono caricati su carri-bestiame dalla porta sprangata; verso le cinque il treno lasciò la stazione e si avviò verso la campagna. Solo allora, così come racconta un protagonista della triste vicenda, Enea Fergnani, nel suo libro “Un uomo e tre numeri”, i prigionieri ebbero “la sicurezza che non si viaggia verso la Germania, che si resta davvero in Italia”, e questa sicurezza “ha sollevato l’animo depresso di molti di noi. Siamo ora tutti ottimisti. L’invasione dell’Europa è ormai prossima. Tra due o tre mesi la Germania sarà sconfitta. La libertà sta per ritornare.” Il giorno 28 aprile Antonio scrive la prima lettera dal Campo; in capo allo scritto è indicato il mittente: “Manzi Antonio – n. 227 – Baracca 19 – Campo Concentramento Fossoli (Modena). Carissimo Papà, il 26 sera abbiamo iniziato il trasferimento con cambio di cella. Sono qui dal 27. Il trattamento, già migliorato col trasferimento a Milano, è diventato inaspettatamente soddisfacente coll’insediamento in questo campo. È nuovissimo e quindi pulito, compagnia a iosa, periodicamente lavori nei campi.” Anche del vitto si dichiara soddisfatto. In questa lettera sollecita l’invio di qualche sovvenzione anche per farne parte “all’amico che ha la famiglia a Caserta”. Come sempre, è evidente il suo intendimento di dare ai suoi cari una versione della situazione molto meno fosca di quanto fosse nella realtà. Ad Antonio, proveniente dalle lugubri celle di Sant’Agata e di S. Vittore, l’arrivo al campo di Fossoli, nella grande e assolata vastità della pianura modenese, potè forse prospettare l’idea di una reclusione meno rigorosa e aprire l’animo a quella speranza di cui parlava l’arciprete di Fossoli. “Alla partenza da Milano ho pensato al tuo dolore nel caso che, nel chiedere, ne fossi venuto a conoscenza; più che altro perché non potevo assicurarti che già fin d’allora vi vedevo un miglioramento. E non poterti parlare! Ringrazia Nino del suo interessamento per me. Manchiamo di notizie dal mondo esterno. L’ultimo giornale che ho letto fu quello che avvolgeva la roba mandatami in carcere. A proposito qui c’è una maggior larghezza circa il corredo.” Pregava quindi di spedirgli capi di vestiario lasciati a casa, oggetti per la pulizia personale e, fra l’altro, una grammatica tedesca, carte da gioco piccole e una ”fisarmonica”. In realtà non si trattava di una fisarmonica, ma di una armonica a bocca, della quale in una lettera posteriore dice: “La fisarmonica funziona già in camerata.” Doveva trattarsi dell’armonica che gli teneva abitualmente compagnia nelle ore solitarie delle sue scalate fra le montagne. E fu l’oggetto che permise in modo inconfutabile a suo Padre di riconoscerlo fra gli altri all’atto dell’esumazione, il 17 e 18 maggio 1945, quando dall’orrida fossa furono tratti i poveri corpi straziati. Finita la guerra, ricordo di aver visto questa armonica e altri piccoli oggetti custoditi come reliquie nella stanza dei genitori di Antonio a Oggebbio. Erano deposti sul fondo del cassetto di un tavolino speciale: esso aveva il ripiano non di legno, ma di cristallo, in modo che si potessero agevolmente guardare gli oggetti deposti sul fondo del cassetto senza doverlo aprire. So che tutte queste “reliquie” oggi sono custodite con amore e venerazione dalla nipote e figlioccia di Antonio, Elena Antonia Magnini. La lettera del 28 aprile finisce con l’annuncio di un prossimo scritto: “Segue lettera di affari.” Questa, infatti, parte il 30 aprile: sembra incredibile che in una situazione di così grave disagio e di apprensione per il suo oscuro e imprevedibile avvenire, Antonio fosse in grado di volgere il pensiero a quelle che erano state le sue abituali occupazioni professionali e di dare al Padre precise indicazioni sul modo di condurre e dare seguito ad una serie di operazioni commerciali da lui avviate prima dell’arresto. Né dimentica i cugini “minori Manzi”. Per la tutela dei loro legittimi interessi nei confronti dell’imprenditore, datore di lavoro del loro padre, dà puntuali suggerimenti. Su questo argomento torna nella lettera del 15-5. Sull’imprenditore cinico e arrogante dal comportamento non certo esemplare esprime chiaramente un giudizio di riprovazione, peraltro assai giustificato e condiviso da chi ebbe modo di conoscerlo personalmente nei primi anni del dopoguerra. Del cugino Gianni, Antonio, evidentemente informato della sua decisione di non aderire ai bandi della Repubblica di Salò e quindi di permanere nel suo stato di prigioniero in Germania, dice: “Di Gianni non so che dire! Spero per lui.” Nella stessa lettera fa riferimento ai non buoni rapporti che intercorrono fra il Padre e un suo fratello, Giuseppe, il quale, fra l’altro, non si era mai premurato di confortare il nipote con qualche scritto dal momento dell’arresto. Antonio scrive: “E lo zio Giuseppe non pensa che la sua situazione è ben peggiore (forse di quella dello stesso Antonio), quando si pensi che è in disaccordo con te e tenuto conto che in paese si sa della mia assenza per motivi che sono in disaccordo con lui? Alla prima occasione bisogna proprio che gli faccia capire che è ora di finirla!” Questo zio Giuseppe viveva ad Oggebbio ed era noto in paese per le sue simpatie filofasciste, condivise peraltro dalla moglie, forse conosciuta anche come delatrice; verso la fine della guerra incorsero nella vendetta di qualcuno che doveva essere stato danneggiato dalle loro spiate: furono fucilati. La donna perse la vita, mentre suo marito si salvò e si rifugiò presso il Comando tedesco di Cannero. Questa tragica situazione familiare si inserisce nella fosca atmosfera in cui era stata precipitata l’Europa, e forse soprattutto l’Italia, dalla forsennata violenza di quei cinque anni di guerra che sconvolsero le vite e le coscienze di milioni di uomini, divisi fra vittime e carnefici. I casi di delazione furono frequenti. Dopo il convoglio del 27 aprile col quale partì Antonio, altri due gruppi partirono da lì a poco da S. Vittore per Fossoli: uno il 9 giugno 1944 e l’altro il 29 dello stesso mese. Col secondo gruppo partirono, fra gli altri, l’ing. Carlo Bianchi e il prof. Teresio Olivelli, la cui vicenda fu una delle più toccanti nel quadro della repressione nazifascista in Italia. I due amici furono arrestati in seguito alla delazione di un medico, il quale, come loro, faceva parte dell’Associazione Laureati Cattolici. Questi, confidatosi con un infermiere, fu da lui tradito. Arrestato, il giorno dopo il suo arresto si fece delatore e collaborò addirittura col famoso Luca Ostèria, il “dr. Ugo” di cui Montanelli dice: “Era un bravissimo agente dei servizi segreti militari, che, dopo l’8 settembre, finse di collaborare con i tedeschi per salvare gli italiani. E fu consigliere di Saewecke. Dopo la guerra ricevette la medaglia d’argento.” A questo “eroe decorato” l’ingegner Bianchi e il professor Olivelli dovettero la loro morte. L’ingegner Bianchi fu uno dei sessantasette martiri di Fossoli: non vide mai la sua quarta bambina, Carla Bianchi Jacono, nata circa un mese dopo l’eccidio. Il professor Olivelli si sottrasse alla fucilazione a Fossoli, alla quale era stato destinato, nascondendosi, nella notte della partenza, nella baracca n. 15 del campo, sperando sempre di poter fuggire successivamente. Ma non gli riuscì e trovò la morte cinque mesi più tardi, il 12 gennaio 1945, nel campo di eliminazione di Hersbruck, dove era stato deportato e dove aveva prestato fraterno aiuto a Odoardo Focherini, carpigiano, direttore amministrativo del giornale “L’Avvenire d’Italia” di Bologna. Questi morì pochi mesi prima di lui. Entrambi erano obbligati a lavorare come “terrazzieri” nella località di Stolban, presso Hersbruck (Mauthausen) (DaniloSacchi – op. cit. pag 224). I “terrazzieri” erano i deportati obbligati a lavorare nelle cave, a costruire argini e dighe: dovevano salire lunghi e ripidi pendii, trasportando sulle spalle enormi e pesanti blocchi di pietra. Questa spietata fatica di Sisifo era studiata per portare rapidamente allo sfinimento e alla morte i poveri condannati: così, infatti, avvenne per Focherini e per Olivelli. L’encomiastico giudizio di Montanelli sull’attivissimo dottor Ugo non è l’unico a lasciare increduli e addirittura sgomenti i lettori del famoso giornalista. Dopo la scoperta dell’“Armadio della vergogna” sappiamo che il colonnello Eugen Dollman era coinvolto nell’eccidio delle Fosse Ardeatine e in quello di Marzabotto. Ma di lui Montanelli dice: “Il colonnello Eugen Dollman era un nazista per modo di dire… Era un vero signore, un tedesco italianizzato, omosessuale, molto fine, molto elegante, molto colto in fatto di arte. Insomma, uno di quei tedeschi che amano l’Italia. Uno che nelle SS c’era capitato per caso”. E di Saewecke, che fu ritenuto il principale responsabile della fucilazione dei 15 detenuti prelevati da S. Vittore, i cui corpi furono lasciati in piazzale Loreto senza sepoltura per 24 ore, fino a quando non intervenne il cardinal Schuster, Montanelli dice: “Saewecke non era un carnefice, ma solo un ex-ufficiale di Marina che si trovò suo malgrado a comandare le SS; non voleva uccidere nessuno.” Certo Saewecke non voleva uccidere Montanelli: anzi, organizzò la sua fuga da S. Vittore. Ostèria, Dollman, Saewecke… Nel 2000 un giudizio positivo lascia esterrefatti. Anche a Fossoli Antonio e i suoi compagni erano impegnati in qualche lavoro, fortunatamente non così massacrante da compromettere la salute dei detenuti fino alla morte per gli stenti e lo sfinimento. Nella prima lettera egli comunica, infatti, fra le altre notizie relative al nuovo insediamento, “periodicamente lavori nei campi” e ribadisce: “salute ottima, forze normali, morale elevato. Ambienti sempre migliorati da Bergamo a qui. “ L’intento di queste notizie rassicuranti è sempre quello di tranquillizzare i suoi familiari. Ma ben diverso è il quadro della situazione quale risulta dalla cronaca dettagliata della vita quotidiana al campo redatta da Don Paolo Liggeri, pure lui internato a Fossoli e autore del libro di testimonianze “Il triangolo rosso. Marzo 1944 – Maggio 1945”. Antonio, nella lettera inviata alla madre il giorno 10 maggio, scrive di aver ricevuto il “5.5 un pacco con una nota del contenuto scritta da Papà; erano due reti, imballaggio che mi ha fatto supporre fossero state portate a mano. Il sapere Papà qui vicino mi ha fatto pensare con commozione tutto il giorno a voi. Il lavoro, abbastanza vario, non distrae completamente la mente dai pensieri più cari!” Più avanti continua: “Mi importa moltissimo che Tu e Papà siate su di morale. Ricordi quando ti dicevo che la Provvidenza ci aveva preservato da disgrazie in modo che fosse nostro dovere l’essere sereni in ogni piccola avversità? Bene: oggi abbiamo una croce, portiamola con serenità. Il pensarla più pesante di quello che è aggrava i nostri dispiaceri. Tu hai la gioia della famiglia, io il conforto e l’aiuto della compagnia e dell’amicizia. Ti abbraccio forte, Mamma, e ti prego di essere coraggiosa come ti ho vista a Bergamo.” Nella successiva lettera del 5 giugno al Padre scrive: “… ieri ho avuto una lettera in cui la Mamma mi scrive del tuo spavento per aver ricevuto di ritorno una tua indirizzata a me e rispedita con la scritta “partito”. Son qua e sto benone!” Pertanto si premura di rassicurare e confortare i genitori provati da oltre quattro mesi di lontananza, di ansia e di apprensione. Chiede anche al padre il suo interessamento al fine di fare avere ad un anziano compagno di prigionia, pensionato della Cassa di Risparmio di Milano, i documenti necessari per la normale riscossione della pensione, interrotta con la reclusione. Si preoccupa per il sovraccarico di lavoro cui è sot toposto il Padre a causa della propria lontananza e dell’impossibilità di seguire il lavoro dei due studi, il suo e quello del Padre stesso. “Tu soffri ancor più ora per l’aumento del lavoro, io per la lontananza! Basta! Quando tutto sarà finito sarà necessaria un po’ di pace.” Da questa lettera del 5 giugno non trapela l’atmosfera che doveva gravare in quel periodo sulla vita nel Campo. Alla partenza di convogli sempre più numerosi per la Germania seguivano arrivi di nuovi internati provenienti dalle carceri di diverse città dell’Italia settentrionale nonché quelli radunati a seguito dei sempre più frequenti rastrellamenti nella zona emiliana, che ormai era diventata retrovia del fronte. Anche qui il passaggio di aerei alleati era frequente, con l’inevitabile seguito di bombardamenti. La sorveglianza nel Campo era intensificata; era negato ogni rapporto all’esterno del Campo. I nazifascisti erano irrequieti a causa della situazione generale e dell’andamento della guerra. L’avanzata delle forze alleate sul fronte italiano procedeva lentamente. Ma il 6 giugno 1944 era arrivata in tutta Europa la notizia dello sbarco anglo-americano in Normandia. I tedeschi continuavano, nonostante il nervosismo, ad ostentare la sicurezza della vittoria delle loro armate e la fiducia nelle armi segrete di Hitler. In effetti nei due fronti contrapposti era in atto la corsa contro il tempo per la costruzione della bomba atomica. Anche i fascisti tentavano di illudersi della prossima salvezza: ho udito uno di loro, alloggiato all’Hotel Regina, affermare convinto che i tedeschi avevano messo a punto “una scatoletta nera, piccolissima, ma dalla potenza distruttiva micidiale”. Di contro gli antifascisti, e specialmente i detenuti nelle carceri e nei campi di concentramento, sentivano il loro animo aprirsi alla speranza di una non lontana liberazione. La notizia dello sbarco degli Alleati sul continente europeo era giunta anche a Fossoli: le radio clandestine erano ascoltate furtivamente da tutta la popolazione dell’Italia settentrionale. Le voci si diffondevano da persona a persona, correvano di bocca in bocca per mezzo di quella che durante la prima guerra mondiale era stata definita “radio fante”, alludendo al fatto che, anche in assenza di mezzi di comunicazione di massa, le notizie si diffondevano fra i soldati da una trincea all’altra. Danilo Sacchi, nel suo libro già citato, riferisce il modo in cui, nella sua casa davanti al Campo di Fossoli, egli stesso, bambino di otto anni, e la sua famiglia, vennero informati dello straordinario avvenimento: “Il pollarolo, capitato nel suo giro per domandare il consueto: c’è niente per me, donne?, disse di aver saputo che ai primi di questo mese di giugno gli Alleati avevano messo in opera uno sbarco mai visto in Normandia.” Fu il piccolo Danilo a spiegare al nonno cos’era e dove era la Normandia. “Il pollarolo assentì, dicendo che doveva essere proprio così, perché al dire dei partigiani, era attraverso la Francia che gli Alleati volevano arrivare alla Germania e metterla dentro una morsa, coi russi dall’altra parte. Diceva che si era trattato di uno sbarco di una grandezza tale che non si era mai veduto, per quante navi e aerei e mezzi e munizioni e uomini erano stati impegnati.” Anche Enea Fergnani, nel suo “Un uomo e tre numeri”, conferma la divulgazione della notizia anche all’interno del Campo. “Lo sbarco degli anglo-americani in Francia, avvenuto da pochi giorni, ha sollevato il nostro animo e messo le ali alla nostra fantasia. Si susseguono le notizie che confermano la riuscita della grandiosa operazione militare. Siamo ormai tutti convinti che la guerra è entrata nella fase finale. Per alcuni, che io giudico estremamente ottimisti, la guerra potrà durare ancora poche settimane, forse due mesi al massimo. Quasi nessuno di noi crede all’esistenza di nuove armi tedesche che possano mutare quello che è il corso fatale della guerra.” Ma la speranza e la consolazione che avevano “messo le ali alla fantasia” degli internati di Fossoli venivano presto smorzate dai fatti che si succedevano nel Campo. Il 21 giugno la partenza di parecchie centinaia di prigionieri per i campi di sterminio della Germania getta nello sconforto i compagni rimasti. Meno di ventiquattro ore più tardi il nefando assassinio di Poldo Gasparotto “ha prodotto in tutti noi un’angoscia che non avrà facile lenimento. Già il nostro animo era profondamente addolorato dalla recente partenza dei compagni. L’improvvisa tragedia ci ha percossi come un segnale di strage.” Questi sono ricordi di cui Enea Fergnani può testimoniare solo a posteriori, a liberazione avvenuta. Dalle lettere del mese di giugno scritte da Antonio al Padre (5 giugno) e alla Mamma (26 giugno) non può trasparire ovviamente nessuna notizia relativa agli avvenimenti vissuti nel Campo. La lettera del 26 giugno è l’ultima scritta da Antonio. Il funesto presagio di strage avvertito da Fergnani stava per avverarsi. Esso, tuttavia, non pare percuotere l’animo di Antonio; da una breve frase di sette parole, in cui parla di sé in terza persona, si intuisce anzi la speranza in una prossima fine della guerra. Egli dice: “Carissima Mamma, scrivo a te anche per rispondere alla tua del 7. Ti leggo un po’ troppo sconsolata; su coraggio: Angela fra poco ti darà una nuova gioia.” (Si riferisce alla nascita della nipotina Fernanda) E aggiunge: Antonio fra non molto un’altra immensa.” Questa gioia immensa non può essere che la fine della guerra, la liberazione e il ritorno a casa. Questo passo dell’ultima lettera, ancora oggi a sessant’anni di distanza, raggela l’anima di chi legge e opprime di angoscia, se si pensa che soltanto sedici giorni più tardi si farà trista realtà il funesto presagio di cui parla Fergnani. In modo barbaro e disumano verrà stroncata, insieme ad altre sessantasei, la vita di un giovane, tutta proiettata verso il futuro, il lavoro, gli affetti familiari, gli elevati sentimenti, le attività oneste ed esaltanti fra le montagne amate con trasporto spirituale. Parlando degli amici dice: “Dagli amici ho ricevuto una prima serie di lettere e poi nulla; Ezio, Pino, Mazzotti con Maria, Silvana ecc. staranno pappandosi cogli altri le loro domeniche in Grigna! Vi penso con nostalgia ma con speranza! Tornerà anche per me il tempo buono e saranno soddisfazioni migliori quanto più si saranno attese con serenità; saranno più meritate. Quattro mesi son passati: passerà anche il resto.” Fra gli amici, che condividevano con lui la gioiosa abituale fatica della scalata domenicale sulla Grigna, Antonio ricorda anche Pino. Si tratta dell’ingegner Pino Gallotti che partecipò poi con Ardito Desio alla scalata del K2, la quale, progettata già prima della guerra, poté essere realizzata solo dopo la fine del conflitto. Anche ad Antonio, a suo tempo, Ardito Desio aveva prospettato la possibilità di partecipare alla spedizione, poiché erano note le sue doti di esperto alpinista, oltre che la sua capacità di resistenza. Anche questa esaltante esperienza fu interdetta al valente alpinista dagli spari del 12 luglio a Fossoli. Intanto nel Campo l’atmosfera si faceva pesante: la sorveglianza era rigidissima; le strade per Fossoli e Carpi che costeggiavano il Campo erano state sbarrate: per transitare, anche i contadini delle case coloniche adiacenti al Campo dovevano essere muniti di un permesso speciale del comando tedesco. Era stato instaurato, per gli internati, il divieto assoluto di avere qualsiasi contatto, anche solo verbale, con gli abituali frequentatori del Campo: operai, fornitori, mezzadri dei poderi. Crebbe l’andirivieni degli ufficiali tedeschi e degli addetti alla sorveglianza dei prigionieri. Nel Campo si faceva strada la certezza che fosse prossima una nuova spedizione per la Germania e qualcuno diceva che era già pronta la lista dei nuovi deportati, forse arrivata da Verona tramite un ufficiale della Gestapo. La tensione nei primi giorni di luglio si fece altissima; alcune detenute, che lavoravano come segretarie presso il comando tedesco, avevano avuto sentore che stesse per accadere qualcosa di più grave di una normale partenza. Attraverso i rari biglietti, che uscivano clandestinamente dal Campo, anche alcuni parenti erano in allarme, nell’attesa di qualche sinistro avvenimento. E fatalmente arrivò l’11 luglio. Dopo il consueto appello pomeridiano, nel piazzale antistante il comando tedesco, il maresciallo Haage, padrone indiscusso del Campo, arrivò tenendo aperto in mano un foglio di carta, sul quale si appuntarono gli sguardi di tutti i prigionieri, rigorosamente incolonnati. Comincia la chiamata nominativa, non numerica, in ordine alfabetico, secondo il progetto scrupolosamente e freddamente programmato dal comando tedesco di Genova, di Verona e da quello del Campo di Fossoli. Dai tre comandi furono designati il numero e l’identità di 71 prigionieri da fucilare nel luogo e nel modo da essi stabilito. Non è mai stato chiaro il criterio secondo cui furono scelte le vittime, molto diverse fra loro per estrazione sociale, per professione e per impegno politico. Anche il motivo della strage non ebbe mai una giustificazione minimamente attendibile. Quella ufficiale dei comandi tedeschi fu: “rappresaglia” decisa dal comando tedesco di Verona in seguito ad un attacco partigiano avvenuto a Genova ai primi di luglio. La disparità dei tempi e dei luoghi lascia interdetti. Altra giustificazione potrebbe essere la decisione del comando tedesco di Verona di eliminare un gruppo di pericolosi “banditi”, oppure anche la determinazione dei comandi di Verona e di Fossoli di reprimere un tentativo di fuga dal campo emiliano, determinazione che aveva già provocato l’assassinio di Poldo Gasparotto. Certo dal comando superiore di Verona partirono gli ordini, e da Verona fu spedito a Fossoli un gruppo di SS comandato dal sottotenente Müller, il quale partecipò personalmente all’eccidio. Fra i prigionieri chiamati, dopo il consueto appello serale, vi era anche Antonio Manzi. Tutti ebbero l’ordine di lasciare la propria baracca, adunarsi nella baracca numero 17 con i propri bagagli e prepararsi alla partenza “verso il Nord”. L’avvocato Maris, facendo presente la sua fraterna amicizia con Antonio, chiese di poter partire insieme a lui. Ma gli fu opposto un netto rifiuto. Egli rimase accanto all’amico fino alla chiusura delle baracche. Un’atmosfera opprimente gravava sull’animo di tutti, anche su quello di chi, non chiamato, era destinato a rimanere. Ben pochi davano credito alla versione, ipocritamente fornita dai tedeschi, di una spedizione per la Germania. Destava sospetto lo strano numero di 71: si fece strada la convinzione che si trattasse di una imminente esecuzione, di una strage, della quale, tuttavia, nessuno sapeva dare una giustificazione. Si pensò alla possibilità di una ribellione in massa, ma anche al pericolo della carneficina che essa poteva scatenare in tutto il campo. Il progetto fu scartato dopo frenetiche consultazioni fra i chiamati e coloro che dovevano rimanere. Si venne a sapere che la mattina stessa, molto presto, un gruppo di una decina di ebrei era stato fatto uscire dal campo, munito di picconi e badili, per improbabili lavori alla stazione di Carpi. I sospetti si aggravavano, confermati dalla confidenza di un interprete svizzero: “Credo che li fucileranno domani mattina.” Antonio, nella sua conversazione con l’avvocato Maris, evidentemente espresse la certezza del lugubre destino che incombeva. Penso, tuttavia, che riuscisse a dominare la sua angoscia con forza d’animo e serenità: confidò all’amico di far parte di un’associazione religiosa, un ordine laico, presumibilmente l’associazione S. Stanislao, che predisponeva l’animo ad accogliere in ogni momento la morte con spirito sereno. Mentre molti dei partenti preparavano i bagagli e scrivevano lettere ai familiari, altri si intrattenevano con gli amici più cari per gli ultimi addii, per gli ultimi abbracci. Enea Fergnani ricorda di aver avuto un breve colloquio, oltre che con altri, anche “col dottor Antonio Manzi, partigiano valorosissimo e mia vecchia conoscenza.” L’ingegner Carlo Bianchi informò i familiari con tre lettere scritte su un foglio di quaderno: le informazioni erano velate, non esplicite: divennero chiare solo più tardi, a strage compiuta. Uno degli inclusi nella lista dei 71, sul finire della notte, ebbe l’ordine di non partire: non si sa bene a chi dovette la sua grazia. Così i condannati di Fossoli furono 70, fra cui anche quel Giovanni Bertoni che, per uno strano caso del destino, assurse a notorietà, anche se non a gloria, più dei valorosi che caddero con lui nella atroce fossa. Quando il buio della notte calò sul campo, il silenzio agghiacciò nell’angoscia l’animo di tutti, tutti tesi ad interpretare anche il più piccolo rumore che si producesse fuori dalle baracche. La sorveglianza era più che mai attenta; i fari delle torrette di guardia sciabolavano freneticamente i loro fasci luminosi sul campo e addosso alle case coloniche limitrofe. All’alba del 12 luglio, il silenzio fu fragorosamente rotto dal motore di un camion entrato nel viale di accesso dalla porta della via Ramesina. Una ventina di internati vennero fatti uscire dalla baracca n. 17 e fatti salire sul cassone scoperto dell’automezzo, seduti sul fondo a gambe divaricate, con la schiena dell’uno contro quella dell’altro. Il camion ripartì. Sull’ora della partenza non vi è uniformità nel ricordo di chi fu testimone oculare: qualcuno dice le quattro, qualcuno addirittura le cinque e mezzo, ma questa pare un’ora tarda, poiché a metà luglio la luce doveva già essere troppo chiara per la nefanda operazione che stava per essere condotta dai tedeschi. Anche il numero del gruppo dei partenti non coincide in tutte le testimonianze: potevano essere venti o venticinque. Il camion partì lasciando a terra i bagagli. Ritornò vuoto verso le cinque e ripartì con un secondo gruppo di venticinque, fra i quali appunto Antonio, sempre sorvegliato da quattro tedeschi col mitra spianato ai quattro angoli del cassone. Questa volta il numero è ricordato con precisione da Eugenio Jemina, uno dei due condannati che facevano parte del secondo convoglio, e che riuscirono a scampare alla morte con la fuga. Dopo mezz’ora lo stesso autocarro fu di ritorno, caricò l’ultimo gruppo, questa volta ammanettato, e ripartì; furono caricati anche tutti i bagagli, ma su un altro automezzo. Il percorso era sempre quello, lo stesso fatto la mattina precedente dal gruppo di ebrei. La meta non era la stazione di Carpi come falsamente annunciato dai tedeschi. Percorsa la strada Ramesina, che costeggiava il campo, l’automezzo si dirigeva a Fossoli, oltrepassava il paese e deviava verso la frazione di Cibeno, dove era ubicato il poligono di tiro militare. Questa era la meta. E a questo punto nessuno dei prigionieri aveva più alcun dubbio sul vero scopo del breve viaggio. Il gruppo degli ebrei giunto la mattina precedente era stato chiuso in un edificio del poligono di tiro, dopo aver obbedito, in preda all’orrore, all’ordine di scavare una fossa all’estremità del campo, la quale aveva chiaramente la funzione di ricevere i cadaveri dei giustiziati e che all’atto della misurazione risultò profonda settanta centimetri, lunga una decina di metri e larga cinque (Mimmo Franzinelli, “Le stragi nascoste”, ed. Le Scie – Mondadori). Danilo Sacchi riferisce dati diversi: “Tre metri per quaranta risulterà essere, a chi ne prenderà le misure dopo la Liberazione, durante l’opera di esumazione.” Il primo gruppo era di venti prigionieri secondo la testimonianza di Eugenio Jemina. Della loro esecuzione non si conoscono molti particolari; dalla deposizione dell’interprete meranese Karl Gutweniger, rilasciata dinanzi alla Corte d’Assise straordinaria di Bolzano il 3 agosto 1945, si desume che prima dell’esecuzione il Gutweniger diede lettura dell’ordine di fucilazione come rappresaglia per l’attentato partigiano che a Genova aveva provocato la morte di alcuni (forse sei o forse solo tre) marinai tedeschi e il ferimento di altri. I condannati furono condotti sul margine della lunga fossa e finiti con colpi esplosi alle loro spalle. Della fucilazione del secondo gruppo, del quale faceva parte Antonio, si conoscono i particolari, grazie alle testimonianze dei due sopravvissuti, Mario Fasoli ed Eugenio Jemina, i quali diedero vita alla ribellione, che coinvolse tutti i compagni, ma che consentì solo ai primi due di raggiungere la salvezza. Il secondo gruppo di venticinque, pertanto, fu fatto uscire dalla baracca n. 17, messo in fila e sorvegliato da due poliziotti italiani. Al sopraggiungere del camion di ritorno da Cibeno, dopo un’attesa di circa mezz’ora nel piazzale davanti all’uscita sulla strada Ramesina, fu dato l’ordine di lasciare a terra i bagagli, di salire sul camion nella stessa posizione che era stata imposta al primo gruppo. Sul viottolo del poligono di tiro il camion procedette a fari spenti; il buio era assoluto, rotto solo di quando in quando dai fasci luminosi delle torce elettriche dei militari. I prigionieri furono fatti avanzare fino ad una montagnola che sorreggeva una staccionata e che delimitava il termine del campo utile per le esercitazioni di tiro a segno. Mentre al di là nel buio più profondo, la raccapricciante fossa aveva già accolto le prime vittime, furono fatti sedere a terra, ancora con le gambe divaricate, e qui dovettero ascoltare la lettura della sentenza fatta dall’interprete Gutweniger, alla presenza del comandante Titho, del suo autista Koenig, di un maggiore, del tenente Müller che era giunto da Verona insieme a molte SS della Gestapo per eseguire la rappresaglia. Questa volta i prigionieri avevano intuito la sorte che li aspettava: si ribellarono gridando il loro rifiuto dell’assurda sentenza e si avventarono contro i loro aguzzini, cercando di disarmarli. Il primo a dare il segnale della rivolta fu Mario Fasoli; gli altri, dopo qualche momento di disorientamento, lo seguirono. Eugenio Jemina si avventò contro il comandante Titho, gli sferrò un pugno al viso e lo fece cadere a terra. Qualcuno si avvinghiò al collo dell’interprete cercando di disarmarlo. Ma dopo il primo smarrimento i tedeschi, sostenuti anche da militari russi, si riebbero e cominciarono la carneficina. I mitra spararono a lungo, fino a quando tornò il silenzio e l’immobilità; nel buio, i militari si diedero a trascinare i poveri corpi per gettarli crudelmente, scompostamente nella fossa. Ma solo due, Fasoli e Jemina, riuscirono a trovare scampo tra gli olmi della campagna; dopo molto vagare furono soccorsi dai contadini ed affidati ai partigiani della zona. Fasoli, ferito, fu curato dal medico di Carpi. La macabra operazione programmata dai tedeschi fu portata a termine con lo sterminio dell’ultimo gruppo di venticinque e con la solita procedura. I prigionieri, però, questa volta furono fatti partire ammanettati dal Campo. Il racconto dei due sopravvissuti fece sì che la notizia dello sterminio si propagasse e giungesse lontano; essa pervenne al comando generale del Corpo Volontari della Libertà, che la trasmise via radio ai centri di ascolto del Sud e degli Alleati. Nel luglio, due fogli antifascisti di Milano, l’Unità e l’Avanti, divulgarono il fatto, anche se in modo ovviamente impreciso e privo dei particolari che si riseppero solo qualche mese più tardi. A Milano, al principio dell’autunno, si sparse la voce dell’immane tragedia che si era abbattuta sulle vittime, molte delle quali erano milanesi ed erano arrivate a Fossoli transitando da S. Vittore. Si conosceva il numero dei condannati: settanta, si sapeva della sud-divisione in tre gruppi e che quasi certamente uno solo era il superstite, poiché faceva parte di quel gruppo che aveva tentato la ribellione. Si sapeva che Antonio Manzi faceva parte del secondo gruppo, che aveva cercato tanto eroicamente quanto inutilmente di resistere; si diceva anche che egli fosse stato messo in condizioni di inferiorità a causa della rottura degli occhiali durante la colluttazione coi tedeschi. Si parlava di una lunga fossa che i tedeschi avevano disumanamente obbligato gli stessi condannati a scavare prima del supplizio. Si diceva che fra i martiri vi fossero parecchi ufficiali superiori, fra i quali anche “il generale Della Rovere” dell’esercito italiano. Nessuno sapeva chi era il generale Della Rovere, ma, come è già stato detto, il nome storico faceva pensare ad un personaggio di grande rilievo. Solo dopo la fine della guerra si poterono sceverare i particolari veri da quelli nati come leggenda in un momento tanto straordinario. I compagni delle vittime, rimasti nel Campo, intuirono la verità di primo mattino, al ritorno dei tedeschi e degli ebrei. Alcuni tedeschi mostravano le ferite e le lesioni procurate loro dalla colluttazione; altri ostentavano cinicamente il frutto della loro macabra rapina: anelli, orologi, indumenti depredati ai poveri morti. A fine luglio il Campo fu sgomberato dai tedeschi, i quali trasferirono i prigionieri nei campi di sterminio dell’Austria, della Germania e della Polonia. Il silenzio cadde sul martirio dei “Settanta di Fossoli”. Le famiglie dei 67 realmente fucilati si macerarono nella disperazione, resa ancora più cupa dall’assenza di una qualsiasi testimonianza che squarciasse il buio degli ultimi istanti di vita dei loro cari. Solo nove mesi più tardi, a liberazione avvenuta, si venne a conoscenza dell’esatto luogo del supplizio e si poté pensare alla riesumazione dei poveri resti. Le operazioni di riconoscimento vennero attuate il 17 e 18 maggio 1945. I parenti, dopo un viaggio reso faticoso e lungo dalle difficili condizioni del territorio, devastato dalla guerra, poterono raggiungere il poligono di tiro a Cibeno. Dell’ubicazione della fossa era a conoscenza soltanto il vescovo di Carpi, Monsignor Dalla Zuanna: i tedeschi avevano provveduto ad occultarla facendo arare e seminare tutto il terreno circostante. Nessun segno di pietà religiosa contraddistingueva la grande tomba. Anche il padre di Antonio, il rag. Enrico Manzi, fu presente alla desolante e difficile operazione. Le salme erano state private di ogni oggetto personale di qualche valore. Nelle tasche della giacca di Antonio fu rinvenuta, e dal padre inconfutabilmente riconosciuta, l’armonica a bocca che gli era stata tanto cara e che lo aveva forse in qualche modo confortato anche nei giorni di detenzione a Fossoli. Il giorno 24 maggio 1945 Milano dal grande cuore accolse in un abbraccio accorato le 67 vittime di Fossoli, che furono tumulate in un primo tempo al Cimitero Monumentale. Di esse, ben 23 erano milanesi. Più tardi le tombe, dal Monumentale, furono portate a Musocco, tutte riunite in un unico campo; sulla lapide di Antonio è stata posta la sua fotografia in divisa da alpino, sormontata da una scritta che in un primo momento lo definiva “Patriota”, più tardi mutata in quella di “Partigiano”. Negli anni seguenti un pesante silenzio cadde sull’eroico sacrificio dei Martiri di Fossoli, forse in qualche modo oscurati dalla rilevanza assunta dal ricordo delle moltissime altre stragi che avevano insanguinato l’Italia dal 1943 al 1945. Finita la guerra non fu applicato l’accordo che era stato stipulato fra gli Alleati all’atto dell’armistizio e che nell’ottobre 1943 riconosceva all’Italia lo status di cobelligerante e alla magistratura italiana la giurisdizione sui reati bellici. Le indagini sulla strage di Fossoli furono avviate in un primo tempo, ma presto si arenarono, così come tutte le altre riguardanti le stragi e i crimini di guerra. L’opportunità politica prevalse sul dovere di fare giustizia in memoria dei poveri morti e dello strazio delle loro famiglie. Anche i responsabili riconosciuti della strage (Wolff, Harster, Kranebitter, Titho, Haage, Gutweniger), quantunque arrestati e incriminati, riuscirono ben presto a sfuggire alle maglie dei processi e a continuare indisturbati la loro vita fino alla fine naturale dei loro giorni. Il ricordo dei Martiri di Fossoli, tuttavia, non si estinse, specialmente nel territorio emiliano e lombardo, dove la loro memoria è perpetuata dal nome di alcune vie. A Sesto San Giovanni una via è intitolata ai Martiri di Fossoli. A Bergamo una via ricorda il sacrificio di Antonio Manzi, così come un bivacco alpino dell’alta Val Masino, a m. 2550, lungo un itinerario di escursioni alpine. A Milano, sotto la Loggia Mercanti, sono affisse due lapidi di bronzo coi nomi dei caduti per la libertà: fra essi quello di Antonio. Nel 1965, a vent’anni dal sacrificio, le due città di Milano e Bergamo onorarono Antonio Manzi, conferendo alla sua memoria due medaglie d’oro. A Milano la cerimonia di commemorazione avvenne il 12 luglio 1965 alla Piccola Scala, in via Filodrammatici; alla presenza del senatore Gianfranco Maris, il sindaco Bucalossi consegnò la medaglia alla famiglia. Quella di Bergamo, ora in possesso della nipote e figlioccia Elena Antonia Magnini, reca sul recto: “Bergamo ai caduti per la libertà”, e nel verso: “XX Anniversario della Resistenza 1945-1965”. L’11 marzo 2003 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi rende omaggio ai martiri visitando il campo di Fossoli. Gli fanno da guida il sen. Gianfranco Maris, presidente dell’Associazione Nazionale ex Deportati e Amos Luzzatto, presidente delle Comunità Ebraiche Italiane. La famiglia di origine di Antonio Manzi si è dissolta ormai da circa un decennio. Ne tengono ora viva la memoria, insieme con il cognato Bruno Magnini, i nipoti che sono figli e figlie delle sorelle Angela e Rachele. Col loro ricordo i parenti superstiti intendono anche trasferire alle nuove generazioni l’impegno di perpetuare i principi spirituali e morali che portarono Antonio Manzi e i suoi compagni sulla ardua gloriosa via del sacrificio, in nome di una Patria libera e giusta. Noi vecchi ci troviamo oggi a vivere in un mondo che forse avevamo sperato migliore. Vorremmo poterci svincolare dal dubbio che opprimeva l’animo della Mamma di Antonio, quando, all’atto dell’ultimo saluto, disse: “Purché non sia caduto invano.”

Supplemento a Triangolo Rosso, luglio 2005

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