Triangolo rosso
L’impegno dei deportati per la pace
La relazione di Gianfranco Maris al Congresso di Trieste nella sede etica della Risiera
La nostra presenza qui, nel campo di sterminio di San Sabba è rievocativa della lotta epocale che le donne e gli uomini di Europa e del mondo furono chiamati a combattere dal 1939 al 1945 per impedire che il disegno folle e criminale della guerra nazifascista per instaurare un ordine nuovo retrocedesse i popoli a condizioni di schiavitù. È una presenza emblematica della capacità che uomini diversi ebbero di camminare insieme quando le mete della libertà e della giustizia si presentavano come mete comuni. La nostra presenza è la memoria del costo della libertà. Cinquanta milioni di morti nella seconda guerra mondale. Non dobbiamo mai dimenticarlo. Così come non dobbiamo mai dimenticare la sofferenza delle comunità della Venezia Giulia nei venti mesi dell’occupazione nazista che conobbe la più feroce repressione che i nazisti abbiano mai imposto alla popolazione dei Paesi occupati. La popolazione della Venezia Giulia all’occupazione nazista rispose unita con una lotta eroica di resistenza che non fu seconda a nessun’altra resistenza europea, superando le divisioni che le derivavano dalle memorie delle violenze del fascismo di confine prima, e dall’occupazione militare italiana poi. Questa terra che era stata divisa dalla violenza fascista e dalla violenza dell’occupazione militare italiana, ritrovò la unità nella resistenza contro i tedeschi. Oggi noi siamo qui in una sede etica che è europea perché qui, nelle strutture di questa vecchia Risiera, ha operato un apparato coercitivo feroce, omogeneo e funzionale a tutti gli apparati coercitivi di morte, disseminati dal nazismo sul suo territorio e in tutti i Paesi occupati, da Mauthausen a Dachau, da Buchenwald a Ravensbrück e ad Auschwitz. La Risiera è soltanto una delle tante stazioni di morte di un unico apparato esteso su tutta l’Europa. Un quarto di deportati politici italiani è caduto qui e da qui è partito per il suo viaggio verso la morte. Noi oggi li ricordiamo tutti perché tutti sono nel nostro cuore, tutti sono la nostra memoria. Ma la memoria è un valore solo se è un punto di partenza. Altrimenti, è retorica. La memoria è un valore solo se è capace di essere una lezione, solo se è capace di essere una coordinata etica che ci guida e ci muove all’azione e non soltanto a un ricordo sterile, che ci guida nel nostro presente e nel nostro futuro con il nostro quotidiano agire politico. Affrontammo nel Congresso di Mauthausen, allora, i problemi della società pluralista, quelli dei mercati globalizzati, dei diritti fondamentali di ogni persona. Ancora oggi questi sono problemi vivi e doloranti e altri se ne sono aggiunti. La nostra angoscia oggi deriva da una guerra che può ben definirsi il primo conflitto dell’era globale. Una guerra che ha relegato nella marginalità tutte le violenze regionali precedenti. Il terrorismo è una sfida mortale che minaccia tutto il mondo. Nella lotta contro questa minaccia è indispensabile essere uniti, non c’è dubbio. Ma tutti devono avere l’umiltà e il coraggio di confrontarsi e di dialogare per capire dove matura, dove avviene l’incubazione che precede l’esplosione del terrorismo. Tutti insieme per avere il coraggio e la saggezza di un nuovo Umanesimo, di un’unica democrazia, di un unico impegno di pace comune. L’Europa con gli Stati Uniti, l’Europa e gli Stati Uniti con le Nazioni Unite, l’Europa, gli Stati Uniti, con le Nazioni Unite e con i popoli arabi e con l’Islam per convincere i popoli arabi e l’Islam che hanno un avvenire diverso da quello del fanatismo. Per questo la premessa resta sempre e soltanto quella di dire no alla guerra. Gli ex deportati ritengono che sulla comunità italiana incomba da sempre e sia strumentalizzato ai fini mistificatori e di delegittimazione della Resistenza il nodo delle memorie divise, una sorta di anomalia della storia per cui la Resistenza, la Liberazione, la Repubblica, la Costituzione sono oggetto di memorie divise, confliggenti, antagoniste che hanno impedito il formarsi di un sistema di valori condivisi i quali soltanto sono il motore del sistema politico democratico. Le memorie divise non sono un male marginale che possa essere ignorato. Sono un male che affonda le sue radici nella storia, nella repressione violenta della libertà per venti anni da parte del fascismo. Ed oggi, dopo aver negato che la Resistenza possa essere ricordata e celebrata, c’è chi vorrebbe addirittura con una legge dello Stato equiparare i collaborazionisti fascisti ai militari degli eserciti belligeranti nella seconda guerra mondiale contro il fascismo ed il nazismo. Non c’è dubbio che queste memorie divise non possono essere unite per legge, non possono calpestare la storia, il diritto, l’etica delle responsabilità. Ma non c’è dubbio anche che queste memorie divise perpetuano divisioni che si riflettono negativamente sull’agire politico e sulla vita democratica del Paese. Per questo, qui a Trieste, dove il passato continua a pesare più che altrove, abbiamo voluto affrontare questo nodo delle memorie divise, che hanno radici lontane e ragioni forti che perpetuano antagonismi laceranti. Per questo abbiamo avviato, per noi innanzi tutto, una rivisitazione non ideologica di tutti i fatti della storia di questa tormentata regione nella consapevolezza che in tutte le memorie vi sono enfasi e silenzi che rendono ciascuna memoria più rigida, più tagliente, più antagonista. Non c’è dubbio che la Venezia Giulia ha conosciuto e sofferto nei primi anni Venti del suo nuovo assetto territoriale dopo la prima guerra mondiale. La repressione di un fascismo di confine intriso di un nazionalismo violento, più violento che in qualsiasi altra parte del Paese che investì, negandole addirittura, le minoranze slovene e croate le quali nei secoli hanno sempre costituito con quella italiana le componenti essenziali di un’unica comunità plurilinguistica che fu sempre e che avrebbe dovuto sempre essere considerata come una ricchezza dell’intero territorio. Questo nazionalismo violento, aggressivo usò tutti i mezzi per emarginare le minoranze giungendo persino ai crimini di Stato delle condanne a morte del tribunale speciale fascista ed alla esecuzione dei condannati a Basovizza nel 1930 e, dopo di che, ad Opicina nel 1941. Questa violenza raggiunse poi dimensioni di diffuso annientamento della popolazione civile con l’occupazione militare della Slovenia e della Croazia nel 1941, con rastrellamenti, incendi di villaggi, esecuzioni sommarie e deportazioni. Noi tutti, deportati dal resto d’Italia, che dal 1943 al ’45 siamo stati lacerati dai lutti, dalle lacrime, dal sangue delle vittime dei fascisti e dei tedeschi in tutto il territorio occupato dalla Wehrmacht, noi che abbiamo preso le armi per combatterli, non possiamo non condannare ciò che l’esercito italiano fu comandato a fare e che ha fatto su altre terre. È solo nella verità che tutte le memorie si purificano e possono sublimarsi anche senza mai confondersi, senza mai unirsi, ma possono incontrarsi nella storia senza più odio in un fecondo sistema di valori condivisi. Su questi temi abbiamo affidato a professori universitari relazioni di alta dignità storica in un convegno che chiuderà i lavori del nostro Congresso. Solo nella verità tutte le memorie avranno un futuro e apriranno per tutti un traguardo di dialogo all’insegna di quell’umanesimo critico che è il verbo e il fine della convivenza democratica. Con questa relazione l’Aned vuole sottolineare anche quelle che saranno le linee di forza della sua azione culturale e politica negli anni prossimi. La Fondazione Memoria della Deportazione, che l’Aned ha costituito nella consapevolezza che non sono gli uomini che possono garantire nel tempo la conoscenza con la loro testimonianza perché gli uomini passano, è frutto di una scelta libera di solidarietà dei deportati che hanno destinato alla sua costituzione in tutto o in parte l’assegno che hanno ricevuto dalla Germania come indennizzo per essere stati schiavi. Proprio per dimostrare che non si possono indennizzare con i denari i tentativi di schiavizzare un uomo, noi abbiamo costituito una Fondazione che è un istituto storico associato a tutti gli altri istituti storici della Resistenza del nostro Paese, con i quali lavora. Oggi è operante questa nostra Fondazione. Le sezioni dell’Aned e la Fondazione dovranno avviare un’attività comune che continuerà la nostra attività editoriale già ricca, posta in essere soprattutto dalla sezione di Torino, una preziosa raccolta di ricerche e di interviste che rappresentano una base di conoscenza che non potrà essere rimossa mai. Noi vorremmo che le sezioni dell’Aned e la Fondazione avviassero insieme un’attività comune sul piano della storia locale e che questa attività comune si avvalesse della guida del Comitato scientifico della Fondazione, di alto valore culturale. Ferma mantenendo nelle forme e nei contenuti il suo agire politico, l’Aned sarà sempre attenta alle cose del nostro Paese, sviluppando le potenzialità del suo periodico Triangolo rosso, continuerà a fare politica e cultura insieme. Continuerà a fare politica e cultura anche insieme a tutte le altre Associazioni della Resistenza perché la memoria del prezzo pagato dall’umanità per la libertà possa sempre di più costituire un baluardo contro i mostri che ancora insidiano la nostra ragione.
Da Triangolo Rosso, dicembre 2004