Triangolo rosso

La vicenda di uno dei primi libri scritti da un ex deportato immediatamente dopo la scarcerazione dal lager

“Il triangolo rosso” del 1946 ritrovato fortunosamente in un cassonetto della spazzatura

 

di Bruno Enriotti

 

In cassonetto della spazzatura è stato ritrovato, qualche tempo fa, una delle prime descrizioni della deportazione pubblicata nell’immediato dopoguerra. Si intitola significativamente Il triangolo rosso l’autore è Pino Da Prati e il volume è stato pubblicato nel 1946, quando i reduci dai campi di concentramento ancora stentavano a parlare – e soprattutto a scrivere – delle loro sofferenze. Questo vecchio libro era stato gettato su un cumulo di rifiuti; a recuperarlo è stato un nostro amico e compagno, Claudio Zirotelli, col quale abbiamo per anni lavorato assieme nella redazione dell’Unità di Milano. Claudio ha raccolto il libro, lo ha conservato con cura e quando ha saputo della costituzione della Fondazione Memoria della Deportazione è venuto a consegnarcelo, con la consapevolezza che la nostra biblioteca è il luogo più adatto per la conservazione di simile cimelio.

 

Il nome dell’autore – Pino (Giuseppe) Da Prati - lo ritroviamo nelle preziose liste di ex deportati, compilate Italo Tibaldi e che con più di 40.000 nominativi costituiscono ancor oggi – a detta dei più autorevoli studiosi della deportazione politica italiana nei lager nazisti – il fondamentale punto di partenza per chiunque voglia occuparsi di questa tragica pagina della sinistra italiana. Le liste Tibaldi ci dicono che Giuseppe Da Prati, nato in provincia di Piacenza nel 1916 è stato deportato a Flossenbürg da Bolzano con il trasporto 118 e successivamente venne trasferito nel lager di Dachau. Da una più particolareggiata ricerca, che sta per essere ultimata da Valeriano Zanderigo, apprendiamo che Giuseppe Da Prati è arrivato a Flossenbürg il 23 gennaio 1945 e ha lasciato quel lager il 5 febbraio destinazione Dachau. Queste ricerche ci confermano l’autenticità del libro di Da Prati che racconta in prima persona sotto forma di romanzo una drammatica storia di deportazione. Altre notizie su questo deportato le apprendiamo dalla prefazione al volume, scritta dal generale Gaetano Cantaluppi, un ex deportato politico che ha incontrato Da Prati - da lui definito “il prof. Da Prati” - nel lager di Bolzano quando aveva gli era stata assegnata la matricola n. 6017. «Spesso scorgevo il n. 6017 – scrive Cantaluppi - chino nella penombra del giaciglio che scriveva di nascosto con un mozzicone di matita. Stava iniziando il memoriale dal titolo Il triangolo rosso, ma temeva di non poter scrivere le pagine più dolorose». Per fortuna Da Prati sopravvisse all’inferno dei lager ed è stato uno dei primi a descrivere non solo le sue sofferenze, ma anche il suo impegno di giovane antifascista. Già nelle pagine introduttive del suo libro Pino Da Prati definisce questo impegno. «Il triangolo rosso – scrive - vuole essere un bollettino di gloria per tutti i detenuti politici deceduti per la causa nazionale nei campi di concentramento e di “eliminazione” creati dalla raffinata barbarie teutonica. Il triangolo rosso è un tributo di riconoscenza dell’Italia libera ai reduci dalla terra d’esilio e da ogni fronte». La storia di Pino Da Prati è simile a quella di tanti militari italiani che, sfuggiti alla cattura dei tedeschi, salirono in montagna per costituire le prime bande partigiane. L’8 settembre lo coglie a Mondovì, nei pressi di Cuneo. È ufficiale degli alpini e assiste ai rastrellamenti dei nazisti. Molti militari vengono catturati e finiranno in Germania. Da Prati è uno dei pochi che riescono a sfuggire. La sua decisione è netta: unirsi a coloro che hanno deciso di prendere le armi per combattere fascisti e tedeschi. Non importa in quale formazione. «Da oggi – scrive – tutti gli italiani possono e debbono diventare “patrioti”. Garibaldini o mazziniani? Il nome non ha importanza, l’emblema non ha valore, il valore non conta. L’anima è unica in coloro che chiedono il diritto e l’onore di combattere con ogni mezzo i tedeschi». Ed eccolo quindi partigiano delle formazioni Garibaldi sulle montagne cuneesi. Pochi mesi di attività, quindi il suo arresto, a causa di una spiata, in un bar di San Remo dove era sceso per prendere dei contatti. Il carcere, gli interrogatori stressanti, sono simili a quelli subiti da altri partigiani caduti nelle mani dei tedeschi e dei fascisti. È proprio nei primi giorni di carcere che Da Prati si rende conto concretamente come siano divisi gli italiani a causa della guerra voluta da Mussolini, spesso costretti a fare scelte non volute. Scopre che un suo carceriere proveniva da 7° reggimento Alpini, lo stesso in cui Da Prati era stato ufficiale. Il carceriere si vergogna di questo suo nuovo ruolo e si giustifica dicendo che lo ha fatto per evitare la deportazione in Germania. Da Prati subisce un processo sommario che si conclude con una secca alternativa: o accettare di collaborare con la Repubblica sociale fascista o la deportazione in Germania. La sua scelta l’ha già fatta da tempo e per lui non c’è altra prospettiva che il lager nazista. Prima a San Vittore, quindi a Bolzano e infine in Germania: Flossenbürg, Mauthausen e poi Dachau, dove viene liberato, ormai allo stremo delle forze, dalla truppe degli Alleati. Giuseppe Da Prati ha voluto scrivere la sua storia, pochi mesi dopo la fine della guerra, quando i ricordi erano ancora molto vivi nella sua memoria. E lo fa sotto forma di romanzo, perché anche dopo tante sofferenze e privazioni non dimentica di essere un uomo di lettere. Probabilmente gli storici della deportazione guarderanno con una certa diffidenza questo libro ma, a nostro parere, al di là delle ingenuità che contiene, il romanzo della vita di Pino Da Prati ci restituisce, in quel clima dell’immediato dopoguerra, i ricordi ancora vivi di un ex deportato nei lager nazisti. Proprio per questo non meritava di finire in un cassonetto della spazzatura.

Una pagina scritta all’indomani della Liberazione

“Triangolo rosso”: orgoglio del prigioniero politico, vergogna del carceriere e dell’aguzzino nazi-fascista, minuscola bandiera di gloria per chi ha avuto la fortuna di recarlo in Patria, labaro di morte per coloro che l’hanno stretto al nudo petto per l’ultima volta, come una perenne visione della loro sofferenza, per il colore vivido del loro supplizio, come il pegno di fedeltà alla terra lontana. “Triangolo rosso”: umile brandello di tela triangolare, di color rosso, fiammeggiante come la passione italica del prigioniero, come l’odio che nutriva contro i tedeschi. La sua forma triangolare esprimeva la perfezione dell’Idea che ventilava nel cuore del deportato. Ma lo si portava con orgoglio, quasi con ambizione, sempre con onore, anche se in esso scorgevamo la ragione suprema della prigionia e, forse, la causa della morte. E ci piaceva tenerlo sul cuore, lasciandone staccato il vertice, perché all’aria sventolasse come un vessillo, garrisse come una piccola bandiera: “Triangolo rosso”, bandiera rossa.

(da Il triangolo rosso di Pino Da Prati,  Gastaldi Editore – Milano 1946)

Triangolo Rosso, luglio 2005

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