Triangolo rosso

È SCOMPARSO A VICENZA L’UNICO SOPRAVVISSUTO DEGLI ANTIFASCISTI DEPORTATI DA SCHIO NEL NOVEMBRE 1944

Un’esistenza di doloroso riserbo per William Pierdicchi su quell’immane tragedia

 

di Ugo de Grandis

 

Il 20 luglio scorso è scomparso a Vicenza William Pierdicchi, l’unico sopravvissuto degli antifascisti deportati da Schio (Vicenza) nei lager nazisti al termine della retata effettuata nel novembre 1944. Ebbi l’onore ed il piacere di ottenere un incontro con lui nell’aprile 2001 dopo che, con notevole titubanza, glielo aveva richiesto telefonicamente. Non ebbe alcuna esitazione a concedermelo; anzi, sembrava desideroso di raccontare la sua vicenda della quale, nel corso della vita, fu molto ritroso a parlare. Andai così a trovarlo nella sua abitazione, in piazza Aracoeli a Vicenza, un piovoso sabato pomeriggio di aprile. Dopo il comprensibile imbarazzo iniziale, e precisando il mio interesse del tutto personale, cominciammo a parlare di quel triste periodo, la voce a tratti incerta a causa di un ictus che lo aveva recentemente colpito.

 

Originario di Jesi (Ancona), dove nacque il 21 agosto 1921, si trasferì in tenera età a Schio con la famiglia. Durante la guerra prestò servizio in Marina come marconista sulla torpediniera Impetuosa. Studente alla facoltà di Economia e commercio all’Università Cà Foscari, si legò all’ambiente del Partito d’azione, che a Venezia possedeva una stamperia clandestina. Operò nella nostra città a sostegno delle formazioni armate dislocate sui monti circostanti, mantenendo i rapporti tra il Cln veneziano e quello scledense con il trasporto di volantini, in particolare in occasione degli scioperi del marzo 1944 contro la precettazione per il lavoro coatto in Germania. Tra la fine di novembre e gli inizi di dicembre 1944 ebbe luogo a Schio una vasta retata di partigiani territoriali, inquadrati nel Battaglione “Fratelli Bandiera”, ad opera di forze congiunte nazifasciste. La retata fu possibile grazie all’elenco dei sospetti antifascisti redatto dall’Ufficio politico investigativo della Gnr. scledense ed alla poderosa e capillare rete di informatori che la direzione del fascio repubblicano aveva intessuto in città. Dopo la Liberazione, in municipio fu rinvenuto un elenco di persone “da inviare in Germania” firmato, per sua stessa ammissione (vedi lettera alla moglie del 1° luglio 1945 pubblicata da G. Marenghi L’Eccidio di Schio), dal commissario prefettizio Giulio Vescovi, in quanto “richiestone dal Prefetto”. Molti elementi di spicco riuscirono a dileguarsi in tempo, grazie ad una confessione udita attraverso i muri dalla moglie del capo carceriere Pezzin. Una quindicina di partigiani non fecero in tempo a nascondersi e vennero arrestati dalle Brigate nere, chi nel proprio domicilio o luogo di lavoro, chi nel disperato tentativo di fuga; Pierdicchi fu arrestato nelle colline circostanti Pievebelvicino. Nell’elenco diligentemente approntato dalle autorità repubblichine e trasmesso al comando tedesco, accanto ai nomi era apposta la dicitura “elemento pericoloso”, che per la burocrazia nazista significava tout court l’eliminazione fisica. Dopo l’arresto furono condotti per un primo, pesante interrogatorio alle scuole “Marconi”, per essere poi tradotti alle carceri mandamentali di via Baratto. Ci fu un momento in cui si sperò in un possibile rilascio, comunicato ai familiari da alcuni detenuti meno compromessi scarcerati nei giorni seguenti (circostanza confermata dalla signora Gianna Zanon, figlia di Andrea). A seguito del clamore suscitato dalla liberazione di Antonio Canova “Tuoni” comandante del battaglione, degente in ospedalein attesa di riprendere gli interrogatori, avvenuta il 6 dicembre mediante un’azione ardita ed incruenta alla quale parteciparono i migliori quadri della Resistenza locale, furono invece trasferiti alle carceri di San Biagio a Vicenza.

In quattordici su un camion: prima destinazione Bolzano

Lì subirono altri interrogatori, al termine dei quali scattò la decisione di deportarli nell’universo concentrazionario del Terzo Reich in data 21 dicembre 1944, assieme ad altri antifascisti vicentini. Furono 14 gli antifascisti scledensi deportati in quell’operazione, ed è doveroso ricordarne i nomi: Andrea Azzolini, Giovanni Bortoloso, Andrea Bozzo, Livio Cracco, Italo Galvan, Pierfranco Pozzer, Antonio Rampon, Anselmo Thiella, Vittorio Tradigo, Giuseppe Vidale, Andrea Zanon, Bruno Zordan, Antonio Zucchi, oltre a William Pierdicchi. L’automezzo che da Vicenza li trasportò ebbe una prima sosta per panne all’altezza del Villaggio Pasubio di Schio. I prigionieri furono fatti scendere ed allineati contro il muro di cinta sotto la minaccia delle armi, mentre il camion veniva riparato. Alcuni familiari, fortuitamente avvisati dell’accaduto, si precipitarono sul luogo nella speranza di poterli riabbracciare e di consegnare loro alcuni generi di conforto, ma furono tenuti a debita distanza dai militi fascisti con la minaccia di “fare la stessa fine”. Nei pressi del luogo ove sostò l’automezzo, la pietà degli abitanti del Villaggio Pasubio eresse una lapide a loro ricordo, tuttora ben mantenuta, nella quale tuttavia è omesso il nome di Antonio Rampon, commesso fruttivendolo presso il negozio Bettio. Una volta ripartito, l’automezzo ebbe un secondo, definitivo guasto in prossimità della Tagliata, a Sant’Antonio del Pasubio; i detenuti furono perciò fatti scendere nuovamente ed avviati a piedi fino al Pian delle Fugazze, dove i militi di scorta poterono recuperare un altro camion con cui proseguire. Grande fu la delusione, in entrambe le soste, perché si sperava in un attacco partigiano che ponesse fine al loro calvario! Ma allora le comunicazioni non correvano veloci come ai giorni nostri, e purtroppo il viaggio proseguì. Sostarono circa due settimane nel Durchgangslager di via Resia a Bolzano, dove furono assegnati al “Blocco E”, riservato ai pericolosi; appena arrivati, alla vigilia di Natale, fu scoperto e duramente represso un tentativo di fuga. Ai primi di gennaio i familiari di Italo Galvan si recarono in bicicletta a Bolzano nel tentativo di avere sue notizie, ma fecero appena a tempo a scorgere la colonna di prigionieri avviata verso la stazione per la deportazione. Anche qui la minaccia delle armi impedì loro di avvicinarsi. Furono in totale 501 i deportati avviati a Mauthausen con il trasporto n. 115, partito da Bolzano l’8 gennaio ed arrivato a destinazione il giorno 11 seguente; fu il terz’ultimo convoglio a partire dal campo di Bolzano, prima che la linea ferroviaria venisse irreparabilmente danneggiata dai bombardieri americani. Prima di essere deportato Andrea Zanon riuscì a far pervenire un messaggio alla famiglia, con il quale comunicava la sua prossima destinazione.

Nelle gallerie di Gusen ad aggiustare aerei tedeschi

La maggior parte dei nostri concittadini rimase a Mauthausen o al suo sottocampo Gusen; Antonio Rampon fu tradotto a Dachau, mentre Antonio Zucchi finì a Saal Donau, tristi luoghi che una folta corrente di storici revisionisti o negazionisti oggi vorrebbe interpretare come una catena di luna park costruiti dopo la liberazione dai sovietici o addirittura dall’establishment sionista per scopi turistici e propagandistici! A Gusen, tra inenarrabili stenti William Pierdicchi fu destinato alla manutenzione degli aeroplani della Luftwaffe in officine alloggiate entro gallerie scavate nella collina. Un giorno di marzo 1945 un kapò un po’ più “umano” degli altri, conoscendo la sua provenienza, lo informò che un suo concittadino stava spirando all’esterno delle baracche. Si precipitò così a raccogliere gli ultimi attimi di vita di Andrea Zanon, la cui officina di calderaio in via Castello al 10 a Schio era stata un importante centro di collegamento per l’invio di generi di sussistenza, armi, informazioni e volontari alle pattuglie in montagna. Dopo la liberazione di Mauthausen e Gusen, avvenute tra il 5 e 6 maggio 1945 ad opera dell’esercito statunitense, Pierdicchi fu rimesso in forze nell’improvvisato ospedale ivi allestito, fino ad affrontare il trasferimento verso il campo di raccolta di Bolzano gestito dagli americani. Durante la sosta per la necessaria convalescenza prima del definitivo rimpatrio, ebbe modo di apprendere la sorte degli altri 13 compagni di sventura, che mai più avrebbero fatto ritorno alle loro famiglie.

Il ritorno a casa di trentotto chili di pelle e ossa

Una volta recuperate le forze, affrontò il viaggio di ritorno con vari mezzi di fortuna, l’ultimo dei quali depositò i suoi 38 kg di pelle ed ossa davanti alla chiesa delle Canossiane, nel tardo pomeriggio del 27 giugno. Percorse a piedi via del Ferro ed il centinaio di metri che lo separavano dalla sua abitazione in via Cavour, per riabbracciare finalmente i genitori. Non si recò dall’arciprete, come riportato nei resoconti finora pubblicati: furono i suoi familiari a comunicare a quest’ultimo la sorte toccata agli altri scledensi. Maggiori dettagli sulle circostanze dei decessi (sfinimento, fucilazione, gassificazione) furono inoltre comunicati da Michele Peroni e Luigi Massignan giunti a Schio quasi contemporaneamente e diretti a Montecchio Maggiore (Vicenza). Date, luoghi dei decessi, nonché i numeri di matricola furono infine resi noti qualche tempo dopo, tramite la Croce Rossa Internazionale. Dopo ciò Pierdicchi si rinchiuse in un grande riserbo, nel desiderio di dimenticare la terribile esperienza e di ristabilirsi nel fisico e nell’animo. Ricevette una visita di Igino Piva “Romero” (ex comandante del Btg. “Apolloni” ed all’epoca capo della polizia investigativa), che lo conosceva sin da bambino in quanto uno zio di Pierdicchi aveva una bottega di barbiere in via Toaldi, vicino alla casa della famiglia Piva. “Romero”, recentemente rientrato dalla missione in Val d’Ossola e dalla liberazione di Milano, volle essere informato sui particolari del suo arresto, sulle successive traversie e sulla sorte toccata agli altri compagni. Dopo qualche settimana passata in famiglia, William Pierdicchi si trasferì dai parenti a Jesi per completare la convalescenza; riprese poi gli studi, al termine dei quali fu assunto al lanificio Rossi. Mi confidò che durante il suo soggiorno a Schio percepì una sorta di sorda invidia da parte dei familiari delle altre vittime dei lager, quasi un rimprovero per essere stato lui il solo ad essere ritornato. Ma i familiari da me intervistati negano ciò: non provarono alcun rancore, avrebbero solamente desiderato che avesse raccontato di più su quanto aveva patito e visto, qualche particolare sui propri cari… ma in lui era prevalso il desiderio di dimenticare. La mattina successiva al rientro di Pierdicchi, mons. Tagliaferro ed alcuni membri della Giunta comunale fecero le partecipazioni alle famiglie degli scomparsi. La notizia si diffuse immediatamente in città e nelle fabbriche, provocando dolore e rabbia, ed un’imponente manifestazione. I 13 antifascisti deportati a seguito della retata del novembre 1944 non furono i soli scledensi a perire nei campi di concentramento nazisti; a quanto ci consta almeno altri quattro nostri concittadini subirono la stessa sorte: Giovanni Costalunga (Harzungen 25.01.04), Gregorio Facci (Buchenwald 31.01.45), Giovanni Santacaterina (Mauthausen 16.12.44) e Gino Zanella (Gusen, 25.04.45). Le notizie dei loro decessi giunsero tuttavia isolatamente ed il dolore si mantenne nell’ambito familiare. Recenti ricerche hanno permesso di chiarire la sorte di un altro scledense, Girolamo Lompo, erroneamente riportata in taluni registri come avvenuta nei campi di concentramento. Fu sì deportato a Dachau, ma riuscì a ritornare. La drammatica esperienza lo segnò tuttavia per sempre nella psiche e cadde vittima di un forte esaurimento nervoso. Ricoverato all’ospedale di Schio dopo aver ingerito una potente dose di barbiturici, pose fine alle sue sofferenze gettandosi dal 5° piano la domenica 15 novembre 1959, morendo sul colpo. Di questo ed altro parlammo quel giorno William Pierdicchi ed io; fu un pomeriggio intenso, reso ancora più commovente dalla fitta pioggia primaverile. Mi colpì soprattutto il suo sguardo: sereno e al tempo stesso vivace, malgrado l’età e la recente malattia. Mentre parlava, con tono pacato e senza tradire emozioni, guardava lontano, di là delle Alpi, rivedeva volti, paesaggi, situazioni, miserie risalenti a quasi sessant’anni prima, che difficilmente sono immaginabili a noi, per dirla con Primo Levi, che “…viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, noi che troviamo tornando a sera il cibo caldo e visi amici…”. Caro William, grazie per la lezione di vita che mi hai dato quel giorno! Dovunque tu sia, riposa finalmente in pace: le sofferenze tue e degli altri che non riuscirono a ritornare non saranno dimenticate, non verranno disperse nel vento come avvenne per le loro ceneri. La Storia non si può negare o riscrivere. Noi non dimentichiamo!

Da Triangolo Rosso, dicembre 2004

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