Triangolo rosso

RICORDATA ALLA FONDAZIONE MEMORIA DELLA DEPORTAZIONE

LA BREVE VITA EROICA DI JENIDE RUSSO

Arrestata mentre trasportava esplosivo ai partigiani venne deportata a Ravensbrück dove trovò la morte nel ’44

 

Sabato 21 febbraio 2004 presso la Fondazione Memoria della Deportazione si è svolto un incontro per ricordare la partigiana Jenide Russo, deportata nei Lager di Ravensbrück e Bergen Belsen, dove morì all’età di 27 anni di tifo petecchiale. All’incontro hanno partecipato Giovanna Massariello Merzagora, Vicepresidente dell’Aned di Milano e Roberto Cenati dell’Anpi. Dopo la proiezione del film Ravensbrück, sono intervenute Concettina Principato, figlia di Salvatore Principato, uno dei 15 Martiri di piazzale Loreto e Liliana Segre, deportata all’età di 13 anni nei lager di Auschwitz e di Ravensbrück.

 

Giovanna Massariello ha introdotto il tema dell’incontro, parlando degli ambienti antifascisti di porta Venezia e di piazzale Loreto, dell’atmosfera di ostilità al regime da parte di numerosi insegnanti del Liceo Carducci, tra cui il professor Quintino Di Vona catturato dalle brigate nere e fucilato ad Inzago il 7.9.1944, la professoressa Maria Arata, deportata a Ravensbrück, il professor Massariello, il professor Bendiscioli. Ha fatto poi riferimento alla terribile realtà dei lager nazisti, come quello di Ravensbrück, dove fu deportata la madre, Maria Arata Massariello. Roberto Cenati ha ricordato il sacrificio di Jenide Russo, soffermandosi sulle tappe principali della sua vita. Durante il fascismo Jenide non si interessa di politica, pur mantenendo, come la madre e le due sorelle, una posizione di ostilità al regime. A far politica attivamente Jenide inizia dopo che ha conosciuto un giovane, Renato, che fa il partigiano nella Brigata Garibaldi operante a Villadossola. Renato frequenta la casa di  Jenide, molto spesso in compagnia di un altro giovane, Egisto Rubini, che diventerà responsabile GAP di tutta Milano. Il contatto con i due giovani favorisce la maturazione politica di Jenide che, nell’ottobre del 1943 diventerà staffetta partigiana. Suo compito è quello di fornire armi e munizioni alla Brigata Garibaldi dove opera il fidanzato. Tutto funziona perfettamente, fino a quando un membro della 3^ GAP comincia a parlare e a fare i nomi dei componenti della brigata. Jenide viene catturata il 18 febbraio 1944 in Via Aselli, mentre stava portando una borsa contenente nitroglicerina, ai partigiani operanti a Villadossola. Sette giorni dopo, il 25 febbraio 1944, viene catturato in piazza Lima, il comandante Egisto Rubini che si impiccherà nel carcere di S. Vittore, dopo essere stato sottoposto ad atroci torture. Jenide, arrestata dai fascisti, viene portata a Monza. Lì è percossa e torturata. Le viene, fra l’altro, rotta una mascella che poi sarà riaggiustata in qualche modo. Da Monza è trasferita a S. Vittore, nel raggio dei politici. A San Vittore riceve maltrattamenti. Secondo le testimonianze delle sue vicine di prigionia, questa circostanza è provata dal fatto di aver visto, un giorno, Jenide con la sottoveste sporca di sangue. Nonostante le botte e le torture ricevute Jenide non parla. I suoi torturatori si stupiscono per la resistenza da lei dimostrata, soprattutto in quanto donna, e insistono perché faccia i nomi dei suoi compagni. Jenide però non cede. In una lettera inviata clandestinamente alla mamma, dal Campo di concentramento di Fossoli, datata 11 maggio 1944, scrive a proposito dei giorni trascorsi a Monza e a S. Vittore: “Siccome non volevo parlare con le buone, allora hanno cominciato con nerbate e schiaffi. Mi hanno rotto una mascella (ora è di nuovo a posto.) Il mio corpo era pieno di lividi per le bastonate; però non hanno avuto la soddisfazione di vedermi gridare, piangere e tanto meno parlare. Sono stata per cinque giorni a Monza, in isolamento, in una cella, quasi senza mangiare e con un freddo da cani. “Venivo disturbata tutti i giorni perché volevano che io parlassi. Ma io ero più dura di loro e non parlavo. Dì pure che ho mantenuto la parola di non parlare: credo che ora saranno tutti contenti di me.” Alla fine di aprile del 1944 Jenide è trasferita nel campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi, dove i prigionieri venivano concentrati per essere poi deportati nei vari lager nazisti dislocati in Europa. Il 2 agosto 1944 arriva l’ordine di partenza per Ravensbrück, per Jenide ed altre detenute. Nel clima apocalittico e disumano di Ravensbrück c’è spazio per momenti di umana comprensione e solidarietà, come quello dell’incontro tra Jenide, e Maria Arata Massariello descritta nel libro “Il Ponte dei Corvi”. “Ti ricordo così affettuosa, così incoraggiante – scrive Maria Arata – in questo nostro incontro fugace quando, dopo la crisi dell’appello, mi sentivo tanto depressa. Mi dici che hai un tesoro nascosto da farmi vedere, mi conduci in un angolo, al riparo da sguardi indiscreti e mi mostri una tua piccola fotografia a Milano in Viale Gran Sasso” È questa via il comune centro della nostra vita e rappresenta tutto il mondo dei nostri affetti. In questa piccola fotografia c’è tutto quello che abbiamo lasciato e che non rivedremo forse più Grosse lacrime riempiono i nostri occhi. È un attimo. Sentiamo l’urlo della blockova: “Aufsteben” (alzarsi). Eneidina rapidamente fugge lasciandomi nelle mani un paio di calze che è riuscita ad “organizzare” magari sacrificando la sua razione di pane. Così scompare questa fugace, gentile visione della mia vita del Lager, la cui immagine però conservo gelosamente nel cuore.” Jenide per le condizioni igieniche disastrose si ammala di tifo a Ravensbrück. Riesce tuttavia a superare la grave forma di tifo che l’ha colpita. Ma verso la fine del 1944 arriva l’ordine di partenza per Bergen Belsen. Il trasferimento a Bergen Belsen avviene in condizioni disumane su carri bestiame. Le condizioni igieniche e di convivenza a Bergen Belsen erano insostenibili. Scoppia ancora una volta un’epidemia di tifo, che non si riusciva a controllare. Jenide si riammala e viene ricoverata nell’infermeria del campo. Il crollo fisico è accompagnato da un cedimento di carattere psicologico. Jenide si lascia andare, perde quella fiducia nella vita, quella speranza in un mondo migliore, quello slancio, quella vivacità che l’aveva sostenuta nei lunghi mesi di detenzione. Ed è forse questo crollo psicologico, più ancora di quello fisico, che le dà il colpo di grazia. I familiari apprendono la notizia del decesso di Jenide poche settimane dopo il 25 aprile 1945, da due prigioniere, Valeria Sacerdoti e Maria Montuoso. Le lettere inviate da Jenide dal campo di concentramento di Fossoli, sono l’ultima sua testimonianza diretta prima della partenza per la Germania. Accanto alla corrispondenza ufficiale, sottoposta a censura, Jenide era riuscita, grazie a mani amiche, a far pervenire ai familiari altre lettere. Da esse traspare la sua preoccupazione costante di rassicurare i familiari e soprattutto la madre circa il proprio stato di salute e le proprie condizioni di vita, (“io qui tante volte passo delle belle giornate” dirà in una delle sue lettere) anche quando, nelle ultime lettere appare evidente ormai tutta l’angoscia per l’imminente partenza per la Germania. Emerge da queste testimonianze un grande senso di serenità e tranquillità, anche quando la speranza sembra svanire. Quella stessa serenità e tranquillità con cui Jenide affronta l’emergenza quotidiana, i disagi, gli stenti, il freddo, i bombardamenti. Per raggiungere tale difficile equilibrio interiore un grande aiuto le sarà senz’altro derivato dal suo vivace e forte carattere, ma anche dalla consapevolezza di avere compiuto il proprio dovere di patriota e di essersi battuta per un nobile ideale: la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, la rinascita del Paese e la costruzione di una società più giusta. In una lettera recapitata al fidanzato gli dirà: “Qui i tuoi compagni mi dicono che sono un buon elemento e questo per me significa molto. Tu mi dicevi che non bisogna mai dire niente alle donne; ma dovevi sapere a che donna parlavi.” Il ricordo di Jenide non è soltanto un atto doveroso verso chi si è sacrificato per liberare il nostro Paese dal nazifascismo. Ricostruire le fasi salienti della sua vita, significa anche mettere in rilievo il contributo fondamentale fornito dalle donne alla Resistenza. Senza l’intervento attivo delle donne la Resistenza non sarebbe stata quel grande fenomeno di massa che, per la prima volta, nella storia del nostro Paese, ha visto l’irruzione sulla scena politica di forze popolari: classe operaia, contadini, studenti, impiegati, lavoratori e lavoratrici, uomini e donne.

Da Triangolo Rosso, maggio 2004

sommario