Triangolo rosso

Una serie di volumi mette a punto molti aspetti della fuga dall’Italia dal ’38 al ’43

Fuga ed internamento degli italiani di religione ebraica nei territori della Confederazione svizzera

La frontiera della speranza

 

di Aldo Pavia

 

Con il 25 luglio 1943 non cessano le persecuzioni antisemite in Italia. E non vengono abrogate le leggi razziste del 1938. Al contrario, dopo l’8 settembre 1943, gli ebrei italiani, privati di quasi tutti i diritti, senza protezione giuridica alcuna, vengono a trovarsi in un’Italia ormai nell’area dello sterminio nazista. Con il ritorno di Mussolini, dal 23 settembre capo della collaborazionista Repubblica sociale italiana, si capisce cosa accadrà da quel momento. Anche se i primi tragici segnali non potranno essere recepiti da tutti. È del 16 settembre la deportazione a Reichenau in Austria (e l’anno successivo ad Auschwitz) degli ebrei della Comunità di Merano. Il 18 settembre, nelle valli del Cuneese vengono arrestati, imprigionati a Borgo San Dalmazzo e poi deportati ad Auschwitz, gli ebrei provenienti, al seguito della IV Armata, da Saint Martin Vesubie nelle Alpi francesi. Tra il 15 e il 23 settembre a Meina, sul lago Maggiore, vengono assassinati 54 ebrei profughi da Salonicco e per la maggior parte di cittadinanza italiana. Il 28 settembre vengono arrestati gli ebrei di Cuneo. In Piemonte, Lombardia, Liguria, Toscana nello stesso periodo vengono effettuati numerosi arresti di ebrei, inviati nei campi di raccolta istituiti già in precedenza dal regime fascista. Ove, nel maggio 1943, erano già presenti 6.386 internati in condizioni a dir poco umilianti. Si possono ricordare i campi di Pollenza, di Sforzacosta, di Monticelli Terme, di Casoli, di Scipione di Salsomaggiore, di Farfa Sabina, di Campagna, di Isola del Gran Sasso, di Montechiarugolo, solo per citarne alcuni. La maggior parte degli ebrei qui imprigionati finirà poi a Fossoli di Carpi, “campo nazionale” voluto dal governo della Rsi, per essere poi consegnati ai nazisti e quindi inviati alle camere a gas di Auschwitz. Ovviamente ricordando in particolare il campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, in funzione dal 20 giugno 1940 ove, in esecuzione alle leggi razziste del 1938, vennero imprigionati 3823 ebrei, tra italiani provenienti da Milano, Roma, Bologna e stranieri: libici, jugoslavi, greci, albanesi (persino alcuni marinai cinesi!). Ferramonti rimase in funzione fino al 14 settembre 1943. Quindi ben dopo il 25 luglio! Il 16 ottobre 1943 la grande razzia del ghetto di Roma, la deportazione ad Auschwitz Birkenau di 1022 esseri umani, per la maggior parte donne e bambini, e l’immediata gassazione della maggior parte di loro. Il 14 novembre 1943, il congresso del Partito fascista, a Verona, annuncia il “programma razziale” repubblichino: sequestro dei beni, messa al bando delle persone di “razza ebraica” senza alcuna esenzione (quindi peggiorativo anche in questo senso delle leggi già vigenti), richiesta di misure di polizia per riunirle in un unico campo di concentramento (leggi: Fossoli di Carpi nel modenese). Al punto 7 del Manifesto di Verona si legge: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”. Esposti quindi a qualsivoglia arbitrio. Ne consegue che, in quanto “nemici” l’ordine di polizia n. 5 del 30 novembre 1943 a firma del ministro Buffarini – Guidi e indirizzato a tutti i capi delle Province libere, ne dispone l’arresto, la confisca dei beni ed il concentramento, dapprima nei campi regionali e poi in quello “nazionale”. Se già la collaborazione dei repubblichini era in atto, da quel momento divenne ancor più fattiva trasformandosi in una vera, sostanziale complicità assolutamente necessaria ai nazisti per realizzare il loro programma di sterminio razziale. Chi meglio dei rappresentanti del governo di Salò poteva utilizzare documenti, archivi di prefetture e di questure ove tutto si trovava sugli ebrei perseguitati dalle leggi razziste, a partire dagli elenchi nominativi dei censimenti alle composizione delle famiglie, agli indirizzi delle loro abitazioni. Già dagli inizi di settembre 1943 alcuni ebrei, più avvertiti, avevano ritenuto opportuno, anzi assolutamente vitale, lasciare di gran fretta l’Italia, riparando nelle aree non sottoposte ai nazifascisti (al Sud, per intenderci) o fuggendo avventurosamente e con enormi rischi in territorio svizzero, essendo la Confederazione Svizzera paese neutrale. Lo scrittore e pubblicista Alberto Vigevani lascia l’Italia il 13 settembre passando per i monti della val d’Intelvi. Giulio De Benedetti, redattore della Stampa di Torino, entrerà in Svizzera la notte del 24 settembre, passando il confine a Brissago-Valmara da dove era passato anche il comunista ed ebreo Umberto Terracini e da dove tenteranno l’ingresso in Svizzera molti ebrei italiani, con alterne fortune. Il 15 settembre Lucio Mario Luzzatto e Rodolfo Morandi. Il 13 settembre Benedetto Formiggini, nipote dell’editore Angelo Fortunato che nel 1938 si era gettato dalla torre Ghirlandina di Modena per dimostrare “l’assurdità malvagia dei provvedimenti razziali”, il 28 novembre Giulio Tedeschi, dopo aver avuto la casa devastata e saccheggiata. Gli ebrei italiani, ben conosciuti dagli esponenti repubblichini che si distingueranno nella “caccia all’uomo” operando direttamente non meno di 1951 arresti (e altri 332 con presenza di tedeschi) sicuramente accertati e il più delle volte riscuotendo dai camerati nazisti la taglia prevista per la consegna di un ebreo, si trovano tra l’incudine ed il martello: devono scegliere tra una morte certa in deportazione e l’avventura incerta di una fuga in Svizzera. Fuga che sarebbe erroneo pensare facile così come sarebbe erroneo pensare ad una loro tranquilla esistenza in Svizzera, una volta felicemente, si fa per dire, avvenuto l’espatrio. Credo si comprenda già bene la difficoltà ad arrivare al confine con la Svizzera. Di nascosto, spesso con una famiglia ed in presenza di bambini. Sempre con la paura di denunce, di spiate, di essere arrestati e venduti. Nelle mani di “passatori” o di “spalloni” prezzolati e dei quali ben poco ci si poteva fidare. “Spremuti” finanziariamente da questi ultimi e senza certezza che il “contratto” andasse a buon fine. A volte, e non poche, traditi da chi doveva aiutarli, e a caro prezzo, nel cercare la salvezza. Un’antologia di testimonianze, nonché un importante libro di documentazione, è rappresentata dal volume La frontiera della speranza di Renata Broggini, edito da Mondadori nella collana Le Scie. Alla stessa autrice si deve anche il volume Terra d’asilo. I rifugiati italiani in Svizzera 1943- 1945 edito a Il Mulino nel 1993. A questi due volumi si rimanda per una più puntuale comprensione di ciò che rappresentò la fuga per i fortunati e per i non fortunati che vennero respinti. Ed una volta arrivati davanti alle autorità doganali svizzere tremanti per il terrore di essere rinviati in Italia, preda sicura dei nazifascisti che, come avvoltoi presidiavano le frontiere ed i punti di più agevole passaggio spesso in attesa delle loro 5000 lire per ebreo consegnato. Quando accolti non si pensi ad una vacanza. Gli accolti venivano inquadrati nell’internamento militare. Il che vuole dire soggiacere alle leggi previste anche per rifugiati o civili. Con limitazione della libertà individuale, con obbligo di residenza in appositi campi, con obbligo del lavoro se privi di mezzi e con altri numerosi disagi. Considerati di disturbo, un peso di cui si sarebbe molto volentieri fatto a meno. D’altro canto all’inizio precise disposizioni vennero date dal governo svizzero con le quali si precisava che essere ebrei destinati allo sterminio non costituiva titolo per ottenere rifugio in quanto perseguitati politici. Certamente una pagina poco conosciuta della persecuzione ebraica, una dolorosa storia collettiva ma anche, se non soprattutto, la somma di differenti ma ugualmente drammatiche vicende individuali. Dalle ricerche condotte dalla Broggini sui “Personaldossier” conservati negli archivi svizzeri, si può affermare che circa 6000 ebrei, di cui 3800 di nazionalità italiana, riuscirono ad entrare in territorio confederale e furono accolti dalle autorità svizzere. Sono noti i nominativi di circa 300 ebrei respinti ma si tratta di un dato senz’altro incompleto. Se l’internamento in Svizzera non fu “rose e fiori” non si deve dimenticare che il ritorno in patria rappresentò – in molti casi – una pagina ancor più dolorosa che non la fuga e l’internamento. Gli ebrei si trovarono di fronte ad enormi problemi nel ricostruirsi una vita, nel tentare di riavere ciò che era stato loro espropriato o confiscato (e sarebbe più corretto definire rubato). E altro ancora.

Triangolo Rosso, aprile 2005

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