Triangolo rosso

Allestito sull’isola jugoslava nel 1942. Quindicimila le presenze di prigionieri, di cui 1435 le vittime

All’interno della splendida Rab il campo di sterminio fascista

 

di Angelo Ferranti

 

Il turista giunge a Rab in Croazia dopo un viaggio che gli ha fatto scoprire una delle coste più belle e affascinanti dell’Adriatico: quel litorale dalmata, che porta ancora ben visibili i segni della presenza e dell’influenza prima di Venezia e successivamente di quella austroungarica. Un’isola con una natura bellissima, con panorami mozzafiato, spiagge e piccole baie con un mare incantevole. La città vecchia, Rab, quella che dà il nome all’isola, affascinante, piena di testimonianze di grande valore, ben quattro campanili con altrettante chiese e conventi, di cui una di epoca romanica. La percorrono longitudinalmente: case veneziane, piccoli palazzi, portoni, da cui si intravedono pozzi, scale, porticati e poi gli stemmi di famiglie e congregazioni, a indicarne il ruolo e l’importanza. Quanti intrecci e contrasti in queste terre. Di popoli, di culture, di religioni. Terre di conquista o di passaggio, per conquistare altre terre e altri popoli. Guerre e conflitti che hanno caratterizzato tutto il Novecento, quasi fino ai giorni nostri, se pensiamo alle guerre jugoslave combattute tra il 1991 e il 1999, che videro nuovamente, nell’ultima fase, un coinvolgimento diretto dell’Italia nel conflitto. Apparentemente nulla faceva presagire dunque che in questa isola nel 1942 venisse allestito un campo di concentramento per ordine del fascismo. È una pagina poco conosciuta della repressione italiana nella Jugoslavia annessa dopo l’aggressione del 1941 da parte di Germania e Italia. Una pagina volutamente nascosta anche in anni recenti per una evidente ragione politica al popolo italiano, e ancora più necessaria da far conoscere in tutta la sua portata oggi, quando è del tutto evidente il tentativo di riscrivere e rivalutare la storia del passato ventennio fascista. Il regime fascista nell’estate del 1942 ordina alle truppe italiane che occupano la Jugoslavia di lanciare una grande offensiva nella provincia di Lubiana, la parte della Slovenia divenuta Regno d’Italia, e nel Gorki Kotar, la zona montuosa alle spalle di Fiume. Si vuole fare terra bruciata attorno ai partigiani. Interi villaggi vengono evacuati e dati alle fiamme. Uomini, donne di tutte le età, bambini, gestanti e malati sono mandati nei campi di internamento. Il campo di concentramento di Rab viene allestito dal generale Mario Roatta che di tali preparativi è l’esecutore, il 7 luglio 1942. Al turista italiano che percorre le strade dell’isola non è facile scoprire – giunto in questi luoghi certamente più attratto dalle bellezze dei luoghi e dalla speranza di godersi una vacanza a buon prezzo – che in una zona palustre, all’interno dell’isola, il regime fascista nel 1942 avesse allestito un campo di concentramento. La scoperta viene fatta per caso, incuriositi da una piccola lapide che si incontra, appena fuori dal porto. Una scritta in croato: GROBLIE ZRTAVA FASISTICKOC 1942-1943 Kampor - 5 Km indica i responsabili, gli anni, il luogo e la distanza. Una volta giunti sui luoghi dopo aver attraversato un’ampia zona acquitrinosa del campo vero e proprio oggi non restano che poche tracce. Alcune steli e targhe poste su case o agli incroci della strada che attraversa l’isola per raggiungere Kampor ci segnalano che siamo nella zona dove si trovava il campo. Un sistema di palazzine – una decina di edifici in pietra, che ricordano la struttura militare delle caserme, oggi trasformate in un centro psichiatrico - il comando. Nel loro apparente anonimato indicano i luoghi di chi infliggeva sofferenza e il numero di quanti lì furono costretti e molti dei quali persero la vita per malattie, denutrizione, stenti, grande caldo d’estate e bora e pioggia e freddo d’inverno. Non è un luogo di vacanze questo! Il campo era costituito da una tendopoli. Il primo, più piccolo, costituito da circa seimila tende e un secondo da realizzarsi entro due mesi per altre diecimila persone allestendo delle baracche nelle quali gli internati avrebbero potuto passare l’inverno. Di tali preparativi il generale Mario Roatta, informò il comando dell’XI corpo d’armata di Lubiana il giorno 7 luglio del 1942. Lo scopo di questo campo non era quello di conservare i deportati sani e idonei al lavoro e alla vita e di accogliere provvisoriamente il maggior numero di persone possibile, per poter poi gradatamente evacuare tutta la provincia di Lubiana. Lo storico sloveno Tone Ferenc nel suo Arbe, Rab, Arbissima (Arbissima venne ribattezzata così usando il superlativo assoluto tanto di moda in quegli anni) sostiene che a fronte di una previsione di almeno 25 mila internati le presenze non arrivarono a 15 mila. A conferma di questi intendimenti l’esercito italiano deportò a Rab via mare uomini e donne senza limiti di età, bambini, gestanti e malati. Provenivano dalla provincia di Lubiana, da quella di Fiume, ma anche dai campi del nord d’Italia, di Monigo, di Chiesanuova, di Gonars. Tone Ferenc elenca in 1435 le vittime, ma molti sopravissuti sostengono che potevano essere seppelliti anche due cadaveri in una tomba e che in alcune occasioni pur di dividersi qualche porzione di brodaglia in più vennero nascosti dei decessi. L’insieme delle diverse testimonianze e delle ricerche storiche compiute su documenti ufficiali, portano a concludere che 10mila furono gli internati e 1500 i morti. Rab non fu un campo di sterminio programmato, né si praticarono i lavori forzati, ma furono commesse certamente crudeltà e violenze: gli italiani non sempre furono ”brava gente”. Nel gennaio del 1943 il campo subisce alcune trasformazioni. Le piccole tende vengono sostituite da tendoni e si costruiscono alcune baracche nel secondo campo. Vengono accolti i deportati ebrei trasferiti da altri campi della Dalmazia. Tone Ferenc lo storico che ha fatto le ricerche più rigorose sulla complessa presenza dell’esercito italiano nei territori della Dalmazia, sostiene, documenti alla mano, che i militari italiani ebbero un atteggiamento diverso nei confronti degli internati ebrei; e che ci furono casi di vero e proprio contrasto con le richieste dell’alleato tedesco che chiedeva di avere mano libera nel loro annientamento. Diversamente, anche perché tra loro agivano delle forme organizzate di resistenza, venivano trattati gli internati del campo, in maggioranza sloveni, croati, considerati veri e propri nemici. Tra di loro ci sono dirigenti del movimento partigiano jugoslavo come il comandante Franc Potocnik e Anton Vracosa, che dirigono clandestinamente la resistenza interna e stabiliscono rapporti con la popolazione di Rab e il comando partigiano sul territorio croato. Sarà questo gruppo di resistenti che quando l’8 settembre 1943, anche a Rab giunge la notizia dell’armistizio, tratterà la consegna del comando e la consegna delle armi. La caduta del campo e la liberazione di tutti gli internati avverrà in pochi giorni. Poche centinaia di metri più avanti una deviazione dalla strada principale porta al cimitero del campo. L’ingresso accoglie il visitatore con una targa plurilingue posta qui in memoria dalla Fondazione Ferramonti, unica testimonianza italiana. Poi una grande distesa di piccole targhe con inciso un nome e un numero. Tanti nomi, ognuno con un suo numero, alcuni solo quello. La memoria non deve essere cancellata. Era il generale Mario Robotti, comandante dell’undicesimo corpo d’armata, sin dal gennaio del 1942, che aveva sottolineato che tutta la provincia di Lubiana e in particolare la sua capitale andavano considerate zone di operazione. In una circolare annotò: ”Finiamola di considerarci in pace”. Rastrellamenti, evacuazione di interi villaggi poi dati alle fiamme, rappresaglie, messe in atto per colpire l’azione dei partigiani e porre fine alla “guerra guerreggiata“. Il generale Mario Roatta, proprio a seguito di un rapporto della Divisione Cacciatori delle Alpi - uno dei reparti impiegati nell’azioni contro le popolazioni - che riferiva della cattura di 10 contadini in località Ledenik e di altri 63 a Rakitnica, tutti sospettati di fornire appoggio ai ribelli, annotò: “Chiarire bene il trattamento dei sospetti, perché mi pare che su 73 sospetti non trovare modo di dare un esempio, è un po’ troppo. Cosa dicono le norme della 4C e quelle successive?” Conclusione: si ammazza troppo poco! Le popolazioni di queste località e parte degli uomini abili alle armi di Lubiana e dell’entroterra dalmata vengono mandati in campi di internamento. Il confinamento, come provvedimento di polizia, fu adottato in Italia dal regime fascista con la nuova legge di sicurezza n°1848 del 6 novembre 1926, a seguito dell’attentato subito da Mussolini a Bologna il 31 ottobre 1926. La legge prevedeva “l’allontanamento dal proprio domicilio qualsiasi antifascista o persona sospetta, per inviarla in località isolate dell’Italia meridionale”. Le persone confinate, sino alla caduta del fascismo, furono 13.050. I rastrellati, uomini, donne e bambini vengono mandati nei campi di internamento. Quattro sono i più importanti: Gonars, in provincia di Udine; Monigo, in provincia di Treviso; Renicci, in provincia di Arezzo, e Arbe. Una delle realtà in cui il contrasto, la lotta al nazifascismo e resistenza – quella jugoslava, di Tito - ha segnato drammaticamente la storia di queste popolazioni. Un’isola quella di Rab, che concentra in sé, in un impasto complesso, una storia grande e terribile. Che ci riguarda.

Triangolo Rosso, aprile 2005

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