Triangolo rosso
Fu deportata a Ravensbrück e in seguito a Belzig
La morte di Ada Jerman. Ecco i ricordi del suo arresto e le sofferenze di Ravensbrück
Ada Jerman fu arrestata il 1° novembre 1944 a Cormons (Gorizia), quando aveva 18 anni. Fu deportata a Ravensbrück e in seguito a Belzig. Fu liberata il 27 aprile 1945. Suo fratello sedicenne, anch’esso deportato, morì a Mauthausen. Ecco come Ada Jerman racconta la sua terribile esperienza.
«Assieme a mia cugina, aiutavo i partigiani raccogliendo tutto quello che poteva servire all’organizzazione. «Un giorno dalla stazione di Cormons, assieme a mia madre, mi incamminai verso le colline del Collio. Erano zone considerate dai tedeschi “zona di banditi”, infatti c’erano i cartelli “Achtung Banditen”. Ad un certo punto sbucò una pattuglia di tedeschi SS. Ci fermarono e ci perquisirono. Il contenuto della mia sporta era incriminatorio, specialmente la carta per il ciclostile, perché era ben noto che tutta la cosiddetta “letteratura partigiana” veniva stampata a ciclostile: notizie, proclami, volantini, e anche canzoni e poesie. «Fummo portate a Cormons alla caserma dei carabinieri, dove si trovavano alcune celle. C’erano anche altre donne e ragazze. Mi separarono da mia madre, in celle diverse. Comunque, posso dire di essermela cavata abbastanza bene, considerando le torture che molte subirono. Due schiaffoni; dapprima, da una parte e caddi, poi rialzatami, un altro e caddi d’altra parte. Mia madre fu rilasciata, era in condizioni di salute precarie. Rimasi praticamente in carcere un mese. Le carceri erano piene di donne e uomini, per lo più giovani e quasi tutti sloveni. I tedeschi infierivano contro la popolazione, ma per la gioventù non c’era scampo. «La sera del 1° dicembre 1944, venne in cella una suora con un elenco. Chiamò i nomi e disse di prepararsi perché la mattina successiva saremmo partite per la Germania. Partimmo la mattina presto del 2 dicembre 1944 su torpedoni militari, fino alla stazione ferroviaria di Gorizia. Poi ci fecero salire sui soliti carri del bestiame. «Il 6 dicembre 1944 all’imbrunire arrivammo davanti all’entrata del lager di Ravensbrück. L’impatto fu terrificante. Al di là di ogni nostra immaginazione. Eravamo sbigottite per quello che vedevamo nel cortile del lager. Poi, niente, non c’era scampo! Tutto si svolgeva rapidamente come su una catena di montaggio. Dovevi subire e basta! «La procedura di “iniziazione” o “vestizione” era la solita in tutti i lager, già ripetutamente descritta. Poi per mesi, ho subito angherie di ogni sorta. «Fui liberata il 27 aprile 1945. Passammo sotto la protezione della Croce Rossa prima dell’arrivo degli alleati. Quella notte rimanemmo in una stalla con paglia fresca. Ci diedero una prima distribuzione di viveri dai pacchi. Poi man mano la sistemazione per gli ospedali, per chi non era in grado di stare fuori, sistemazioni in campi provvisori ecc... «Ritornai a casa il 29 giugno 1945 attraverso la Cecoslovacchia, l’Austria e la Jugoslavia - Lubiana - Postumia - Trieste. «Col tempo i ricordi svaniscono o sbiadiscono, ma rimangono sensazioni, visioni, suoni o odori che rimangono indelebili come i numeri tatuati ad Auschwitz. Nonostante siano passati tanti anni, due percezioni sono rimaste vive, inalterate. La puzza di Ravensbrück, la fame, le sofferenze, le notti in cui si andava a lavorare in fabbrica. Uscivamo dalla baracca del lager già intirizzite dal freddo. Poi come automi formavamo la solita colonna, in fila per cinque. Fantocci di cenci. La luce dei riflettori rendeva la notte spettrale, una nebbiolina filtrava gelida e bianca rendendo le nostre facce maschere macabre, gli occhi sembravano due buchi. Le torrette nere delle sentinelle sembravano ancora più lugubri, quei fili spinati elettrici erano là, tesi, ben visibili a rammentarci. Davanti alla colonna stava la “blokova” con un foglio in mano, riferiva al comandante del lager, il numero delle presenti. Poi il comandante passava lentamente in rassegna. Dopo, se tutto era in ordine, il via alla colonna. Il cancello veniva aperto e noi, scortate da sorveglianti armati e con i cani, raggiungevamo la strada che portava alla fabbrica. Sotto il cielo freddo, chiaro e tra il biancore della neve, la colonna nera si snodava lungo la strada ciottolata e nel silenzio della notte risuonava l’eco del ritmo cadenzato dei nostri zoccoli. Anche i cani tacevano. A 18 anni avevo vissuto un’esperienza allucinante. Ma avevo la vita, la giovinezza esplodeva gioiosa, rinascevano le speranze. La guerra era finita. Eravamo entusiasti, orgogliosi, idealisti con tante speranze.»
Triangolo Rosso, luglio 2005