Triangolo rosso
Dall’isola delle rose all’inferno del Lager
di Aldo Pavia
L’8 settembre 1943 a Rodi, “isola delle rose” vi erano tra 30 e 36 mila soldati italiani e tra 8 e 10 mila militari tedeschi. Circa 2.000 gli ebrei che, atterriti al pari di tutta la popolazione, assistevano agli scontri a fuoco tra gli ex alleati. Il generale nazista Ulrick Kliemann, comandante la divisione Rhodos, preceduto da una bandiera bianca, propose una tregua al governatore italiano, ammiraglio Campioni, in attesa di ricevere dalla Germania l’ordine di abbandonare l’isola. Non fu così. Aerei tedeschi gettarono sulla popolazione volantini terrorizzanti, che annunciavano la distruzione totale della città qualora si fosse verificata una qualsiasi opposizione alle truppe naziste. Anche per evitare questa tragica eventualità gli italiani cedettero, lasciando l’isola nelle mani dei tedeschi. Subito iniziarono le esecuzioni sommarie, le vendette, le deportazioni. Reo di avere resistito ai nazisti, anche l’ammiraglio Inigo Campioni venne deportato in Germania, poi nel 1944 consegnato alla repubblica di Salò. Che lo fece fucilare a Parma, reo appunto di non aver immediatamente consegnato le armi ai nazisti. La sua sorte sarà la stessa del contrammiraglio Luigi Mascherpa che si permise di guidare la resistenza, per 45 giorni, nell’isola di Lero. Pur in presenza di questi fatti tragici, pur isolata e priva di notizie – le loro radio erano state sigillate già in precedenza dagli italiani – la comunità ebraica di Rodi continuò a sperare. Mentre in tutta Europa gli ebrei venivano sterminati, a Rodi i nazisti sembravano disinteressarsi di loro. Ha raccontato Clara Menascé Gabriel: “gli ebrei non avevano motivo di preoccuparsi: vivevamo come in un paese libero. Non erano tedeschi quelli che erano in Rodi, ma austriaci. Ci raccontavano di essere stati arruolati con la forza. Erano della Wehrmacht. Non erano SS”. Molti giovani fuggirono, riparando nella vicina Turchia. La maggior parte della Comunità rimase unita. D’altro canto si trattava di famiglie numerose con molti bambini, con molte persone anziane. E poi perché non sperare se… all’avvicinarsi di Pesach i nazisti li invitavano persino a preparare per tempo le azzime! L’unico pericolo fino a quel momento era rappresentato dai bombardamenti. Il quartiere ebraico era proprio vicino al porto, principale obiettivo dell’aviazione inglese. Due erano stati i morti il 2 febbraio ’44 e ventisei in aprile, proprio nel primo giorno della Pasqua ebraica. Questa ingannevole calma finì intorno ai primi di luglio. Giunsero a Rodi alcune SS, qualcuno parlò di due, altri di quattro. Si è detto anche di sei persone in borghese. Il fatto è che costoro subito incontrarono all’Albergo delle Rose il generale Kliemann, cui fu immediatamente chiarito che la loro missione consisteva nel deportare e sterminare la comunità ebraica locale. Con una ordinanza del 3 luglio Kliemann proibiva agli ebrei di sfollare oltre i 12 chilometri dalla città. E comunque solo nei villaggio di Trianda, Kremastò e Villanova. Non se ne accorsero, pensarono fosse per proteggerli dai guai della guerra. Non capirono che la rete era gettata. Pochi giorni dopo, il 18 luglio, un ufficiale tedesco si presentò a Bension R. Menascé, scambiandolo per il presidente della Comunità, per presentargli un ordine del comando tedesco. Scriverà Menascé: “un ufficiale del comando tedesco si presentò, alle 3 del pomeriggio, […] per farmi una comunicazione. […] Gli ho detto che ero disposto ad andare con lui da M. Jacob Chalet Franco, il presidente. Giunti da lui, l’ufficiale ci ha detto che per ordine del comando tedesco, tutti gli ebrei dovevano, l’indomani mattina, presentarsi presso il comando dell’aeronautica, in Tchemelik. La nostra preoccupazione da grande divenne grave: fu quel giorno che il fatale destino della popolazione ebraica del Dodecaneso venne deciso e fu a partire da quel momento che ebbe inizio la nostra tragedia”. La loro condanna allo sterminio venne firmata il 18 luglio 1944. Vennero concentrati dapprima presso la sede del comando aeronautico italiano, nella località di Tchemenlik, a ovest della città, ove risiedeva la Kommandantur. Tra il 18 e il 24 luglio i nazisti emisero una serie di ordinanze cui gli ebrei erano tenuti all’osservanza, pena la fucilazione in caso contrario. Prima ancora, il giorno stesso dell’incontro con il presidente della Comunità, speciali banditori in bicicletta, gridarono per le strade dei villaggi in cui gli ebrei erano sfollati, che: “tutti gli ebrei, uomini dai tredici anni in poi, hanno l’ordine di presentarsi domattina alle 7 al Comando dell’aviazione coi loro permessi di lavoro e muniti delle carte d’identità”. Credettero di venire convocati per essere destinati a qualche lavoro. D’altro canto l’ordinanza ove venne esposta, era scritta in tedesco, lingua ben poco conosciuta e comunque faceva anche pensare ad un controllo urgente dei documenti. La realtà fu che documenti e permessi di lavoro vennero ritirati ed i loro possessori privati così dell’identità. Ridotti da quel momento a “pezzi”. Subito dopo i nazisti si impadronirono dei loro beni. E nella stessa giornata impartirono l’ordine a tutte le donne ebree di raggiungere, entro dodici ore, i loro congiunti con bambini, malati e soprattutto con denaro, gioielli, oro, tutto ciò che avesse valore, effetti personali e provviste. Facendo credere – ed i nazisti erano maestri di menzogne – che la collettività ebraica sarebbe stata trasferita in un’altra isola dell’Egeo e che quanto veniva richiesto era per fare fronte al nuovo insediamento. Il presidente della Comunità venne costretto, accompagnato da un ufficiale della Gestapo e da un interprete, a recarsi di casa in casa esortando le donne ad accorrere sollecitamente al luogo di concentramento. Poi con minacce, bugie, violenze, i nazisti si impadronirono di tutto. Ricorda Violette Fintz che solo con i gioielli furono riempiti quattro sacchi. Una ragazzina che cercò di opporsi al furto della sua stella di Davide venne presa a calci da una SS e la collanina le venne strappata violentemente dal collo. Lasciati senza cibo e acqua, mentre i nazisti, non ancora sazi, svaligiavano le loro case. Per giorni a digiuno, insultati da alcune persone del luogo che mostravano loro delle cibarie, pronte a cederle loro solo a prezzi iperbolici. Un bicchiere d’acqua fu venduto a diecimila lire! Intanto i nazisti, il 20 luglio, emisero una nuova ordinanza ai non ebrei rendendoli consapevoli che la immediata fucilazione sarebbe stata la pena per chi nascondesse un ebreo. Il 22 dichiararono il sequestro di tutti i beni ebraici ed il 23 venne ordinata l’immediata consegna all’autorità tedesca di denaro, merci e quanto altro appartenente ad ebrei. Al saccheggio nazista si affiancarono, purtroppo, anche non pochi greci. L’ordine di deportazione giunse la domenica 23 a mezzogiorno. I nazisti fecero suonare le sirene degli allarmi per far sì che la popolazione scendesse nei rifugi e nulla potesse essere visto. La lunga colonna degli ebrei si incamminò verso il porto, scortata su entrambi i lati dai soldati tedeschi armati e dai cani lupo, feroci ed ululanti. Percossi ad ogni incertezza, ingombrati dai bagagli, le donne stringendo i loro piccoli tra le braccia. Una testimone italiana ha raccontato: “vedemmo ad un tratto una vecchia, che dopo aver trascinato per un po’ la sua valigia, cadde a terra sfinita. Presa a calci dai soldati […] si alzò ma dopo pochi passi si accasciò nuovamente al suolo: allora fu presa per i capelli e trascinata così e il suo corpo spazzava la strada”. Durante il tragitto per il porto fu loro comandato di camminare sempre con la testa bassa, senza guardare alcuna persona, pena la morte. I circa duemila ebrei rodioti vennero imbarcati su tre carrette per il trasporto del carbone. Così iniziò il loro viaggio verso l’efferato ignoto. Dopo una sosta a Lero, ove si aggiunse una quarta motozattera con un centinaio di ebrei di Coo, arrivarono al Pireo tra il 31 luglio ed il 1° agosto. I primi morti si ebbero durante il viaggio in mare. Pare siano stati sette, gettati ai pesci. All’arrivo al Pireo quindici salme furono lasciate sul molo. Altre vennero buttate su un camion e trasportate ad Haidari, il tristemente famoso campo di concentramento nei pressi di Atene, un vero e proprio deposito di condannati all’assassinio. Da qui partirono anche gli ebrei di Salonicco e tra loro Shlomo Venezia, cui noi dobbiamo molto sulla conoscenza dei Sonderkommando di Birkenau. Qui vennero divise le famiglie, tra urla e percosse. Una vecchia fu assassinata con un colpo di rivoltella. Molti altri fustigati, donne e bambini colpiti da scudisciate sul volto. Per una intera giornata gli uomini vennero tenuti in piedi sotto il sole rovente. Le donne obbligate a denudarsi e perquisite dalle SS che cercavano nelle loro parti intime gioielli nascosti. Picchiate e frustate al minimo cenno di reazione per pudore. I bagagli sequestrati, i denti d’oro strappati. Privati persino degli occhiali. E, dopo un viaggio a dir poco allucinante, lasciati senza cibo ed acqua per tre giorni! Ad un uomo ormai in fin di vita per la sete fu fatta bere dell’urina. Il 3 agosto, caricati su carri bestiame alla stazione di Atene, gli ebrei di Rodi, e quelli di Coo, partirono per Auschwitz. Con poche e misere vettovaglie procurate dalla Croce Rossa. Attraversarono Grecia, Iugoslavia, Ungheria, Cecoslovacchia. Poi la Polonia e il 16 si trovarono sulla rampa in Auschwitz. Durante il viaggio molti furono i decessi, stimati in un centinaio circa. Salomon Galante ricordava che ogni due giorni le SS aprivano i portelloni e gridavano: “Raus mit den Toten”. Le ricerche di Liliana Fargion, pubblicate nel suo insostituibile e prezioso Libro della Memoria, ci fanno sapere che 346 uomini e 254 donne superarono la selezione. Il 27 ottobre 93 di loro – uomini e donne – vennero inviati a Dachau, mentre il 25 gennaio del ’45 un piccolo gruppo di 20 uomini giunse a Mauthausen. Dell’arrivo a Birkenau un superstite ci ha raccontato: “appena discesi dai vagoni… ciò che si offrì ai nostri occhi fu la vista di alte volute di fumo e l’odore di stoffa e di carne umana bruciata. […] I bambini, che facevano pena a vedersi, si tenevano avvinghiati alle gambe delle loro madri in uno stato di profonda disperazione. Le SS cominciarono a percuotere gli uomini e le donne più anziane, altrettanto fecero con i bambini più piccoli che fissavano i loro occhi in quelli delle madri, invocando aiuto…le SS strappavano i bambini dalle braccia delle loro madri, senza permettere loro di abbracciarli per l’ultima volta. Dopo di ciò il camion partiva trasportando queste povere donne che gettavano il loro ultimi sguardi sulle loro creature e gridavano: que el Diò esté con vosotros”. Al loro arrivo gli ebrei rodioti si sentirono dire strane cose. A Laura Hasson che aveva in braccio un bambino qualcuno disse di darlo ad un'altra donna, purché non giovane. Un ebreo di Roma consigliò ad alcune di non darsi mai malate, anche se avessero avuto 40 di febbre. E quando, cantando durante il lavoro, speravano di rivedere le loro madri, le più anziane prigioniere indicavano loro le fiamme del crematorio. D’altro canto la realtà di Birkenau era tale che normali menti umane non potevano neanche lontanamente concepirla. Ma dovettero capirla e conoscerla. E viverla per quanto possibile. Sulle giovani donne di Rodi furono eseguiti esperimenti sulla sterilizzazione. In questo senso hanno rilasciato testimonianze Laura Hasson, Sara Benatar, Anna Cohen e Giovanna Hasson raccolte da Giovanni Melodia, alla liberazione di Dachau, ove erano giunte da Auschwitz. E da Melodia pubblicate nel n° 25 bis de Gli Italiani in Dachau – edizione speciale del 2 giugno 1945. Il novanta per cento degli ebrei di Rodi venne assassinato nei Lager. Tra i pochi superstiti, per la maggior parte donne, le quattro giovani conosciute da Melodia a Dachau e con loro Rahamin Coen, Violette Maio, Rachele Lina Alhadeff, Rachele Almeleh a Bergen-Belsen, a Mauthuasen Ascer Varon, Giuseppe Varon, Sidney Fahn, ebreo ceco capitato a Rodi e da lì deportato, Rachele Cugno a Terezin, e ancora Rosa Hanan, Fortunata Menascé, Samuele Modiano, Lucia Sciaron, Salomon Galante. Non vennero deportati, salvandosi quindi, quaranta ebrei di Rodi che il console turco riuscì a strappare ai nazisti perché di nazionalità turca o sposati con donne turche o di nazionalità straniera, cioè non italiana. I superstiti non vollero più tornare a Rodi e preferirono raggiungere parenti o altri rodioti in America, in Africa, in Palestina, in Australia. Nel 1946 si tenne a Rodi una “assemblea generale” cui partecipò una cinquantina di ebrei. Venne eletto un Consiglio e nominato presidente Elia Soriano. Tra le prime decisioni quella di erigere una stele, un monumento a ricordo degli ebrei di Rodi e di Coo sterminati dai nazisti. Inaugurata il 4 maggio 1949, oggi la si può vedere nel locale cimitero ebraico. L’elenco dei nomi delle famiglie annientate, nel 1969, è stato affisso nella restaurata sinagoga della Pace, Keillà Shalom. L’Aned di Roma conserva con commozione ed orgoglio una lettera con il timbro della Comunità di Rodi, datata 29 agosto 1986,con la quale il presidente Maurice Soriano invia copia della lista completa dei deportati da Rodi. Ma, nonostante gli sforzi, tutta la buona volontà, l’impegno più entusiasta, il Consiglio non ha potuto che prendere atto che la Comunità ebraica di Rodi non esiste più. Così abbiamo perduto, assassinata dai criminali nazisti, una delle più antiche, prestigiose comunità ebraiche. Oggi a Rodi esiste Keillà Shalom, una stupenda sinagoga, completa dei suoi arredi sacri, dei suoi rimonin. Ma non esiste una congregazione, non cercatevi un rabbino.
Da Triangolo Rosso, dicembre 2004