Triangolo rosso

 Le nostre storie  

Un testo pubblicato postumo getta una luce drammatica sulla crudeltà del lager

 Una dottoressa nel "Revier"di Auschwitz:  50 anni di riserbo, poi affiora una testimonianza.

(A. P.)

L'ebrea Sima Waseman - Vaisman era nata nel 1903 nell'attuale Moldavia. Adorava la Francia, patria dei "diritti dell'uomo" e, dopo aver studiato medicina a Bucarest, raggiunse Parigi ove esercitò la professione di dentista. Rimasta vedova, senza figli, all'inizio della guerra cercò rifugio a Lione. Arrestata a Macon nel 1942, sotto il falso nome di Simone Vidal, dopo essere stata imprigionata in diversi campi, venne definitivamente deportata ad Auschwitz con il trasporto 66 del 20 gennaio 1944. All'evacuazione del lager raggiunse dopo una terrificante "marcia della morte" il KZ Ravensbrück. Liberata dai russi a Neustadt è deceduta a novantaquattro anni. Rifiutò sempre di concedere interviste e non parlò mai di Auschwitz. Solo nel 1983 la nipote Eliane Neiman-Scali venne a conoscenza della testimonianza scritta da Sima subito dopo la liberazione e il ritorno in Francia. Una testimonianza sconvolgente che tuttavia l'autrice riteneva "senza interesse". Inviata semplicemente e senza alcuna enfasi alla biblioteca dell'Università di Gerusalemme. Il testo venne infine pubblicato integralmente sulla rivista Le Monde juif nel 1990, corredato da note di Serge KIarsfeld e di Jean-Claude Pressac. Un testo unico nel suo genere in quanto Sima Vaisman è l'unico medico di Auschwitz che abbia lasciato una testimonianza. Tale da permetterci di conoscere la feroce realtà del Revier di Birkenau. Ed in particolare la realtà del "Kanadakommando" e della drammaticità della vita quotidiana delle donne che ne facevano parte. Sono pagine di inaudita immediatezza, senza reticenza alcuna ma anche senza alcuna tentazione di mediazione o, ancor peggio, concessione letteraria. Dal viaggio verso l'ignoto all'arrivo sulla rampa. Dalla selezione all'entrata nel lager.

“Su quegli abiti dipingono delle croci rosse”

"Ci conducono al campo, alla 'sauna' sotto scorta delle SS. Lì siamo ricevute da delle ragazze ancora mezze addormentate, grosse, volgari, tutte giovani, ma che sembrano incinte (deformità comune tra le detenute). Sulla loro manica sinistra è cucito un numero di matricola. Sono queste ragazze che ci immatricolano, ci chiedono il nostro mestiere, che studi abbiamo fatto, se siamo malate, il numero dei nostri denti; detenute che ci spogliano, ci perquisiscono, ci tatuano, ci levano i nostri anelli, i nostri orologi, le nostre borse e non ci permettono di tenere neppure lo spazzolino da denti, o un pezzo di sapone, neanche una fotografia, ci rasano i capelli e ci mandano tutte nude sotto la doccia. Dopo la doccia (niente asciugamano), passiamo in uno stanzone freddo, ghiacciato, con il pavimento di cemento, dove altre ragazze ci distribuiscono dei miseri stracci che da ora in poi ci dovranno servire da abiti, dei cenci per avvolgersi i piedi, delle vecchie scarpe scalcagnate che sono o troppo piccole o troppo grandi. Su quegli abiti miserabili ci dipingono delle croci rosse, simbolo di quella croce pesante che dovremo portare. Così conciate, irriconoscibili, passiamo in un ufficio dove ci contano i denti d'oro (per il recupero ulteriore, dopo la morte, naturale o con il gas). Siamo pronte … La vita da prigioniere comincia". Dopo qualche giorno ha inizio il lavoro. Sveglia alle quattro del mattino, lunghissimi appelli, le violenze delle stubowe. Tre settimane dopo l'arrivo Sima viene inviata al Revier. "Il Revier si compone di un gruppo di baracche di legno (ex scuderie, come indicano le iscrizioni rimaste sulle porte). Ci sono quindici baracche in tutto, di cui undici occupate da vari reparti: infettivi, chirurgia, edemi, convalescenti, dissenteria, tubercolotici, medicina generale; una baracca è riservata alle detenute tedesche malate, una al personale e due all'ambulatorio, alla cucina e agli annessi, il tutto circondato dal filo spinato. […] Letti neri, sporchi e su tre livelli. Un pagliericcio ripugnante pieno di pus e di sangue con una o due coperte e su ogni pagliericcio almeno due malate, talvolta anche tre o quattro. Ogni tanto un letto del livello superiore crolla ... grida, lamenti... e poi tutto rientra nell'ordine... Un odore di cadaveri, di escrementi … E le malate, esseri scheletrici, quasi tutte coperte di scabbia, di foruncoli, divorate dai pidocchi, completamente nude, tremanti di freddo sotto le loro coperte disgustose; le teste rasate si somigliano stranamente". "La mortalità è enorme. Il Revier ha 3.000 o 4.000 malate su 12.000 o 13.000 detenute. Solamente al Revier ogni giorno ne muoiono 300, la maggioranza di tifo. Le morte vengono trascinate dal letto, dove spesso hanno passato la notte accanto ad un'altra compagna di miseria ancora viva, talvolta la madre o la sorella, e gettate davanti al blocco, evidentemente nude, nella mota o nella neve, secondo la sta­gione, perché in questo paese paludoso raramente c'è tempo secco. I mucchi crescono rapidamente. Visione allucinante di questi ponticelli di morti, coperti solo da una coperta. Gambe, braccia, volti pieni di sofferenza sporgono da tutte le parti. ... La sera arriva un camion e prende il suo lugubre carico per portarlo ai crematori che fumano senza sosta. E i cadaveri si ammassano... di nuovo la fabbrica della morte continua a girare". "Ma quando il numero delle sopravvissute del Revier era alto, di tanto in tanto venivano fatte delle "selezioni" per non dover nutrire tutte quelle bocche inutili". Sima prosegue nella sua fredda e al tempo stesso appassionata testimonianza raccontando i pericolosissimi tentativi per salvare almeno qualcuna delle malate, gli sforzi incredibili per curarle con i pochissimi medicinali: qualche pasticca di aspirina, dieci pasticche di carbone, di urotropina, di tamalbrul, qualche rara fiala di cardiazol, di caffeina o di prontosil. Gocce in una mare magno di sofferenza! Niente per malate con i piedi gelati, in cancrena che si torcono per il dolore e invocano aiuto, con i loro occhi divorati dalla scabbia. Descrive la fabbrica della morte, i crematori, le persone che verso la camera a gas si avviano, sotto la pioggia a dirotto o sotto un sole cocente. Donne con bambini in braccio, donne che anche negli ultimi passi ancora allattano. Bimbi bellissimi, bambine con grosse trecce … giovani cha sostengono i genitori anziani e malati. Vecchi curvi sotto il peso di pacchi e di bagagli che non hanno voluto consegnare agli uomini che all'arrivo volevano prenderglieli promettendo che li avrebbero ritrovati nel campo.

"C'è il gas sulla macchina della "Croce Rossa"

"La macchina della Croce Rossa è là, precede o segue il trasporto, ma è carica, porta il gas per lo sterminio". Seccamente tutto ciò che ha visto e conosciuto Sima racconta, lucidamente, testimoniando l'orrore dell'orrore. Oggi questo eccezionale documento può essere letto da tutti grazie alla sua pubblicazione voluta dalla Giuntina. È in libreria con il titolo L'inferno sulla Terra. Daniel Vogelman, concordando con Serge Klarsfeld, ha meritoriamente deciso di proporci un documento di rara efficacia proprio perché: "alcune testimonianze provenienti da forti personalità avranno sempre più potenza per esprimere l'autenticità dell'uomo immerso nell'universo concentrazionario dell'opera di uno storico, fosse anche il più competente e il meglio documentato".

Da Triangolo Rosso, n. 1 maggio 2004, per gentile concessione

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