Triangolo rosso
Le nostre storie
“Speriamo che muoiano tutte!” Anche questo è stato Aichach,
il carcere nazista delle donne.
Il
lazzaretto per quelle incinte – I neonati assassinati – Tra le prigioniere
due ragazze arrestate a Roma e tradotte in Baviera dopo la galera di via Tasso
di Aldo Pavia
Il 15 giugno 1945 l'Unità, con un articolo di ampio rilievo, salutava il ritorno dalla prigionia in Germania di due ragazze romane, di due giovani compagne: Enrica Filippini Lera e Vera Michelin Salomon. Arrestate a Roma il 14 febbraio 1944 dalle SS, erano state imprigionate in via Tasso, poi a Regina Coeli e condannate dal Tribunale militare nazista che, nella sentenza ordinava per loro: "maltrattamenti, disciplina estremamente severa, molta fame e lavoro veramente molto duro".
“Un penitenziario in Alta Baviera”
Di
tale parere fu anche la polizia
di Monaco e questo fu il trattamento che ricevettero ad Aichach. Un
penitenziario
per donne, nell'Alta Baviera che per un certo periodo fu un sottocampo di
Buchenwald, per poi assumere un ruolo proprio ed indipendente sotto la
gestione della Gestapo. Un carcere di punizione e quindi duro, durissimo
come le SS e la Gestapo volevano. Ed era anche un "carcere
modello". Vera ebbe la matricola 348,
Enrica la 341. Ad Aichach
trovarono altre tremila prigioniere: francesi, polacche, sovietiche, di tante
nazionalità europee. Politiche e "comuni". Vestivano un grembiulone
di cotone nero con una striscia gialla al braccio, una camicia ed un paio di
mutande di telaccia. Nulla di più, anche se il freddo in Alta Baviera, in
certe notti, può scendere a 20 gradi sottozero. Sveglia alle 5 e mezzo. Alle
6 al lavoro; per 12 ore consecutive si dovevano produrre ghette di cuoio e di
tela destinate all'esercizio nazista. Proibito assolutamente parlare. Chi
contravveniva all'ordine veniva punita con 40 giorni di isolamento in celle
sotterranee. Come cibo, alla mattina, un poco di acqua sporca ed una fetta di
pane, poco più di cento grammi, che doveva bastare per tutta la giornata.
Per il mezzogiorno e la sera un litro e mezzo di acqua e rape. La domenica,
forse perché era festa e quindi giornata improduttiva, via il mezzo litro
serale. Il Reich non poteva permettersi sprechi! Già permetteva il lusso di
una "passeggiata forzata" di tre quarti d'ora al giorno nel cortile
del carcere, un'inutile perdita di tempo. Anche sulle visite mediche si doveva
essere rigorosi: non più di un minuto. Toccava però alle prigioniere fare file
persino di 6 o 7 ore per quel minuto davanti ad un medico delle SS, molto
sbrigativo. Quando si verificò un'epidemia di tifo la sua terapia fu: tre
giorni di digiuno. 400 donne urlavano impazzite. Per tutta risposta il medico
disse: «Speriamo muoiano tutte». Ad Aichach esisteva anche un lazzaretto per
donne incinte. Venivano fatte partorire e subito i neonati venivano
assassinati. I bambini erano un lusso. Il regolamento non prevedeva una loro
presenza nello splendido carcere modello. Tra i lavori massacranti quello
dell'orto della prigione: 12 ore a vangare, senza alcuna interruzione o
possibilità di riposarsi sotto la neve. Nemmeno un boccone di pane in più.
Spesso le prigioniere rimanevano a terra, colpite da attacchi cardiaci o
totalmente stremate dalla fatica. Se non morivano, rinvenendo sotto la pioggia
dovevano subito riprendere la vanga e immediatamente tornare al lavoro.
Arrivarono un giorno delle prigioniere francesi. Venivano dal campo di Janer,
dopo 20 giorni di marcia nella neve. Molte quelle morte per il gelo o
massacrate dalle SS. Lasciate insepolte. Le rimanenti, scheletriche,
tubercolotiche, congelate entrarono nel carcere. Un esempio, un monito per tutte
le prigioniere. Ad Aichach si moriva senza urli, si scompariva. Semplicemente
non si vedeva più una compagna. E non c'era bisogno di porsi particolari
domande: si sapeva. Un'agonia che ebbe termine il 28 aprile 1945. Le prigioniere
sentirono una voce che, in tedesco, urlava: "Tutte fuori". Si
aprirono le porte delle celle ed entrò un soldato vestito di kaki con l'elmetto
tondo, impugnando un fucile mitragliatore. Era un americano. Oggi le due
giovani prigioniere sono iscritte all'Aned di Roma e, in particolare, Vera è
la responsabile culturale di questa sezione. Promotrice assidua di iniziative
rivolte, in particolare, al mondo della scuola e ai giovani. Grazie a lei, ai
suoi ricordi e anche a quelli di Enrica, conosciamo il nome delle italiane
in Aichach. Quando tornarono a Roma, nel corso di un incontro presso
l'Università della capitale, concludendo il racconto della loro dolorosa
vicenda, invitarono i presenti ad essere degni di tutti i compagni e di tutte
le compagne che non avevano fatto ritorno dai lager e che erano caduti nella
lotta antifascista. Loro lo sono state. Noi cerchiamo di esserlo oggi come
ieri.
Da Triangolo Rosso, n. 1 Maggio 2004, per gentile concessione