Triangolo rosso
NEDO FIANO RACCONTA IL SUO “INFERNO”
Il coraggio di vivere
di A. C.
Dopo anni trascorsi a raccontare nelle scuole la sua terribile esperienza di deportato ad Auschwitz, Nedo Fiano ha deciso di mettere per iscritto la sua testimonianza, in modo da raggiungere un pubblico ancora più vasto. Non deve essere stata una operazione agevole, perché la scrittura implica fare una volta di più i conti con la memoria, implica la difficoltà di riempire la pagina bianca, che va poi comunque continuamente limata, riscritta, ripensata e questo, inevitabilmente, comporta il continuo ricordare vicende dolorose, comporta il riaffiorare alla mente di episodi che si pensavano persi per sempre nel buco nero della nostra memoria. Il racconto di Nedo segue un andamento cronologico, che però è interrotto da quelli che vengono definiti Frammenti ed in effetti lo sono: si tratta di ricordi che, come in un flash-back, riemergono dal buio della coscienza e interrompono la narrazione. Una delle parti più significative di questo libro è la parte in cui Nedo ci racconta della vita a Firenze, prima dell’emanazione delle leggi razziali. È uno spaccato di vita molto bello, in cui emerge in un ritratto commovente la figura della madre, profondamente amata, il cui continuo ricordo diventa il leit-motiv dei molti flashback che seguiranno. La madre dirigeva una pensione, quello che oggi definiremmo un bed-and -breakfast, è sempre attiva, sorridente, la figura dominante della casa. Prova per il fascismo una forma di rifiuto e di avversione, confermati dai fatti che avverranno di lì a poco. Il padre, al contrario, figura assai più evanescente, fa parte di quella schiera non piccola di ebrei che del fascismo si fidarono e che rimasero proprio per questo tanto più colpiti quando Mussolini nel 1938 decise liberamente, senza nessuna pressione tedesca, ma sicuramente per avvicinarsi sempre più all’alleato, di introdurre leggi razziste che resero gli ebrei cittadini di serie B. Seguono gli anni duri segnati dalle continue privazioni ed umiliazioni imposte agli ebrei, ma fino al 1943 le vite non furono in pericolo. Poi dopo l’8 settembre cominciò la tragedia. I Fiano decisero di scendere in clandestinità, ma non riuscirono a rimanere completamente nascosti e così, probabilmente a causa di una spiata, furono arrestati, anche se in tempi diversi: prima il fratello, la cognata e il loro bambino di pochi anni, poi Nedo ed infine i genitori. Dopo il carcere a Firenze la solita trafila: trasferimento a Fossoli e quindi il convoglio per Auschwitz. Dopo il viaggio, allucinante e drammatico, alla banchina di Auschwitz si compie l’evento che ha segnato Nedo forse più di tutti quelli che si è trovato a vivere poi nell’inferno di Auschwitz: l’addio alla madre. Là, fra le urla e i cani pronti ad assalire i prigionieri, fra SS armate di bastone, un fuggevole abbraccio, poi la madre diventa un’immagine che scompare fra la folla e diventa sempre più indistinta: “Mentre mi interrogavo, smarrito e pieno di stanchezza, mamma mi tirò per la giacca e mi gridò: «Nedo, abbracciami! Non ci vedremo mai più». Fu il momento più drammatico della mia esperienza di deportato. Indimenticabile”. (p. 79). Nedo e il padre passarono la selezione e entrarono nel campo. Ciò che salvò Nedo e gli permise di sopravvivere fu la conoscenza del tedesco e le sue capacità canore che lo fecero apprezzare dalle SS e questo gli consentì di racimolare un po’ di cibo supplementare. La vita nel campo era contraddistinta da una violenza continua e i prigionieri per cercare di mantenere un qualche legame con la vita normale si sforzavano di parlare anche di libri, come Giulio che nell’inferno di Auschwitz raccontava a Nedo di Uomini e topi di Steinbeck. Questa vicenda ci ricorda l’episodio analogo narrato da Primo Levi, quando si sforzava di tradurre l’Inferno di Dante: era una forma di resistenza anche questa: cercare di mantenersi vivi quando l’obiettivo dei nazisti era trasformare tutti i prigionieri in sottouomini, un mezzo anche questo per scaricarsi la coscienza: non si prova certo dolore quando si compiono azioni di disinfestazione|! Perché è esattamente questo quello che ritenevano di fare le SS nei campi nazisti: liberare il mondo da inutili parassiti. Alcuni mesi prima della liberazione di Auschwitz da parte dei russi Nedo viene trasferito in un altro campo vicino a Danzica. Ancora violenze, freddo, lavoro estenuante a 28 gradi sotto zero. Poi un ulteriore trasferimento in un campo gestito per un po’ di tempo dalla Luftwaffe, dove dopo tanto tempo i prigionieri, furono trattati con un minimo di umanità. Ma il sogno durò poco: i prigionieri ritornarono ben presto sotto la tutela delle SS. Gli ultimi mesi di deportazione furono terribili, segnati dalla fatica e dal dolore fisico per l’amputazione di un alluce e la rimozione di un flemmone alla gamba destra. Dopo un’ennesima evacuazione Nedo viene liberato a Buchenwald l’11 aprile 1945. Dopo la liberazione comincia il travaglio del ritorno in Italia, il dover convivere, ora che la guerra era finita, con la sicurezza di aver perso tutta la propria famiglia. Solo grazie ad un carattere forte, al calore della famiglia che si è poi formato, Nedo ha potuto riprendere una vita apparentemente normale. Ma come tutti i sopravvissuti, sapeva benissimo che non sarebbe stato facile liberarsi di Auschwitz: l’incubo del lager diventa una malattia sottile, che si insinua e che non dà tregua, neppure la notte, quando l’inconscio riporta alla coscienza i latrati, le urla, la gente, la banchina, i medici delle SS, che con un gesto della mano mandavano gli uni a vivere e gli altri a morire. Auschwitz è un tarlo che non ti abbandona, come ha dimostrato Primo Levi, che alla fine di una esistenza apparentemente serena, non ha retto al ricordo, al dolore di essere sopravvissuto, mentre altri erano scomparsi. Nedo ha deciso di reagire a questo male oscuro con la scrittura, per esorcizzare quella vicenda terribile e anche per farla conoscere a chi non ha avuto l’opportunità di ascoltarlo di persona. La storia e la testimonianza sono assai diverse: lo storico analizza, esamina i documenti e li studia con freddo distacco, il testimone parla di eventi che ha vissuto in prima persona e nel suo racconto troviamo l’emozione che il ricordo porta inevitabilmente con sé. Basta leggere questa pagina dei Frammenti:
“Passando fra gli scaffali di un supermercato, mia moglie ha afferrato nel settore dei dolci una piccola torta a forma di parallelepipedo. «Ti piace», mi ha chiesto. L’ho guardata distrattamente, ma ho notato sul fianco la scritta Pain d’épices. Sono rimasto come folgorato dall’apparizione di quel nome «Allora, vuoi che lo compri?» «Certamente», ho avuto la forza di rispondere. Quel nome mi ha ricordato un caro, indimenticabile amico della mia deportazione, che per una forza straordinaria, è così riuscito a mandarmi un messaggio da molto lontano. Il suo soprannome era appunto Pain d’épices. Quel messaggio, non dentro una bottiglia in balia delle onde, come nei romanzi dell’8/900, ma sul fianco di una torta, mi ha fatto pensare. Spesso ci troviamo a contatto con dei fenomeni che non riusciamo a spiegare fino in fondo. Ne siamo turbati, tentiamo di riviverli con la massima intensità. Ma, come davanti a un aereo in decollo, restiamo poi a terra. Peccato.”
Nedo non ha voluto fare un’operazione storica, ci ha consegnato semplicemente la sua testimonianza e l’ha fatto con semplicità e onestà intellettuale e questo va riconosciuto.
Da Triangolo Rosso, maggio 2004