Triangolo rosso

60 ANNI DOPO L’ARMISTIZIO

“Il mio otto settembre”

Il presidente dell’Aned, Gianfranco Maris rievoca le vicende e i significati di quella data

Che cosa ci insegna questa storica data che non segnò la morte della patria,

ma che, al contrario, ha portato alla nascita di una Italia nuova, democratica e antifascista

 

di Gianfranco Maris

 

Qual è, oggi, veramente, nella nostra comunità, la memoria storica dell’8 settembre del 1943? Fu morte della patria, senza più rinascita, da cui residuerebbe ancora un perdurante deficit etico, che appanna il senso di appartenenza e di identità nazionale dei cittadini italiani? Oppure fu una frattura tra la vecchia Italia conservatrice dell’esercito e delle istituzioni risorgimentali, dal cui sfascio deriva la nascita dell’Italia nuova, quella dell’antifascismo? O fu, infine, un episodio esistenziale lacerante, che scatenò reazioni legittime, ancorché discordi e contrapposte, creando schieramenti divisi fra due parti passionalmente impegnate, in conflitto fra di loro ed in contrapposizione anche ad un’altra parte, rinunciataria, indifferente, estraniata alle vicende, nell’attesa dell’esito della guerra e dell’occupazione? Nessuno dei tanti commentatori di questi eventi è stato testimone dei fatti. I loro giudizi discendono dalle cronache, dagli atti delle commissioni di indagini sulla mancata difesa di Roma, dalle ricerche storiche. Per chi ha ancora negli occhi i fatti, che si svolsero in quei giorni lontani, è persino faticoso riconoscere in tutte queste posizioni laceranti una complessa verità, che pure indubbiamente vi è, perché a chi fu testimone i fatti parlano di un’altra verità, più complessa, più tragica, più coinvolgente per un intero popolo. Ed io quei fatti li ho ancora negli occhi e nel cuore. L’8 settembre 1943 mi trovavo nell’alta Croazia, ufficiale comandante di un reparto di fanteria del nostro esercito. Nella notte il soldato di turno alla radio mi chiamò urlando: aveva colto un messaggio che non aveva capito, che parlava di fine della guerra, un messaggio confuso, senza ordini, senza indicazioni, che non sapeva neppure da quale radio fosse stato diramato. Inutilmente da quel momento cercai di prendere contatti con il mio comando di reggimento. Né nella notte dell’8 né nel successivo giorno 9 né il mattino del 10 riuscii più a cogliere un messaggio o a prendere un contatto qualsivoglia con nessun comando. La mattina del 10 settembre transitò, sul binario di una linea ferroviaria dimenticata, un convoglio con i soldati del reggimento di artiglieria della mia divisione e da un ufficiale che conoscevo, il fratello di Elio Vittorini, seppi che tutti avevano lasciato le loro postazioni per ripiegare verso l’Italia, perché da Carlovaz l’esercito tedesco in forze procedeva catturando, imprigionando, deportando i nostri soldati. Decisi di partire e con il reparto inquadrato, militarmente, correttamente inquadrato percorsi 185 km a piedi, senza più incontrare nessun comando, senza nessun ordine, senza muli, senza carri, senza cibo, sino a quando non arrivai a Susac, dove fui sommerso da un mare di sbandati che si ammassavano in disordine, tentando di penetrare nella città; dove, appena giunti, il generale Gambara ci dirottò nel campo sportivo, per indicarci il dovere di aderire ad una scelta di collaborazione in armi al fianco dei tedeschi. Quasi tutti abbandonammo il campo sportivo per ritrovare ciascuno un itinerario di salvezza e di libertà e nello sbando anch’io raggiunsi Trieste, insieme a molti altri, per scegliere la strada della partecipazione alla Resistenza armata nel mio Paese. L’8 settembre fu quindi per ogni uomo, al di là di ricostruzioni fatte oggi al tavolino, una svolta etica, politica, esistenziale che coinvolse milioni e milioni di cittadini. Due milioni e mezzo di uomini erano sotto le armi, e sulla loro sorte incombeva la deportazione. L’ansia per la loro sorte coinvolse due milioni e mezzo di padri e madri, due milioni e mezzo di fratelli, figlie, sorelle. E su tutti incombeva l’incertezza, il disorientamento, lo sgomento per la propria sorte e per le attese oscure e minacciose di una occupazione straniera del Paese. Per tutta la nazione, per tutto il popolo, per tutti, tutti, fu una svolta etica, politica, esistenziale. Fu una tragedia dalla dimensioni corali della tragedia greca, che investì un intero popolo e che tutti costrinse a decisioni estreme. È questo che ha fatto, per ogni uomo e per ogni donna del nostro Paese, dell’8 settembre un nodo fondamentale della storia d’Italia; il momento in cui si posero le condizioni, le ragioni, l’urgenza di valutare, fra tutte le scelte possibili, la necessità ed il dovere di schierarsi, di assoggettarsi o di liberarsi dalla soggezione di oltre 70 anni a una classe dominante violenta, retriva e irresponsabile. Fu il momento della verità. L’abbandono dello Stato e dell’esercito, delle istituzioni e del popolo da parte del re e dello Stato maggiore al suo seguito, per l’esclusivo fine di salvare l’istituzione monarchica e la vita dei fuggitivi, senza lasciare alcun ordine chiaro per l’esercito e per le istituzioni civili, e per la salvezza del popolo, furono la prova dell’estraneità del fascismo e della monarchia alle sorti del Paese. La colonna dei fuggitivi, che non lasciò ordini chiari neppure per la difesa della città di Roma, non fu che il coerente sviluppo della linea politica dei 45 giorni del governo Badoglio, nel corso dei quali tutto fu crudelmente fatto per impedire ai cittadini, al popolo, una consapevole partecipazione alle gravi vicende che percuotevano il Paese. Il governo Badoglio non liberò neppure dal carcere i condannati del Tribunale speciale fascista! Castellano promise agli americani, sottoscrivendo l’armistizio breve a Cassibile, un’attiva partecipazione degli italiani alla lotta contro i tedeschi, ma Badoglio ed il re non ne vollero sapere. Partirono all’alba del 9 settembre e furono paghi del fatto che, sulla Tiburtina, marciando verso Ortona per imbarcarsi sulla corvetta Baionetta, fu a loro consentito di superare per ben 3 volte il blocco delle truppe tedesche, solo declinando una sorta di parola d’ordine per avere via libera: “Siamo ufficiali superiori”. Erano “ufficiali superiori” e quindi fu loro consentito raggiungere un approdo di sicurezza a Brindisi. A tutti gli altri fu aperta soltanto la via del lutto, del sangue e delle lacrime. Ma la patria non morì, perché vi fu il lavoro del governo del sud, dei militari dell’esercito di liberazione che risalì l’Italia al fianco degli alleati e vi fu il lavoro dei Comitati di liberazione nazionale al nord, dei partigiani, con la Resistenza contro l’occupazione tedesca ed i collaborazionisti fascisti, che, saldandosi fra di loro, circoscrisse il collasso dello Stato e preparò la nascita della Repubblica e della Costituzione, che parla ancora di patria e che indica ancora nella pace e nella intesa tra i popoli la strada per la libertà e la promozione sociale.

Da Triangolo Rosso, marzo 2003

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