Triangolo rosso

Il primo giorno di pace nei pressi di Varsavia

Una straordinaria festa del primo maggio

Fuochi artificiali e personaggi che ricordo con struggente nostalgia

Così in ospedale coi russi quel giorno di 58 anni fa

 

di Ibio Paolucci

 

Fu Natascia a dirmi di affacciarmi alla finestra, rossa come una bandiera rossa per l'emozione: “Voina kaput. Poniemaisc? Voina kaput”. Dava nel cortile del piccolo ospedale la finestra e lì lo scenario era di straordinaria eccitazione. Uomini e donne che si rincorrevano, che si abbracciavano, che lanciavano in aria le bustine militari, che gridavano parole per me incomprensibili, che urlavano la loro gioia, che passavano dal riso alle lacrime e viceversa. Il giorno della pace: quel “Voina kaput” era questo che significava. Voina, che, in russo, vuol dire guerra e kaput, in tedesco, che tutti sanno cosa vuol dire. La notizia, naturalmente, non giunse inaspettata. Con l'Armata rossa a Berlino, i giorni del Terzo Reich erano contati. Chiuso nel suo bunker, ormai consapevole della disfatta, Hitler si era suicidato con Eva Braun e il suo cane e la notizia era stata diramata dalla radio, accompagnata dalle dolenti note dell'adagio della settima sinfonia di Bruckner. Di fatto la vittoria era già stata celebrata il primo maggio, nell'ospedaletto, con una grossa festa, con un lauto pranzo per i tempi e con uno spettacolo che a me era parso addirittura super. Ogni membro del personale sanitario si era prodigato nello spettacolo: chi come ballerino, chi come pianista, chi come cantante, chi come attore. Natascia, per esempio, assieme ad un'altra infermiera, si era prodotta in uno sfrenato balletto, con costumi popolari, dio sa dove se li era procurati. Persino il direttore dell'ospedale, il maggiore medico di cui ricordo solo il nome e il patronimico, Anton Pavlovic, perché è eguale a quello di Cecov, partecipò recitando una poesia di Lermontov. Anton Pavlovic aveva allora una quarantina di anni, parlava il francese e mi aveva preso a benvolere, probabilmente per la mia giovanissima età e perché anch'io me la cavavo con il francese. Libero dagli impegni veniva spesso a chiacchierare con me, entusiasmandosi oltre misura nell'apprendere che avevo letto alcuni romanzi di autori russi, Tolstoi e Dostoievski, Turgheniev e Cecov. Mi trovavo bene in quel piccolo ospedale situato in aperta campagna, a pochi chilometri da Varsavia. Lì c'ero capitato dopo una visita medica collettiva nel casermone di Rembertov, che all'epoca ospitava centinaia di stranieri, reduci dalla prigionia dei campi di concentramento. Fra gli italiani, moltissimi gli IMI (internati militari italiani), fra cui anche un famoso terzino del Bologna “che tremare il mondo fa”, di cui, però, non rammento il nome. La dottoressa che mi aveva visitato aveva scoperto una ghiandola nel collo, che poi si rivelerà come una adenopatia latero cervicale destra di tipo specifico, consigliando il ricovero. A me la novità non era piaciuta né dispiaciuta. Peraltro, come mi era stato precisato, si trattava di una breve parentesi, necessaria per alcuni accertamenti. “Sarà il sole d'Italia a guarirla - mi aveva detto la dottoressa - ma intanto un po' di cura ospedaliera le farà bene”. Bene, soprattutto, mi fece l'accoglienza. Proprio Natascia, con modi simpaticamente rudi, mi fece spogliare e, nudo come mamma mi aveva fatto, mi fece entrare in una grossa tinozza e cominciò ad insaponarmi, ridendo per il mio imbarazzo. Ma era piacevole in fin dei conti, visto, oltre tutto, che era da un bel po' che non mi facevo il bagno. Ripulito per bene, Natascia mi consegnò un pigiama più o meno della mia taglia, pulitissimo, stiratissimo, persino discretamente elegante. “Karasciò?” mi chiese Natascia, che era una ragazzona belloccia, pochi anni più di me, che ne avevo diciotto, cittadina di Leningrado, a quanto seppi in seguito, soldatessa da qualche anno. Conobbi anche il suo patronimico, Ivanovna, di cui peraltro non feci mai uso. Per loro, però, del patronimico non se ne poteva proprio fare a meno. “Se non lo si conoscesse, come si farebbe a parlare?”, ridacchiò il direttore. Grandi chiacchierate col maggiore: tante domande sull'Italia, sulla mia città, che era allora Genova, su come si viveva sotto il fascismo, su come ero capitato da quelle parti. Tante chiacchiere, mentre le cure consistevano, sostanzialmente, in un mezzo bicchiere al giorno di olio di fegato di merluzzo. Che io, fra l'altro, cedevo quasi interamente al mio vicino di letto, un ex capo stazione di una cittadina cecoslovacca, che pesava oltre un quintale quando i tedeschi lo presero, mentre si era ridotto a meno della metà al momento della liberazione. Così, per rifarsi, da me e da altri prelevava quell'olio disgustoso, lo versava in un tegamino mischiandolo con un po’ di burro e dopo averlo scaldato lo ingurgitava come fosse rosolio. Altro personaggio di quell'ospedaletto, che ricordo con struggente nostalgia, era uno spilungone magrissimo, reduce da Auschwitz, ebreo, ex docente dell'università di Riga. Ricoverato anche lui, prestava la sua opera come coordinatore della cucina ma soprattutto come interprete, visto che praticamente conosceva tutte le principali lingue europee, oltre la propria. Di italiano masticava poco, ma se la cavava aiutandosi con il francese e lo spagnolo. Aveva l'età di mio padre, classe 1901, e anche lui mi si era affezionato e mi mostrava concretamente il suo quotidiano affetto permettendomi di raschiare le pentole, nel cui fondo restava sempre attaccato qualcosa da mangiare. Era un tipo mitissimo, che, però, quando gli capitava di parlare o di sentir parlare dei tedeschi si trasformava tanto era l'odio che gli sprizzava da ogni parte del corpo. Gli occhi, poi, parevano due lanciafiamme, che, sono certo, qualora gli si fossero parati davanti dei tedeschi, li avrebbe inceneriti. Un odio inestinguibile: i genitori, la moglie e una figlia di dodici anni erano tutti finiti nelle camere a gas. Si era salvato, nemmeno lui sapeva perché e non certo per la perfetta conoscenza della lingua dei suoi carnefici, che, nel campo di sterminio, si era imposto di non parlare in nessun caso, sperando che questo suo atteggiamento di protesta non venisse meno. Non aveva ceduto il nostro professore ebreo, fiero di avere resistito, di avere mantenuto integro questo suo piccolo patrimonio di dignità. Di ebrei nel nostro campo, che era un lager di lavoratori coatti prevalentemente polacchi, ma anche con gruppi di jugoslavi e di italiani, adibiti a scavare “panzergraben”, che avrebbero dovuto bloccare l'avanzata dei carri armati sovietici, non ce n'era. Con qualche ebreo tuttavia mi era capitato d'imbattermi. Un giorno di primo autunno, io e una decina di altri compagni di sventura, venimmo spediti in un altro campo per scaricare sacchi di cemento, non so per quale uso. A un certo punto, al di là di un reticolato, vedemmo un gruppetto di donne con vestiti azzurri a strisce verticali blu. Erano chine su un qualcosa che non distinguevamo e ci parve che parlottassero fra di loro. Una di esse si staccò un po' dalle altre e vidi distintamente che stava orinando rimanendo in piedi. La cosa mi colpì enormemente, non mi era mai capitato di vedere una scena del genere. Di colpo arrivò un donnone vestito allo stesso modo ma con stivali e un bastone col quale, urlando, cominciò a colpire a caso quelle donne, che fuggirono scomparendo dietro una baracca. “Sono ebree”, disse un polacco che faceva parte della nostra squadra. Un altro incontro, se così può definirsi, ci capitò dopo la liberazione. Guidati da due soldati russi, che dovevano accompagnarci alla prima stazione ferroviaria funzionante, da dove il treno ci avrebbe portato a Varsavia, percorrevamo in pieno inverno, una ventina di gradi sotto zero, una strada di campagna, quando sul nostro percorso notammo a poca distanza l'uno dall'altro, quelli che, a tutta prima, ci parvero dei fagotti di stracci. Erano invece cadaveri tutti rattrappiti dal gelo. “Ebrei”, disse uno dei due militari, mostrandoci col dito, su uno di essi, la stella di David. I morti, certamente, facevano parte di uno di quei cortei della morte, di cui seppi in seguito, lungo la cui rotta erano più quelli che cadevano stremati dal freddo e dalla fame e che venivano regolarmente uccisi dai tedeschi, che quelli che riuscivano a sopravvivere. Mi trovavo bene in quell'ospedaletto. Fra questi russi e quelli del casermone di Rembertov la differenza era abissale. Qui era la gente russa nella sua autenticità che mi conquistò sin dal primo momento. Là era l'ingessata, burocratica ufficialità che rendeva scostante ogni approccio. Per di più, a peggiorare le cose, arrivò Paolo Robotti, cognato (ma allora l'ignoravo) di Palmiro Togliatti, in una fiammante uniforme russa. Nel grosso capannone che serviva da mensa fummo tutti invitati e tutti andammo comprensibilmente curiosi di ascoltare la voce di un italiano fuggito dall'Italia per via del fascismo e da tanti anni residente nell'Unione Sovietica. Robotti (ma anche questo allora non lo sapevo) aveva anche conosciuto le galere di Stalin ed era anche stato duramente torturato, ma questo non lo aveva piegato né aveva minimamente scosso la sua fiducia nell'Urss, né tanto meno nel Partito comunista. Quelli erano i tempi e quelli erano gli uomini, come recitava il titolo di un romanzo di Ostrovski, temprati nell'acciaio e, come l'acciaio, per nulla flessibili, nonostante si definissero seguaci della dialettica. Il catechismo della “Storia del Pc(b)”, d'impronta rigorosamente staliniana, era il loro vangelo. Il discorso che fece non si discostava da quella linea e proprio per questo era il meno indicato per quell'uditorio, poco propenso ad accettare che tutto fosse nero in Italia e negli altri paesi capitalistici, Stati Uniti compresi, e tutto radioso nell'Unione Sovietica. Avesse detto la verità: la verità dei sacrifici immani, dei milioni di morti, delle città e dei villaggi distrutti dai nazisti, della resistenza eroica, della fame e del freddo, dei torturati e degli impiccati e della terribile miseria prodotti dalla guerra, non so se ci avrebbe conquistati, ma certo sarebbe risultato più convincente. Mi trovavo bene in quell'ospedaletto dove mi colse la fine della guerra. Grande festa nel quartiere di Praga, il solo rimasto in piedi a Varsavia. Strepitosi fuochi di artificio la sera che noi vedemmo dalla finestra. “Ora tornerai presto al tuo paese, nella tua bellissima Italia” mi disse il maggiore Anton Pavlovic, che, poco prima, era entrato nella nostra camera con due bottiglie di spumante georgiano, lo champagne sovietico. “Le ho tenute per questa occasione - disse - per fare assieme, diciamo così, uno storico brindisi alla pace. E oggi è proprio storico il nostro brindisi, non è per niente esagerato l'aggettivo, sono quattro anni che aspettiamo questo giorno, noi vivi”. C’eravamo tutti in quella stanza, malati e personale sanitario e tutti alzammo i bicchieri felici. Non tutti. Mancava l'interprete, inutilmente cercato in tutte le stanze dell'ospedaletto. Ricomparve molto più tardi e quando gli chiesi come mai si fosse assentato: “In quei momenti - mi disse - mi sono visto davanti agli occhi i miei morti e in testa a tutti mia figlia, quella povera bambina che mi sorrideva venendomi incontro. Come potevo restare con voi, guastare la vostra allegria? Dovevo andare in un posto dove non c'era nessuno per potermi sfogare nel pianto. Ma ora eccomi qui perché nonostante tutto la vita continua. Però non tornerò a Riga. Non potrei sopportarlo. Chiederò di poter insegnare in un'altra qualsiasi città, comunque fuori dalla Lettonia, sai perchè? Sono stati fascisti lettoni, inquadrati nelle SS tedesche, ad arrestare la mia famiglia”. Così, per me, terminò quella giornata indimenticabile del maggio di 58 anni fa. L'Italia era ancora lontana. Soltanto ai primi di settembre iniziò il viaggio di ritorno, che durò un intero mese, attraverso l'Ucraina, l'Ungheria, l'Austria. Prima, da Varsavia, ci avevano trasferito a Sluzk, nella Bielorussia. Ma questa è un'altra storia, peraltro raccontata magnificamente, nella “Tregua”, da Primo Levi.

Da Triangolo Rosso, marzo 2003

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