Triangolo rosso

GENNAIO 1945

Nella tana del lupo salvati da un maresciallo tedesco

 

di Ibio Paolucci

 

Uno contribuisce a salvarti la vita e tu non ricordi neppure il suo nome. A volte mi sembra Hans, altre volte Wolfgang. Ma niente di certo. Il cognome, poi, credo di non averlo mai saputo. Quello che invece è certissimo è che lui era un maresciallo della Wehrmacht, direi sui trent’anni, statura media, piuttosto robusto, capelli nemmeno tanto biondi per essere un tedesco, biondastri direi. La storia ha inizio nel gennaio del 1945, nella provincia di Thorn, la Torun polacca, la città dove studiò Copernico. Causa il sempre più approssimarsi dei russi, il nostro lager di lavoratori coatti venne evacuato una mattina di quel mese, col termometro che segnava venti gradi sotto zero. Un pezzo della Vistola era abbastanza vicino, completamente ghiacciato, e noi l’attraversammo, incolonnati, nel pomeriggio,col buio che si faceva sempre più fitto. Varcato il fiume, l’oscurità era completa. Così, convinti che i russi sarebbero arrivati l’indomani, io e altri due compagni, tutti attorno ai vent’anni, fuggimmo, è proprio il caso di dirlo, verso l’ignoto. Non fu difficile tirarci fuori dalla colonna, bastò fermarsi, spostandoci un po’ sulla destra della strada e aspettare qualche minuto prima di muoverci per conto nostro. Più difficile, a cominciare dalla prima notte, trovare una sistemazione accettabile. Tanti i giorni in cui dovemmo trovare una soluzione perché la gloriosa Armata Rossa non solo non giunse, come noi credevamo, il giorno dopo ma tardò un mese o giù di lì prima di arrivare da noi. La zona dove eravamo rimase chiusa in una grande sacca e per noi il rischio di tornare a cadere nelle mani dei tedeschi era continuo. Per fortuna, nelle vicinanze, si trovava un’intera famiglia forlivese, padre, madre e quattro figli, venuta per lavoro volontaria in Germania, ingannata dalle promesse della propaganda fascista, il cui padre col figlio maggiore erano stati nostri compagni di lager. Lo scoprimmo per caso il posto dove si trovava questa famiglia, che ci fu di grande aiuto, accogliendoci nella loro casa e facendoci dormire, con la complicità di un polacco, in una stalla in compagnia delle vacche. Un ambiente caldo, dove si stava benissimo. Ma non si poteva restare a lungo, né si poteva continuare ad abusare della loro generosità, pesando anche per il cibo, fondamentalmente un pugno di patate, preziosissimo in quelle giornate. Parlandone con Augusto, decidemmo di andare nel villaggio dove io e lui, sotto due diversi padroni, avevamo lavorato nei mesi estivi, prima di essere spediti nel lager. Si chiamava Lichtenthal quel villaggio, che, ad occhio e croce, distava una ventina di chilometri da dove eravamo. Lasciammo Luigi, uno spilungone alto quasi due metri, talmente malandato da non potercela fare a sostenere la fatica di quel viaggio, per di più rischioso per i possibili brutti incontri. Nella zona i proprietari tedeschi, caricato tutto il caricabile su uno o più carri, erano fuggiti, diretti tutti “nach Berlin” e proprio per questo noi avevamo deciso di andare nel villaggio di Lichtenthal, con la speranza di non trovare più sul posto i vecchi padroni, certi di ottenere un aiuto dai nostri amici polacchi, a cominciare dal vecchio Narbroski, già padrone del fondo, che da subito aveva solidarizzato con me un po’ per la nostra comune cattolicità ma soprattutto per via dell’odio che nutriva per i tedeschi che gli avevano rubato la proprietà e ringraziasse il padre eterno che non lo avevano fatto fuori, come era successo a tanti altri polacchi. Era lui che mi aggiornava sulla situazione militare, gioendo ogni qualvolta l’Armata Rossa avanzava verso di noi, nonostante la sua non nascosta ostilità per i sovietici. E poi c’era Genia, la figlia, una bella ragazzona che, un pomeriggio di sole, sdraiati su un prato per una pausa di lavoro, aveva posato, senza tante storie, una mia mano sui suoi poderosi seni, lasciandomi senza fiato e senza sapere che cosa fare, vergine com’ero con i miei diciotto anni. La scelta del “mio” podere rispetto a quello di Augusto era obbligata. Da lui non c’erano polacchi e i padroni erano fascisti bessarabi, assai peggiori dei miei, pur prussiani e accesi nazisti, col figlio a Praga nelle SS. Del mio padrone ricordo anche il nome: Hugo Wraase. Ma la vera padrona era la moglie, una donna energica, autoritaria, esigente ma non cattiva. Ma neppure il padrone, tutto sommato, era malvagio. Certo, si doveva lavorare sodo. Ma il cibo, che preparava e distribuiva Genia, non mi mancava, tanto che nel poco tempo, alla sera, in cui mi vedevo con Augusto, riuscivo sempre a portargli qualcosa. Lui, invece, era tenuto a stecchetto dai bessarabi. Il lavoro, specie nei mesi di luglio e agosto, era per me insopportabile. Capii allora, sulla mia pelle, cosa voleva dire lavorare “dall’alba al tramonto” e come in quell’ampio arco di tempo ci fosse sempre qualcosa da fare: pulire la stalla, dar da mangiare alle bestie, portarle al pascolo, togliere le erbacce dalle piante delle patate, file che mi sembravano interminabili, ore e ore con la schiena piegata e poi, verso sera, riportare le mucche nella stalla, dargli da mangiare, mungerle no perché avevo un bel spremere i capezzoli, nemmeno una goccia di latte usciva fuori, con grande divertimento di Genia. Insomma non si finiva mai. Stanco morto non vedevo l’ora di sbattermi sul letto, mai rinunciando però all’incontro con Augusto, anche lui spedito come me nello stesso lager verso la fine di settembre, dove si lavorava meno che dai contadini, ma dove si mangiava talmente poco da essere eternamente affamati. Per fortuna la permanenza nel campo, dove il nostro lavoro consisteva nello scavare i “panzergraben”, non durò a lungo, un quattro mesi circa, dalla fine di settembre a metà gennaio, quando il campo venne evacuato per l’approssimarsi dell’Armata Rossa, che, quando fu il momento, quelle famose fosse anticarro le superò d’un balzo, senza alcun problema. Arrivati a Lichtenthal, dopo la lunga sgambata in uno scenario di un bianco stupendo e cristallizzato e completamente deserto, da cartolina di Natale, la prima sorpresa fu di trovarci i vecchi padroni, che avevano sì giorni prima, come mi disse Narbroski, caricato tutto sui carri, ma che poi, avendo appreso che i tedeschi avevano lanciato una modesta controffensiva, tanto propagandata come se la Germania fosse tornata a vincere, fecero marcia indietro scaricando la roba e tornando a comportarsi come se niente fosse. Con me, in ogni caso, furono gentili. Credettero o finsero di credere alla favoletta che ci eravamo smarriti perdendo i contatti con la colonna guidata dai tedeschi e lasciarono che Genia ci riempisse una borsa di cibo. Noi comunque, a scanso di equivoci, tagliammo subito la corda. Gentili sì, ma pur sempre nazisti, meglio non metterli alla prova. A metà strada, attraversando Schmentau, un paese un po’ più grande di Lichtenthal, la fortuna ci venne incontro nelle vesti di un giovane veneziano, che, sentendoci parlare italiano, si avvicinò per chiederci chi fossimo e dove fossimo diretti. Lui lavorava in un piccolo caseificio, che aveva chiuso i battenti, riaprendoli il giorno prima del nostro incontro per la storia della controffensiva. Ci chiese di fermarci e di lavorare con lui. Ne avrebbe parlato con il principale, che avrebbe sicuramente accettato dato che c’era bisogno di personale. Così per qualche giorno trovammo cibo e alloggio nello stesso ambiente di lavoro, dove si trasformava il latte in panetti di burro, che venivano accumulati in un magazzino, al quale potevamo accedere senza problemi. Un po’ indecisi sul da farsi, se tornare o no al più presto dai forlivesi per ricongiungerci con il povero Gigi, intanto si procedeva ad afferrare i bidoni di latte portati dai contadini e a versarli nella centrifuga. Per la notte, si dormiva al calduccio sopra una di quelle grandi stufe abitualmente presenti negli edifici del nord. Si stava bene, tutto sommato. Il lavoro non era gran che e il cibo non era male. Si poteva aspettare lì il compagno Ivan, non fosse stato per Gigi, che ci pareva un po’ carognesco abbandonare al suo destino, conciato com’era. A metterci le ali ai piedi fu un incidente che poteva costarci la pelle. La fabbrichetta era vicina alla ferrovia, dov’erano parcheggiati alcuni vagoni, imbottiti di esplosivi, centrati in pieno verso un mezzogiorno da una bomba sganciata da un aereo russo. Un boato assordante e tutt’intorno un inferno. La nostra salvezza fu dovuta alla vicinanza della ferrovia perché tutto quello che saltò in aria ci passò sopra la testa. Ne uscimmo incolumi, ma ben decisi a tagliare la corda. Restammo ancora quel giorno, ma alle primissime luci dell’alba lasciammo il posto di lavoro dopo avere riempito uno zaino di panetti di burro. Sulla strada incrociammo il veneziano al quale dicemmo anche del furto del burro. «Siete matti - ci disse – Scappate alla svelta. Vi possono fucilare se vi scoprono». Aveva ragione, ma ci andò bene anche quella volta. Probabilmente non si accorsero neppure del furto del burro, che era una minuscola quantità rispetto alla montagna accumulata nel magazzino. Ma soprattutto in quella sacca dove fatalmente sarebbero arrivati i russi dominava ormai la più totale confusione. Noi, però, con la testa chissà dove, al rischio di fare una brutta fine non ci avevamo proprio pensato. Una ragazzata che avremmo potuto pagare caro. Arrivammo, invece, felicemente alla casa dei forlivesi, accolti festosamente anche per il burro, un paio di chili, merce preziosissima di per sé e per gli scambi che se ne potevano trarre e noi contenti di poterla regalare a chi, con tanta generosità, ci aveva ospitato e che ora tornava ad accoglierci a braccia aperte. Ma restammo lì solo due giorni perché, proprio all’indomani del nostro ritorno, arrivò l’ordine per tutti di sloggiare. Al trasporto della roba, peraltro ben poca cosa, avrebbero provveduto i tedeschi. Ma questo non attenuava la disperazione dei nostri amici, che ignoravano dove li avrebbero portati e quale sarebbe stata la loro sorte. Per noi continuò, invece, a brillare la buona stella, questa volta nella persona di un altro italiano, un goriziano, ex ardito della prima guerra mondiale, tutto matto, che ci fu di grande aiuto. Anche lui lo incontrammo per caso, per la strada. Sentendoci parlare italiano ci venne incontro e ci abbracciò come fossimo stati vecchi amici. Conosciuta la nostra condizione: «venite da me», ci disse. Anche lui era stato sbattuto in una fattoria a servire una famiglia di anziani tedeschi, che, giorni prima, avevano abbandonato il campo, lasciandogli in consegna casa e stalla con una decina di mucche e una porcilaia con un’altra decina fra maiali e maialini. Nella casa però si era installato un gruppo di soldati tedeschi, per cui a noi sembrava folle finire proprio nella tana del lupo. «Ma se non sapete dove andare – ci disse – Poi non abbiate paura. Basta che gli si tenga a posto la casa e gli si munga le mucche a loro che ci siate o non ci siate non gli importa niente». Tanto fece che ci convinse. Molte strette di mano coi forlivesi, abbracci, auguri e anche qualche lacrima e via verso la nuova casa, che era ad un chilometro circa di distanza. Quando entrammo due soldati, che erano sdraiati sul pavimento, alzarono la testa per guardarci, ma non mossero un dito né dissero una parola. Noi salimmo nel solaio, dove era inteso che ci saremmo installati. Dieci minuti dopo salì il maresciallo che, toccando con l’indice l’orologio al polso, disse che ci dava un’ora di tempo per andarcene tutti, compreso l’ardito. «Qui - disse - siamo vicini alla prima linea e non vogliamo nessuno fra i piedi». Ci guardammo sgomenti, senza parole. Il più mortificato era il goriziano, che non si aspettava niente del genere. Ma fu anche quello che reagì per primo. «Andiamo - disse - a rimediare qualcosa per il viaggio». Scesero giù e mi lasciarono solo, non saprei dire perché. Ed ecco che mentre loro si davano da fare nel cortile, il maresciallo tornò nel solaio e si mise a sedere di fronte a me. Stette zitto per alcuni secondi e poi, senza guardarmi e a voce bassa: « Sono stato a lungo in Italia – mi disse – a Napoli, Roma, Firenze e tu di dove sei?». «Di Genova», gli dissi. «Sono stato anche lì. Una bella città. Col porto, col mare. Piena di partigiani, però». Seguì un lungo silenzio. Poi tirò fuori il portafogli per farmi vedere la fotografia di una donna. «Mia moglie» - disse. Altra pausa di silenzio e poi: «Morta. Sotto un bombardamento. A Monaco». L’ascoltai restando zitto, non sapendo cosa dire e soprattutto non sapendo dove avrebbe parato. Dal portafogli tirò fuori la foto di una bambina di un cinque-sei anni, graziosa e sorridente. «Mia figlia - disse - Morta anche lei, con la madre». Altro silenzio. Poi si accese una sigaretta e ne offrì una anche a me. Aspirò profondamente, porgendomi l’accendino. E poi: «Morte mia moglie e mia figlia. La casa ridotta ad un cumulo di macerie, come del resto l’intera Germania. Non c’è più nessuna via di scampo. Nessuna. Tu che ne pensi? Andrà meglio in Italia? Chissà. Intanto restate pure qui. La storia che vi siete perduti non sta in piedi. So bene che voi aspettate Ivan. E sai cosa ti dico? Che non me ne importa niente. Niente di niente. Non c’è più niente che mi interessi. Restate pure qui, al riparo, ma, attenzione, tenete in ordine la casa e la stalla. Del resto è ormai questione di pochi giorni». Poi mi chiese di me, di cosa facevo a Genova e come mai ero finito in Germania. Mi sentii come trafitto da un dolore profondo, da una pena senza confini. Avrei voluto essergli d’aiuto in qualche modo, ma non sapevo come. Una grande pena e una immensa riconoscenza. In ogni modo, non era più il caso di raccontargli bugie. Così gli dissi della giornata del 16 giugno del ’44, della grande retata dei tedeschi nel quartiere operaio di Sestri Ponente, dove c’erano un mucchio di fabbri che, la San Giorgio, Piaggio, i Cantieri navali, il Fossati dove si costruivano i carri armati e le autoblinde, la Fonderia, eccetera. Gli dissi del lungo viaggio da Genova a Gotenhafen, la Gdynia polacca, dove ci avevano selezionato, dopo averci depilato e rapato a zero: gli operai, che erano la stragrande maggioranza, nelle fabbriche; quelli, come me, senza arte né parte, nelle campagne, a disposizione dei proprietari terrieri, piccoli e grandi, rimasti senza mano d’opera. A me era toccato uno medio, proprietario di due case, una dove abitavano i padroni, l’altra per i servi, i Narbroski marito moglie e una figlia e in più un ragazzo, Josif, orfano di padre e madre, con una sorella maggiore che risiedeva in un altro villaggio, che lui, di tanto in tanto, andava a trovare. Non so se mi stette a sentire. Il suo pensiero, chiaramente, navigava altrove. Mi chiese, infatti, se avevo fratelli o sorelle e prima ancora che gli rispondessi di no, mi disse se ero capace di fargli un caffé. Niente di più piacevole, mi disse, di una buona sigaretta dopo un caffé caldo, anche se si tratta di una brodaglia. Fantastico. In Italia sì, mi disse, che si mangiava bene e si beveva meglio. Almeno questo. «Non eravamo ben visti da voi italiani, ma questo l’avevamo messo nel conto. Bene, Ivan non tarderà ad arrivare. Finché siamo qui, nessuno vi darà fastidio. Ormai ne hanno tutti le tasche piene». Intanto gli stavo preparando quella che lui, mandandomi a pianterreno a prendere un barattolo con dentro una polvere nerastra, aveva chiamato una brodaglia. C’era anche lo zucchero e a me non mi parve nemmeno tanto male. Lui la bevve a piccoli sorsi e poi si accese una sigaretta e ne offrì una anche a me. Infine mi lasciò incrociando per le scale i miei compagni. Tranquilli – dissi - il tedesco ci lascia stare qui. Un pomeriggio di due o tre giorni dopo il maresciallo venne a trovarmi nel solaio, mentre ero solo. Cominciò subito a dirmi quello che gli gravava dentro, che era un peso che nessuno avrebbe potuto togliergli. Ma parlarne con me, anche se per lui ero uno sconosciuto, gli serviva comunque da sfogo ed evidentemente un po’ lo consolava. Con mia moglie – disse – c’eravamo conosciuti nella Hitlerjugend e ci eravamo subito intesi. Ci siamo sposati che avevamo da poco superato i vent’anni. Anni di felicità piena. Poi arrivò la bambina, poi la guerra. Pochi mesi e torniamo a casa. Sembravamo invincibili. Tutta l’Europa era nostra e Adolf Hitler era il nostro dio. Poco meno di sei anni da allora ed eccoci qui, con i russi che pianteranno la loro bandiera a Berlino. Ma voi state attenti, il vostro Ivan è un grosso orso, che non scherza. Il primo impatto con i sovietici, più o meno una settimana dopo, fu invece senza traumi. Per una giornata intera restammo senza tedeschi e senza russi. In compenso, aerei russi che, nei giorni precedenti, non si erano mai fatti vivi, riempirono il cielo per tutta la giornata, sganciando bombe e mitragliando obiettivi, per fortuna fuori dal nostro orizzonte. Nella previsione che i russi potessero arrivare di notte ci nascondemmo in quella specie di cantina che si trovava sotto il tinello. La botola che immetteva nella cantina facemmo in modo di nasconderla sotto uno spesso tappeto. Un rifugio che poteva costarci caro. I primi russi che arrivarono quando ancora era buio e di cui sentimmo i passi sopra di noi, se avessero scoperto la botola avrebbero potuto aprirla e gettarci dentro una bomba o una sventagliata di mitra. Invece la fortuna continuò ad assisterci. Con le prime luci uscimmo fuori e quando poco dopo arrivarono i primi russi, vestiti come eravamo di stracci, bastò ripetere più volte la parola “italiani” (in russo italianski) per renderli se non amichevoli per lo meno non ostili. Poi fu un via vai di pattuglie. Soldati che entravano in casa e si guardavano intorno impugnando i mitra, mai però troppo minacciosi. Uno di loro, una volta, ridendo, ci versò su un tavolo un elmetto di zucchero. Un altro, una mezz’ora dopo, adocchiò l’orologio al polso di Augusto e gli chiese, con fare brusco, di consegnarglielo. Altri cercavano le cipolle: “zibule, zibule”. Altri, palesemente stanchi, si sedevano chiedendoci acqua per poi fumare una sigaretta che, notai, si arrotolavano servendosi di un pezzo di giornale. Poi arrivò un reparto che allestì nel cortile una cucina da campo. Il cibo lo procurarono entrando nella porcilaia e facendo fuori con una raffica di mitra un povero maiale. Il momento più drammatico fu quando il nostro ardito andò incontro correndo a un bestione di carro armato che si era fermato sulla strada, guardato con diffidenza dal carrista col busto fuori dalla torretta con in mano una pistola, e gridando «Viva viva Bepin», intendendo per Bepin Giuseppe Stalin, si arrestò baciando la parete del panzer. Infine un ufficiale che parlava il francese ci disse di andare via prima che tornasse il buio, che continuare a stare lì, specialmente di notte, sarebbe stato molto pericoloso. Seguimmo subito il consiglio e cominciammo ad incamminarci all’indietro verso Neunburg, la cittadina dove ci saremmo sentiti al sicuro perché già saldamente in mano all’Armata Rossa.

Da Triangolo Rosso, maggio 2004

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