Triangolo rosso

Don Angelo Dalmasso, di Cuneo, oggi ottantacinquenne, venne arrestato dai tedeschi dopo la celebrazione di una messa di Natale per i partigiani

Torturato durante gli interrogatori venne poi trasferito nel lager di Bolzano e infine nel campo di sterminio di Dachau

Ora continua la sua attività di sacerdote nella chiesa di Sant’Antonio, collegata a una casa di cura per non autosufficienti

L’ultimo prete del campo di Dachau

 

di Ibio Paolucci - Bruno Enriotti

 

Ha 85 anni ma la vitalità è quella di un cinquantenne. Don Angelo Dalmasso arriva puntualissimo all’appuntamento nella sua parrocchia di Cuneo alla guida della propria vecchia utilitaria Fiat. È l’ultimo sacerdote superstite del campo di sterminio di Dachau.

Sono nato a Robillante il 28 settembre del 1918 – comincia a raccontare - e sono stato ordinato sacerdote nella cattedrale di Cuneo il 19 giugno 1943. Mio padre era contadino, aveva una piccola proprietà. Eravamo sei fratelli. Il primo e l’ultimo erano ferrovieri, il secondo era un perito tecnico. Aveva studiato al Feltrinelli di Milano. Chiamato a militare divenne capitano del Genio e dopo l’8 settembre andò coi partigiani e diventò il comandante “Dodo” sul Col di Tenda. Il terzo fratello ero io e il quarto prima carabiniere e poi camionista del Consorzio agrario. Il quinto, infine, faceva il contadino. Mia mamma era una santa donna, una di quelle mamme di una volta, tutta casa e chiesa. Verso la fine del ‘43 - io ero un giovane sacerdote, che aveva celebrato la sua prima messa il 19 giugno del 1943 - il vescovo di Cuneo, Giacomo Grosso, mi chiese se volevo andare a celebrare la messa di Natale per un gruppo di giovani che erano saliti in montagna per dare vita alle prime formazioni partigiane. La richiesta era partita da un gruppo di giovani dell’Azione cattolica, la Giac. Io salii da loro sia per portare notizie dei loro parenti sia per portare le loro notizie ai loro congiunti, sia, soprattutto, per la messa di mezzanotte. Per raggiungerli feci circa due chilometri di mulattiera a piedi nella neve fino a Monfranco. Celebrata la messa feci ritorno a Cuneo, pensando di trascorrere le feste di fine anno in famiglia. Invece il giorno dopo fui arrestato dai fascisti. Prima mi rinchiusero in una caserma dove c’era un tenente terribile, un certo Allodi, che faceva interrogatori picchiando continuamente. Io venni interrogato da lui quattro volte. La prima volta ebbi paura, poi mi feci coraggio anche se continuarono a picchiarmi. Volevano sapere tutto sui partigiani ma io non dissi nulla e loro giù botte, mica andavano per il sottile, ne hanno uccisi tanti e poteva capitare anche a me. Di lì poi mi portarono nelle carceri di Cuneo e dopo qualche settimana a Torino, prima nella sede delle SS in via Roma e successivamente alle “Nuove”, nel braccio gestito dai tedeschi. Dopo qualche tempo mi portarono a Bolzano e, infine, nel campo di sterminio di Dachau. La cosa più brutta di quei giorni fu a Cuneo, quando mi misero contro un muro e fecero finta di fucilarmi. Confesso che ebbi una grande paura. Avevo allora 25 anni e contro quel muro credetti proprio che fosse finita. Mi rivolsi al buon Dio con le lacrime che mi rigavano il volto. Ma il nostro Signore dispose diversamente. Sono passati da quel giorno ben sessant’anni ed eccomi ancora qui”.

Chiediamo a don Angelo di tornare un po’ indietro nel tempo, di raccontarci qualcosa della sua infanzia e come gli venne la vocazione per il sacerdozio.

Quando ero ragazzo si veniva educati tutti sulla dottrina dei balilla, ma per noi in seminario era diverso. In quegli anni c’era stata una disposizione del fascismo contro le organizzazioni cattoliche, per cui nel nostro ambiente il fascismo non era ben visto. Io ho ancora un libro della quinta elementare con il volto del duce in copertina segnato da una croce. Ricordo anche che ci fu una ispezione e i nostri superiori ebbero delle grane. La vocazione l’ho avuta molto presto. Avevo due zie suore, sorelle di mio padre, che mi incamminarono su questa strada. Ho iniziato le elementari in seminario a Cuneo e da allora non ho più smesso. Poi, dato che ero un po’ indisciplinato, fui mandato dai salesiani ad Avigliana, ma lì ci stavo poco volentieri perché erano troppo severi. Dopo la licenza liceale sono tornato a fare teologia a Cuneo, nel 1941. Nel ‘43, subito dopo la mia consacrazione a sacerdote, fui nominato vice parroco della chiesa di Sant’Ambrogio a Cuneo. A Cuneo i fascisti mi interrogarono a lungo perché pensavano che io sapessi tutto sulla nascente organizzazione dei partigiani. In realtà io avevo soltanto celebrato una messa. A Dachau arrivai, proveniente dal campo di Bolzano, il 7 ottobre, giorno della Madonna del Rosario, e vi rimasi fino alla liberazione. A Cuneo tornai il 29 aprile del 1945. A Dachau prima mi misero in una baracca di quarantena, poi in quella dei sacerdoti. Nel campo c’erano 3.800 preti, in maggior parte polacchi, che facevano vita per conto loro. In Germania c’era ancora il nunzio apostolico, che si interessò, a nome del papa, affinché i sacerdoti deportati non venissero messi nelle squadre di lavoro. Ma fu la cosa più brutta che potevano fare perché ai deportati che lavoravano davano un supplemento di pane, il cosiddetto “zeitbrot”. Così ci venne tolto quel pezzetto di pane, necessario per sopravvivere. Noi, però, riuscimmo comunque a tornare nelle squadre di lavoro per avere nuovamente il diritto a quel piccolo supplemento di pane. Io dico pane, ma in realtà non si sa bene che cosa fosse, un impasto di segatura unito a qualche altra porcheria. Ma era comunque qualcosa da mettere sotto i denti. La verità è che chi non c’è stato non può capire come è stata la nostra vita nel campo. Ci facevano alzare alle quattro e mezzo di notte, poi c’era l’adunata che spesso durava anche 3-4 ore perché ci contavano più volte soprattutto quanto i conti non tornavano. Verso le otto si tornava nelle baracche per quello che chiamavano il tè, ma che era in realtà solo un po’ di erba cotta, falciata nel pantano del campo, quindi c’era chi andava a lavorare, mentre gli altri restavano nelle baracche. A mezzogiorno c’era un’ora per il “pranzo”, una brodaglia fatta con dei crauti viola, poi si tornava a lavorare fino alle sei quando si faceva ritorno nelle baracche dove ci attendeva un’altra brodaglia. Infine c’era la libera uscita fra le baracche di numero pari perché quelle di numero dispari erano per la quarantena o per gli ebrei. Io sono sempre stato fra i preti, soprattutto fra i preti italiani. Noi italiani eravamo trattati peggio degli altri, a parte i russi che erano trattati anche peggio di noi. Come contrassegno avevamo una striscia di capelli rasata dalla fronte alla nuca ed eravamo considerati i paria del campo. Gli altri ricevevano qualche cosetta dalla Croce rossa, noi niente. Io per poter avere un pezzo di pane in più sono andato a lavorare. Prima mi facevano lavorare di picco e pala, poi sono riuscito ad entrare in una squadra che lavorava gli stracci. Si facevano delle strisce che venivano arrotolate per farne una specie di cuscini che venivano usati per ammortizzare i colpi delle navi contro i moli. Poi per me la situazione è ulteriormente migliorata. Mi hanno messo a fare le asole alle quali attaccavamo dei bottoni su dei teloni mimetici per le tende e questo lavoro l’ho fatto fino alla fine”.

Gli chiediamo, a questo punto, che cosa abbia fatto dopo la liberazione.

Sono tornato a Cuneo, ma dato che parlavo bene il francese, prima sono stato destinato al campo di Alak, a pochi chilometri da Dachau, per assistere gli italiani e i francesi assieme a un prete polacco. Poi gli italiani sono tutti scappati e allora io mi sono detto ma cosa ci sto a fare qui, per i francesi c’è il prete polacco, e così sono scappato anch’io. Non lo avessi mai fatto perché andare a Monaco era pericoloso. C’erano molti sbandati che gli ex prigionieri li prendevano e li uccidevano. Ma io sono andato lo stesso e arrivato a Monaco mi sono messo a cercare una chiesa, che ho trovato quasi subito, ed era la chiesa della Santissima Trinità. Lì ho visto un pretino e ho cercato di parlargli in latino, visto che non conoscevo il tedesco. Ma lui deve aver pensato che ero uno dei soliti sbandati e non mi ha dato retta. Poi, per fortuna, è arrivato un missionario scalabriniano che mi ha portato in un collegio che lui aveva requisito per raccogliere gli sbandati. Io, per un po’, l’ho aiutato nel suo lavoro, ma poi, con altri italiani, sono nuovamente scappato e sono arrivato fino al Brennero. Ma anche lì abbiamo avuto qualche difficoltà perché gli italiani non ci hanno fatto passare il confine, ignoro per quale motivo. Allora siamo andati ad Innsbruck, ospiti di una colonia del vescovo. Finalmente la Caritas, che allora si chiamava Pontificia commissione di assistenza, venuta apposta da Milano, ci ha riportato con dei pullman in Italia. Io sono sceso a Monza e ricordo di avere detto la prima messa nel duomo di quella città la sera del Corpus domini, che mi pare fosse l’ultimo giorno di maggio. Con le cinquecento lire che ci dette il cardinale Schuster, io presi il treno e arrivai a casa. Pesavo allora 29 chili, mentre il mio peso normale oscillava fra i 65 e i 70”.

Gli chiediamo se sapeva quello che succedeva nel campo, degli orrendi crimini commessi dai nazisti.

Si sapeva sì perché capitava sotto i nostri occhi. Vedevamo sempre i “tamagnon”, i vagoni come li chiamavano là, colmi di cadaveri destinati al crematorio. Poi c’erano le punizioni che venivano inflitte in pubblico, le adunate di notte, le perquisizioni all’ordine del giorno, le botte. Noi sacerdoti eravamo trattati come tutti gli altri, forse anche peggio, per loro il buon Dio non c’era. Solo verso la fine le cose si sono un po’ ammorbidite, visto che ci hanno permesso di organizzare in una delle baracche una specie di cappella dove si poteva dire la messa. A celebrarla ordinariamente era il vescovo di Clermont Ferrand. Il trattamento però continuava ad essere durissimo. Ricordo che una volta che ci avevano fatto tornare nel campo in tutta fretta perché era suonato l’allarme, io ho trovato nel posto dove dovevo stare un tedesco. Ci siamo messi a discutere, ma immediatamente è arrivata una SS che con quella specie di anelliera di acciaio tra le dita mi ha colpito al volto facendomi saltare due denti. La mia fortuna, comunque, è stata di non ammalarmi mai, a parte qualche modesto raffreddore”. ‘‘

Ci parli ora della liberazione del campo.

I giorni della liberazione sono stati l’apocalisse. Noi, negli ultimi giorni, quando già si sentivano i colpi di cannone, siamo stati chiusi nelle baracche. I tedeschi ci impedivano di uscire. Noi sacerdoti sapevamo che Himmler aveva ordinato che nessun prigioniero cadesse vivo nelle mani dei liberatori. L’ordine era di bruciare vivi tutti con i lanciafiamme. Io allora avevo 25 anni e posso dirvi che non mi sorrideva per niente l’idea di essere arrostito. Qualcuno cominciava a dare di matto. Un gesuita belga si è alzato in piedi e ha detto: stiamo calmi, la storia guarda a noi, diamo esempio, comportandoci come i martiri cristiani. Ma quando hai paura di essere bruciato, mica è facile mantenersi calmi. Ma qualcosa dovevamo fare, ed ecco che un altro prete belga, pur sapendo di correre un grosso rischio, sfondò un finestrone della baracca e non successe niente. Silenzio. Lo vedo ancora dirigersi verso il cancello d’ingresso e lo sento ancora urlare in latino: Sunt americani, sunt americani. Ed era proprio così. Ed è allora che la baracca si è sfasciata ed è cominciata l’apocalisse. Tutti fuori e tutti a gridare come pazzi dalla gioia. Il futuro cardinale cecoslovacco Trotta, che era nella baracca con me, mi fa: andiamo a vedere di trovare qualcosa da mangiare. Con noi c’era anche il cardinale Bera, arcivescovo di Praga. I kapò non li abbiamo visti perché erano tutti scappati. C’erano rimasti soltanto i ragazzini di 14-16 anni, incamerati nelle SS. Quando i prigionieri ne vedevano uno gli facevano saltare la testa. Noi sacerdoti ne abbiamo salvati parecchi, nascondendoli nella nostra baracca. Io conservo ancora il triangolo rosso che ho portato a Bolzano e a Dachau e anche la striscia con la croce gialla destinata a noi preti. Attualmente sono presidente della sezione Aned della provincia di Cuneo. Purtroppo siamo rimasti in pochi, il tempo passa per tutti. Vado sempre a parlare nelle scuole, mi chiamano spesso. Mi accolgono sempre bene, anche in istituti come l’Itis di Grugliasco, dove ci sono andato con un po’ di timore perché era presente una certa contestazione. Invece anche lì mi hanno accolto molto bene. Ai ragazzi racconto la mia storia e loro mi ascoltano

sempre con molta attenzione e mi fanno molte domande”

E ora, don Dalmasso, ci dica come sono i suoi rapporti con la curia.

Buoni, sono sempre stati molto buoni. Quando sono tornato da Dachau il vescovo mi ha detto: ti hanno portato via quando eri vice parroco di Sant’Ambrogio e ora torni in quello stesso posto. Poi si è aperto un posto di direttore in un orfanatrofio e ci sono andato. Non lo avessi mai fatto. Lì c’era il matriarcato, comandavano le suore. Ho resistito sei mesi, ma quando mi hanno fatto la proposta di andare a fare il cappellano militare, ho subito accettato. Prima sono andato ad Albenga dove si costituiva la divisione Mantova, poi ci hanno trasferito a Palmanova. Infine, quando hanno restituito la Somalia all’amministrazione italiana, sono andato lì come cappellano del corpo di sicurezza. Ci sono rimasto due anni e mezzo, dal ‘48 al ‘50. Poi, dopo tutto quel tempo, ho chiesto di tornare a Cuneo. Il vescovo mi ha detto: guarda c’è un paesetto di montagna, non è parrocchia, bisogna costituirla e bisogna ricostruire la chiesa. Se ci vuoi andare il posto è tuo. Io allora non avevo paura di niente e ci sono andato. Il paese era San Lorenzo di Caraglio, una frazione di campagna con circa 800 fedeli, che poi sono diminuiti perché in campagna bisogna o organizzarsi o morire. Io ho rifatto completamente la chiesa e ci siamo costituiti in parrocchia perché allora se non si era parrocchia non si aveva diritto alla congrua del governo. Ora, dopo 48 anni di vita difficile, faccio il prete a Cuneo nella chiesa di Sant’Antonio, che fa parte di una casa di cura per non autosufficienti, che è stata completamente restaurata”.

Come è nato il suo antifascismo, don Dalmasso?

In seminario. I sacerdoti, nostri insegnanti, ci facevano capire che la via del fascismo era sbagliata, anche se fuori dovevamo dire di sì. Quando sono diventato sacerdote, nel giugno del ‘43, il fascismo non aveva più campo. Io vivevo in una provincia dove tanti giovani erano morti in Grecia o in Russia. La Gioventù dell’Azione Cattolica, la Giac, era allora profondamente antifascista. La quasi totalità della gioventù cattolica era andata coi partigiani. Per questo anch’io andai su in montagna per la messa di mezzanotte. Quei ragazzi non volevano restare senza messa il giorno di Natale”.

Da Triangolo Rosso, marzo 2003

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